Salvatore
Veca,
La priorità del male
e l’offerta filosofica,
Feltrinelli, pp. 190, euro 14
Quando la filosofia si occupa della politica e
della vita… Potrebbe essere questo il sottotitolo
o il minimo comun denominatore del lavoro teorico di
Salvatore Veca – tra le tante altre cose, docente
di Filosofia politica all’Università di
Pavia, dove è preside della Facoltà di
Scienze Politiche, già presidente della Fondazione
Feltrinelli tra il 1984 e il 2001. Ma, soprattutto,
il “capofila”, per così dire, di
un filone di studi – da lui stesso, in buona parte,
introdotto in Italia, a partire dalla celeberrima Teoria
della giustizia di John Rawls – alimentato
dal meglio della teoria politica e della filosofia pratica
di matrice anglosassone. Della quale, Veca, ci propone,
rivisitato in modo originale, il periodare, le modalità
di ragionamento e quelle del procedere e avanzare nella
riflessione, e un certo stile di scrittura oltre che
di analisi.
In La priorità del male e l’offerta
filosofica, Veca rielabora numerosi saggi e articoli
degli ultimi tre anni, periodo nel quale il pensiero
è stato messo a “dura prova” dalla
realtà e ha dovuto confrontarsi significativamente
con gli eventi occorsi – a partire dal proliferare
delle “guerre giuste o ingiuste” e dei clash
of civilizations, mettendo in forse e in questione,
in primis, l’idea stessa di giustizia, costretta
a globalizzarsi per tenere il passo col passaggio dalla
“costellazione nazionale” a quella “postnazionale”.
Nel volume Veca mette a punto alcuni dei temi –
o delle “questioni”, come direbbe Thomas
Nagel – su cui la sua riflessione degli ultimi
anni ha maggiormente insistito: gli human rights
e il dibattito sulla liceità dell’interventismo
umanitario, la giustizia sociale e quella internazionale
(“[…] la difficoltà della ricerca
di possibilità politiche e istituzionali di un
mondo meno ingiusto non rende meno doveroso il compito”,
p. 7), la distinzione e il gioco dei rimandi tra il
fare teoria (di cui va salvaguardata l’indispensabile
e irrinunciabile autonomia) e il fare politica, il cosmopolitismo,
l’eterno contrasto Kant/Hobbes, il tema della
responsabilità di fronte alla scienza e alle
tecnologie in costante avanzamento (evitando di cadere
in atteggiamenti “fideistici” di qualunque
natura) e gli “enigmi socratici”, come li
chiama lo studioso (a partire dalle “cose dell’amore”,
ovvero i momenti centrali della vita quotidiana, prediletti
oggetti di indagine da parte della filosofia analitica).
Leggere il libro significa seguire l’autore all’interno
di una sorta di autentico “cantiere filosofico”,
vedere il pensiero svolgersi e misurarsi con il reale,
definirsi e focalizzarsi, mettere a punto il concetto
e intrecciarlo con un altro, successivo; un work
in progress, dunque, che scaturisce dalla pagine
del volume e che rappresenta, nel suo accadere, per
così dire, live di fronte agli occhi
(e nella mente) del lettore, uno dei motivi di maggiore
interesse dei testi di Veca.
Il punto di partenza e il trait d’union
dei saggi raccolti coincide con la messa in luce della
“priorità del male” nell’esistenza
degli esseri umani e con l’esplorazione delle
modalità per ridurlo, all’insegna di una
“prospettiva minimale” che punta alla riduzione
per tutti, quanto più possibile, della quota
di dolore cui siamo costretti. Un “minimalismo
filosofico” come guida per orientarci nella realtà,
che manifesta le medesime radici di un riformismo e
di un “migliorismo” politici in senso alto
(cui il filosofo si applicava, all’indomani di
certa sbornia radicaleggiante ed estremistica della
sinistra anni settanta), dimostrando come queste categorie
non costituiscano meri slogan o “frasi fatte”,
ma modalità di lettura e intervento effettuale
sulla realtà, per cambiarla e non per farsene
dominare.
«Adottando il gergo politico ereditato, questo
è vero tanto nella tradizione della sinistra
socialista, liberale e progressista, entro cui si situa
il mio frammento biografico, quanto nella tradizione
della destra conservatrice. La consapevolezza delle
mutevoli connessioni tra il fare teoria e il fare politica,
che emerge dall’analisi, non riduce naturalmente
l’intensità degli impegni. La consapevolezza
dà loro soltanto un senso più perspicuo.
E induce a un elogio dell’autonomia del fare teoria,
rispetto all’agenda dettata dai mutevoli soggetti
della politica. In parole povere, ogni gesto di teoria
è e deve essere, in primo luogo, un gesto di
autonomia. Se le cose stanno così, la conclusione
è che dovremmo essere più radicali ed
esigenti nel fare teoria, proprio in virtù della
consapevolezza d’autonomia» (p. 8). Una
rivendicazione della radicalità del fare teoria
e del pensare che non è per nulla in contrasto
con l’idea gradualista dei diritti umani e del
miglioramento dello stato delle cose nella direzione
di quella che Rawls, grande passione dell’autore,
chiamava la “società giusta”.
Veca si conferma un pensatore moderatamente relativista,
appartenendo, dunque, a una schiatta assai diversa da
quella dei corifei del relativismo assoluto (o, come
potremmo etichettarlo, con un ossimoro, dell’assolutismo
relativistico), sempre esposti (non esenti, in questo,
da una discreta dose di autocompiacimento) alla possibilità
molto concreta dell’irresponsabilità. L’autore,
relativista, per l’appunto, “con giudizio”,
e “ironico liberale” (per riprendere una
bella espressione di Richard Rorty) ci presenta nel
libro l’”autoritratto” di un filosofo
alle prese con il pensare (perché filosofare,
ci ricorda sulla scorta di Paul Valéry, ha sempre
a che fare con l’autobiografismo). E nella sua
biografia, tra grammatiche della libertà e razionalità
limitate, la stella polare rimane sempre quella dell’Illuminismo,
in una versione non totalizzante (sulla quale, probabilmente,
qualche ragione ce l’avevano pure i francofortesi…),
ma, ancora una volta, “minimalista”, fondata
sull’idea di un uso pubblico della ragione. E
non è poco, in tempi di postmodernità
e antipolitica imperante; abbastanza, comunque, per
far ripartire un discorso pubblico progressista di cui
abbiamo fortemente bisogno.
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