La versione
integrale di questo articolo è apparsa sul numero
83 della rivista Lettera
internazionale.
Suppongo
di essere slovacco ma non ci ho mai riflettuto troppo
e non ho mai fatto alcuno sforzo consapevole per essere
slovacco, allo stesso modo in cui non ho fatto alcuno
sforzo consapevole per essere un uomo. Ma, devo ammetterlo,
c’è stato un tempo in cui consideravo certi
fenomeni come tipicamente slovacchi, l’epitome
della slovacchità. Per esempio, da bambino passavo
le vacanze con mia nonna nella Slovacchia centrale.
Per questo motivo ritenevo che certe parole che sentivo
lì – parole come “padlásˆ”,
“frusˆtik”, “pigl’ajz”
o “upískany´” – fossero
la quintessenza della slovacchità. Solo più
tardi, e con grande disappunto, appresi che “padlásˆ”,
che significa soffitta, viene dall’ungherese “padlás”,
“frusˆtik”, che significa colazione,
viene dal tedesco “Frühstück”,
“pigl’ajz”, che significa ferro da
stiro, viene dal tedesco “Bügeleisen”
e “upískany´”, che significa
sporco, viene dall’ungherese “piszkos”.
E il peggio doveva ancora arrivare: c’è
un particolare formaggio di pecora che è, per
così dire, endemico in una certa regione della
Slovacchia, che viene esportato in molti paesi del mondo,
di solito con il suo nome tedesco “Liptauer Käse”,
ossia formaggio di Liptov, perché Liptov è
il nome della regione. La parola slovacca per questo
formaggio è “bryndza” e il piatto
che si prepara con questo formaggio, chiamato “bryndzové
halusˆky”, è probabilmente l’unico
indiscutibile contributo della Slovacchia alla cucina
internazionale.
Quando da adulto mi recai in Romania per una vacanza,
scoprii che la parola rumena per formaggio – qualunque
formaggio – era “brinza”, e fu lì
che venni a sapere anche che c’era stata una colonizzazione
della Valacchia qualche centinaio di anni prima. Fino
ad allora, io avevo creduto che anche se non erano stati
gli slovacchi a inventare quel prodotto, perlomeno fossero
stati loro a dargli un nome originale. Queste amare
rivelazioni mi hanno reso molto cauto nel cercare di
definire la slovacchità.
Un miscuglio di tradizioni culturali
La verità è che a causa della sua posizione
geografica e della sua storia, la Slovacchia è
un curioso miscuglio di tradizioni e influenze culturali,
e gli slovacchi sono anche loro un altrettanto curioso
miscuglio di diversi gruppi etnici e nazionalità
che per caso vivevano su questo territorio o lo attraversarono.
Senza tornare troppo indietro nel passato, vi porterò
come esempio il mio background personale: nella famiglia
di mia madre c’erano quattro figlie femmine. Una
di loro restò nubile, una sposò un uomo
che apparteneva alla minoranza tedesca in Ungheria,
un’altra sposò un ceco e l’altra
ancora sposò un esule russo che era giunto in
Cecoslovacchia da bambino, dopo la cosiddetta Rivoluzione
d’Ottobre. Tutti i loro figli oggi si considerano
slovacchi.
Ma c’è un esempio che può essere
ancora più interessante: tra gli scrittori slovacchi
della mia generazione, almeno cinque hanno antenati
cechi, benché alcuni di loro siano giunti in
Slovacchia parecchi secoli fa; uno è in parte
croato, uno appartiene a quel gruppo etnico chiamato
i “górale”, che vivevano per la maggior
parte in Polonia, e due hanno un genitore ungherese.
D’altro canto, uno scrittore appartenente alla
minoranza ungherese e che scrive in ungherese, discende
direttamente dal grande poeta slovacco Ján Kollár.
Mi auguro che ora non penserete che io sia uno slovacco
sciovinista – dopo tutto io faccio parte di questo
elenco, cerco solo di individuare in questo una sorta
di peculiarità, poiché la letteratura
è stata tradizionalmente il principale –
se non l’unico – supporto e difesa della
slovacchità nel nostro territorio. Fra parentesi,
tre fra i maggiori scrittori della precedente generazione
hanno anch’essi sangue straniero nelle vene: il
nome Minácą deriva dalla parola turca che sta
per doganiere, Bednár ha diretti antenati moravi
e anche il nome Tatarka indica un’origine esotica,
soprattutto perché la sua famiglia probabilmente
era originaria della Polonia. Negli ultimi anni della
sua vita Tatarka si definiva “un pastore dei Carpazi”,
e il termine, con tutta la sua vaghezza, potrebbe davvero
riferirsi a questo.
Ciò che voglio dire, in realtà, è
che sarebbe piuttosto difficile trovare un oggetto o
una caratteristica che un gruppo di persone così
eterogeneo possa concordemente definire “tipicamente
slovacco”. Gli eventi storici cruciali che ci
hanno investito durante lo scorso secolo hanno generato
una rapida successione di interpretazioni contraddittorie,
ragion per cui ci sono in generale ben poche idee –
o fatti, a dire il vero – sulle quali gli slovacchi
possono trovarsi d’accordo.
La storia slovacca si è svolta in massima parte
all’interno del regno dell’antica Ungheria,
dove le origini etniche dei suoi abitanti non ebbero
alcun ruolo significativo: fino alla fine del XVIII
secolo la lingua dominante fra le persone colte era
il latino, e solo nella seconda metà del XIX
secolo e all’inizio del XX cominciò a manifestarsi
una netta tendenza a trasformare le varie nazionalità
che vivevano in Ungheria in una nazione ungherese. Gli
slovacchi, però, tendono a liquidare la loro
stessa storia come un millennio di oppressioni. Il vuoto
creato da una storia così rinnegata viene colmato
dai miti, che essendo più vaghi e romantici sembrano,
ad alcuni slovacchi, più idonei dei fatti per
conquistare un riconoscimento generale.
Il mito della slovacchità
Questa opinione può condurre a episodi comici.
Poco dopo la nascita della Repubblica Slovacca, nel
1993, ci fu una conferenza di storici, alla quale prese
parte come ospite d’onore l’allora vice-presidente
della Banca Nazionale Slovacca. La sua presenza a una
conferenza di quel tipo è già un fatto
interessante, ma la cosa più affascinante fu
il suo discorso. Egli sottolineò che la cosa
di cui gli slovacchi avevano urgente bisogno in quel
momento storico erano i miti, e fece un appello agli
storici perché provvedessero a fornirli.
Ebbene, è vero che gli slovacchi non hanno miti
nel vero senso del termine; d’altro canto, la
nostra storia, per come si riflette nel pensiero degli
slovacchi comuni, persino quelli con una preparazione
universitaria, è solo un ammasso di miti, e il
compito degli storici non è crearne di nuovi,
ma rimpiazzare quelli già esistenti con i fatti.
È un compito molto difficile, perché gli
slovacchi amano i loro miti. In altre parole, sono dei
mitomani. Non si tratta di una caratteristica esclusiva
degli slovacchi, visto che è condivisa da altre
piccole nazioni, ma ritengo che possa essere considerata
tipicamente slovacca: dietro alla sensazione che il
nostro passato – o anche il presente, a dire il
vero – non sia sufficientemente glorioso, si cela
sempre la solita, vecchia mancanza di autostima e fiducia
in se stessi.
A parte il mito dei mille anni di oppressione sotto
gli ungheresi e il mito parallelo dei mille anni di
lotta per uno Stato slovacco indipendente, esiste, per
esempio, un mito profondamente radicato sui missionari
bizantini Cirillo e Metodio, i quali, invitati dal re
della Grande Moravia Rastislav a diffondere la religione
cristiana nel nostro territorio, avrebbero gettato le
fondamenta della cultura slovacca.
È vero che essi inventarono un nuovo alfabeto
per le tribù slave del luogo e scrissero alcune
opere nella loro lingua, ma la religione cristiana era
stata introdotta in quel territorio prima del loro arrivo,
e gli slovacchi sono cattolici, non ortodossi, e scrivono
in caratteri latini, non glagolitici o cirillici. Nella
nostra cultura non ci sono tracce lasciate dalla breve
attività pastorale dei due missionari, a parte
qualche frammento delle loro opere, ma gli slovacchi
identificano prontamente la lingua slovacca con quella
approvata come lingua liturgica dal papa nel IX secolo,
e con questo pretesto sostengono che si tratta della
più antica lingua europea. E credono anche che
i missionari fossero spinti da amore fraterno tra slavi,
sebbene né Costantino né Metodio, e nemmeno
l’imperatore di Bisanzio che li aveva mandati
lì, fossero di origini slave, e le ragioni della
loro missione fosse palesemente politiche.
In modo analogo, gli slovacchi mitizzano i loro personaggi
storici. L’esempio più noto è forse
la figura del bandito Jánosˆík, che
fu impiccato all’inizio del XVIII secolo. La sua
attività di rapinatore è circoscritta
a due anni, e a quell’epoca di rivolte feudali
non costituiva nulla di eccezionale, ma nel folclore
slovacco egli ha assunto il ruolo di un Robin Hood “che
prendeva ai ricchi per dare ai poveri”; e gli
slovacchi, ancora oggi, mostrano un benevolo atteggiamento
verso il furto o la rapina, quando sono coronate da
successo. Il nome di Jánosˆík è
stato dato a tante di quelle organizzazioni, istituzioni,
di eventi pubblici o prodotti, persino a un popolare
formaggio, così da diventare alla fine sia lui,
sia l’ammirazione degli slovacchi per lui, argomento
di barzellette e soggetto di numerose commedie. Questo
potrebbe essere, speriamo, un segno che la nostra nazione
sta diventando maggiorenne. Il risultato dell’atteggiamento
di rifiuto che gli slovacchi hanno nei confronti della
propria storia è stato quello di essersi ritrovati
con poche figure storiche che hanno dovuto adempiere
a molte funzioni, spesso contraddittorie. Affinché
ciò fosse possibile, è stato necessario
chiudere un occhio sui fatti: ma questo, per gli slovacchi,
non è un problema! Ciò di cui essi hanno
bisogno non è la lezione che la storia può
offrire a chi è desideroso di trarne insegnamento,
ma eroi da venerare.
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