Lajos
Grendel, Le campane di Einstein,
Anfora edizioni, pag. 140, € 12,50
Pavel Vilikovsky, È sempre
verde…,
Anfora edizioni, pag. 160, € 11
Chi potrebbe affermare di conoscere la letteratura
slovacca? Ben pochi immagino. Come in pochi saprebbero
citare il nome di almeno un paio di autori di quel giovane
paese europeo. Non così invece per i cechi. Tutti
conoscono Kafka o Kundera, molti Hrabal o Hasek. Gli
slovacchi hanno percorso insieme ai cechi un lungo periodo
della propria storia, ma la loro lingua e la loro letteratura,
al confronto di quella dei vicini, appare per noi ancora
un mistero. Colpa di un’editoria, quella italiana,
pigra, poco disposta alla scommessa e sempre in cerca,
invece, del gran nome e del grande evento.
Due anni fa, con la casa editrice Anfora, è
nata una meritevole iniziativa che ha per obiettivo
quello di creare un mercato alla letteratura Centro
europea nel nostro Paese. Ecco allora che ci è
data la possibilità di reperire anche nelle nostre
librerie due libri slovacchi, importanti in patria,
che avevano già suscitato attenzione in altri
paesi europei: Le campane di Einstein di Lajos
Grendel e È sempre verde… di Pavel
Vilikovsky.
Leggibili e divertenti, entrambi i romanzi sono accomunati
dal fatto di portare sulla realtà osservata uno
sguardo critico segnato da leggerezza e fantasia. Uno
sguardo disincantato – ai confini del magico nel
primo caso – che usa lo strumento dell’ironia
per penetrare la storia slovacca, per interrogarne il
carattere e farci conoscere quello che potremmo chiamare
la slovacchità. Del resto, l’ironia, il
fantastico e l’assurdo, sono modi che ci ricordano
anche l’illustre vicino ceco, Kafka ovviamente.
Le campane di Einstein
di Lajos Grendel
Lajos Grendel è slovacco e scrive in ungherese,
ma ci racconta, a modo suo, un pezzo di storia cecoslovacca,
fino alla caduta del regime comunista. Le chiavi del
romanzo sono il sarcasmo e l’assurdo, l’ambiguità
e la morale. Il sarcasmo che cerca di trarre una morale
universale dall’assurdità di un regime
come quello comunista e dall’ambiguità
troppo umana di chi passa da un regime all’altro,
servendo con lo stesso zelo ideologico il padrone di
turno. Nella narrazione sono solo strani personaggi
un po’ pazzi e la voce dell’Io Irraggiungibile
del narratore in prima persona a portare un punto di
vista che strania il contesto conformista e offre sprazzi
di verità umana.
Considerato come uno dei migliori romanzi scritti su
questo tema in Europa centrale, il libro racconta le
tribolazioni semiserie di Meszaros che, anche se da
piccino voleva diventare un nuovo Lenin, si ritrova,
più o meno critico nei confronti dell’ideologia
ufficiale, a sposare la figlia del segretario del partito
e ad assumere, insieme al nome cifrato di Zar Pietro,
un incarico di responsabilità in un istituto
di ricerca di cui gli sfuggono le finalità. Le
sue avventure continuano fino al periodo rivoluzionario,
periodo in cui l’instabilità dei segni
diventa massima e la confusione tra “noi e loro”,
amici e nemici, diventa talmente ambigua da non permettere
a Meszaros di riconoscere a quale campo appartenere.
Alla fine si ritroverà malconcio in ospedale,
scettico rispetto al futuro e a un presente che è
cambiato solo perché niente cambi (“non
potevo iniziare una nuova vita perché si inizia
sempre la stessa vita”). Finirà felice
a fare il guardiano allo zoo e solo questo ripiegarsi
sul proprio orticello gli darà la sensazione
di essere “l’uomo giusto al posto giusto,
questo è il senso di ogni rivoluzione”.
È sempre verde…
di Pavel Vilikovsky
Il libro di Vilikovsky, invece, è un lungo monologo
in forma di racconto che un’ex-spia di alto rango
fa a un giovane aspirante attendente. Il narratore racconta
al suo giovane ascoltatore le operazioni spionistiche
e la sua vita nell’Europa centrale a partire dalla
prima metà del ventesimo secolo. La narrazione,
però, non si svolge linearmente, ma è
continuamente interrotta e frammentata da digressioni
che centrifugamente portano il discorso da tutte le
parti, conferendo al raccontare stesso uno statuto di
performance (“Con le unghie della mano destra…
erano più lunghe, il vizio di mangiarmele l’ho
preso più in là, quando ero già
in pensione… le unghie della mano destra le affondavo
spasmodicamente nella crosta di neve di ghiaccio, per
impedire al mio corpo di cadere nell’abisso”).
È la capacità recitativa dell’attore-oratore
che tiene insieme una materia magmatica ed eterogenea:
dalla storia reale a quella privata, dalle lezioni pratiche
sul mestiere e la morale dello spionaggio a considerazioni
di ogni ordine. La lingua cerca di farsi mimesi del
parlato e, come se il narratore fosse esattamente di
fronte al lettore, il contatto viene richiamato direttamente
e continuamente attraverso l’ascoltatore che fa
le nostre veci (“… è noto che i mancini
hanno delle turbe mentali, non lo sapeva?”, “Sì,
l’ha già detto… la bocca della sua
pistola. Lei non sta attento!”, “…dove
eravamo rimasti?”).
La confessione dell’agente segreto è anche
una parodia del genere spionistico e una sarcastica
demistificazione delle sovrastrutture mitiche che hanno
dato forma all’Europa centrale dell’ultimo
secolo: il mito asburgico, quello comunista e, più
recente, quello nazionalista.
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