Questo
articolo è tratto dalla rivista Linea
Bianca, trimestrale di scienza e cultura calcistica.
C’è qualcosa di più «teoretico»,
cioè di più «filosofico»,
del gioco del calcio? Riflettete. È un gioco
di squadra e, come tutti i giochi di squadra, esige
una «politica» intersoggettiva: bisogna
assegnare i compiti e i ruoli secondo «giustizia»,
come diceva Platone; cioè tenendo conto delle
disposizioni naturali di ogni giocatore e poi della
sua buona volontà di apprendere e di collaborare;
e ci vuole un leader, un capitano-filosofo che metta
la sua intelligenza ed esperienza al servizio dell’interesse
collettivo, cioè della vittoria finale.
Ma per far questo occorre una straordinaria capacità
di «visione», un peculiare theorein
che certo si affina col tempo, ma che è in gran
parte una virtù innata, qualcosa che non si impara
e che è piuttosto un «dono» divino
o più che naturale. Si tratta della mai abbastanza
lodata capacità di «vedere il gioco»,
di immaginarne idealmente le possibilità e di
anticiparne intuitivamente gli sviluppi.
Se in una squadra non c’è almeno un giocatore
(meglio ovviamente se più d’uno, ma non
troppi) dotato di questa facoltà «visiva
», allora il calcio, da gioco intelligente e creativo,
diviene noiosa e banale esibizione di muscoli cursori
da parte di undici giovanotti pieni magari di fiato
e di buona volontà, ma poveri di idee e di reale
spirito calcistico e sportivo.
Modello di quel che voglio dire fu un giocatore sudamericano
di molti anni fa, che giocò mezzala nel grande
Milan di allora e che si chiamava Schiaffino (di certo
ignoto ai più giovani, poiché la fama
sportiva è per lo più di breve durata).
Schiaffino era fisicamente l’uomo più normale,
cioè in questo senso mediocre, del mondo. Non
era alto né robusto; non era veloce e non possedeva
talenti atletici speciali: solo l’indispensabile
per fare, con appropriato allenamento, il calciatore.
Ma era l’intelligenza «teoretica»
del Milan. Non guardava mai la palla che aveva tra i
piedi: teneva sempre alta la testa per capire dove era
bene lanciarla. Come potesse poi trattarla con tanta
finezza e maestria, per così dire a occhi chiusi,
era una delle sue misteriose specialità.
L’altra era quella di muoversi quasi inavvertitamente,
«silenziosamente», per tutto il campo, col
passo di un felino: sempre orientato a trovarsi esattamente
là dove il gioco avrebbe richiesto e sarebbe
parato, cioè dove nessuno per lo più lo
aspettava o poteva prevedere che andasse. E così
Schiaffino governava l’intera partita: avanzava
o arretrava, attaccava o difendeva a seconda delle situazioni
e delle circostanze, del vantaggio o dello svantaggio
della sua squadra sull’avversario.
Lo ricordo in certe partite casalinghe: si avvicinava
la fine e il Milan non riusciva a segnare. Allora Schiaffino,
insensibilmente, avanzava di molto la sua posizione
in campo; lui che non era e non poteva essere né
uno sfondatore né un saltatore, si incuneava
ostinatamente nell’area avversaria, abilissimo
nello smarcarsi e nell’evitare i colpi duri dei
difensori, alla ricerca disperata del gol. E potete
stare certi che nove volte su dieci lo trovava, magari
proprio di testa, lui che era una spanna buona più
basso del più basso dei difensori avversari.
Sapeva, all’occorrenza, fare tutto. Abilissimo
nel dribbling essenziale, non vi ricorreva a vanvera
e non ne faceva mai uno di troppo; correttissimo nel
gioco, in caso di necessità atterrava l’avversario
senza tanti complimenti ma anche senza violenza: lo
mandava per terra «razionalmente» e basta;
leader assoluto e ammirato, non rimproverava mai nessuno:
indicava la via semplicemente con l’esempio.
A mio avviso fu uno dei giocatori più grandi
di tutti i tempi.
Potrei mettergli accanto Bernardini, Mazzola padre,
Puskas, Platini o Beckenbauer (non a caso molto ammirato
da Heidegger): giocatori che, a loro
volta, sapevano fare tutto, che usavano indifferentemente
entrambi i piedi, ma soprattutto che usavano la testa,
che tenevano invariabilmente «alta» a «vedere»
l’azione.
E già che ci sono, consentitemi di dire: l’attuale
infatuazione, tipicamente
«mediatica», per Maradona è semplicemente
ridicola. Che Maradona fosse a suo modo un grande giocatore
è indubbio, ma con evidenti limiti (a cominciare
dalla sua incapacità di usare entrambi i piedi,
donde infinite giravolte per portarsi il pallone sul
sinistro, con danno non solo «estetico»,
ma soprattutto per la rapidità efficace dell’azione).
Maradona era un giocatore atipico, «estroso»
e «inventivo»
come molti del suo genere; ma non era in alcun modo
un leader del tipo
«teoretico» che sto dicendo. E come giocatore
atipico, allora bisogna
ricordare, su tutti e prima di tutti, il grande, grandissimo,
insuperato Pelé, che con una gamba sola faceva
tre Maradona.
E così ho esibito un altro aspetto «filosofico»
del calcio: la furia «dialettica» e «critica»
che caratterizza ogni tifoso (come potete vedere e constatare,
io, tifoso da sempre del mio glorioso Bologna, non faccio
eccezione).
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