Milan
Kundera, Il sipario,
Adelphi, pp. 183, € 15,00
Perché il romanzo? In estrema sintesi, questo
potrebbe essere l’interrogativo che si pone, ci
pone e a cui cerca di rispondere Kundera nel suo saggio
Il sipario. E citando Hermann Broch, egli suggerisce
al lettore una plausibile risposta: per lo scopo cui
tende o dovrebbe tendere ogni romanzo, ossia l’“andare
all’anima delle cose”. Ma ciò non
vale forse anche per la poesia? Sì, afferma Kundera,
ma la prosa si riferisce, ben più del verso,
alle peculiarità concrete, corporee, ordinarie
dell’esistere. Prosaiche, appunto, e magari prive
di lirismo o pathos, tuttavia non per questo meno degne
d’attenzione. Così per il Nostro la forma
o il genere romanzesco si distingue dalle altre modalità
artistico-espressive per il suo essere caratterizzato
dalla narrazione “della vita umana” anche
nei suoi aspetti più futili ed insignificanti.
Anzi lo stemma araldico del romanzo – da Cervantes
a Rushdie – potrebbe recare come motto la
pietas per ciò che è perituro e/o
quotidiano, la rievocazione dell’attimo fuggente
senza la presunzione di preservarlo, peggio ancora,
di eternizzarlo.
Romanzo quindi è in primis storia (però
con la esse minuscola), e forse è bene che con
quella con la esse maiuscola solo lateralmente abbia
a che fare, in quanto uno scrittore non dovrebbe assurgere
a illustratore di un’epoca, censore di una società
e men che meno a difensore di un’ideologia. Certo,
il romanziere resta inevitabilmente figlio del suo tempo,
di cui volente o nolente è espressione; ma una
cosa è il contesto culturale (spazio-temporale)
da cui nessuno può mai prescindere, altra è
snaturare la narrazione trasmutandola in sociologia.
Dice bene a tale proposito Kundera: il romanzo non giudica,
né proclama verità. Siamo d’accordo:
il suo ambito non sta nel fornire dati oggettivi o verificabili.
La sua parola non è il logos di filosofia
e scienza.
Non c’è dunque spazio per la riflessione
nel romanzo, specie in quello moderno/contemporaneo?
Ovvio vi sia, solo che piuttosto assume la valenza dell’interrogazione,
della provocazione, dell’ironia, del dubbio e,
perché no, dello stupore nei confronti della
commedia umana per dirla con Balzac e di quel
caleidoscopico teatro sui cui scenari essa si svolge,
ovvero il mondo.
Narrazione, allora, o anche digressione e rinuncia
al dispotismo della story (a questo proposito
il Tristam Shandy di Sterne fa scuola); infischiandosene
alla grande del realismo, soprattutto da Kafka in poi.
Anche se, a detta di Kundera, è lo humour
(assai poco praticato dal grande scrittore praghese)
a costituire uno dei tratti significativi del narrare
proprio della modernità. Un’ironia che
si contrappone al patetismo e al lirismo che, secondo
il Nostro, costituiscono i vizi capitali del romanzo
che mai ha da scadere nei piagnistei dell’autoreferenzialità
narcisistico-diaristica.
La scrittura narrativa non dovrebbe essere catarsi,
terapia psicologica, sfogo o sgravio di nevrosi: un
piangersi addosso mirando solo al proprio ombelico.
Lo sguardo del romanzo, ben oltre il mero orizzonte
limitato del singolo io, ha da divenire osservatorio
sull’umano, panorama dell’esistere, viaggio
attraverso secoli e continenti. E un itinerario da Rabelais
a Gombrowicz, dal Chisciotte all’Uomo
senza qualità, passando per innumerevoli
autori e testi, fra citazioni e chiose argute, è
giusto quanto compie Kundera in questo suo libro, che
è poi una dichiarazione d’amore per la
narrativa e un omaggio ai romanzieri più amati:
da Goethe a Proust, Broch, Musil, solo per fare qualche
nome.
Per un approccio anticonformista e disincantato alla
realtà, giacché un autentico scrittore
sa lacerare per noi il “sipario della preinterpretazione”,
come seppe fare a suo tempo Cervantes. Infatti: “Un
sipario magico, intessuto di leggende, era sospeso davanti
al mondo. Cervantes mandò don Chisciotte in viaggio
e strappò quel sipario. Il mondo si aprì
davanti al cavaliere errante in tutta la comica nudità
della sua prosa”. E non fu più mito, epica
o poesia eroica, ma soltanto romanzo.
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