Jerzy Pilch, Sotto l’ala dell’Angelo
Forte,
Fazi Editore, 2005, pagg. 212, € 13,50
E se scrivere fosse un vizio?
Leggendo Sotto l’ala dell’Angelo Forte
del polacco Jerzy Pilch, viene da chiederselo, viene
da chiedersi se sia possibile pensare alla scrittura
come a un vizio irrinunciabile. In effetti il protagonista
Jurus’ è uno scrittore e allo stesso tempo
un alcolista incallito che entra ed esce da un centro
di degenza per persone che hanno la stessa sua viziosa
passione etilica. Tutti, tutti i ricoverati del reparto
hanno una storia da raccontare, la loro schiavitù
da condividere, e tutti hanno tra di loro una cosa in
comune. In continuazione sono caduti tra le braccia
del vizio, hanno cercato di evitarlo, di abbandonarlo,
di dimenticarlo e di rialzarsi, ma tutti sono tornati
a inciampare per poi rialzarsi, a fare qualche passo
sulle proprie gambe per poi sentirle vacillare e cadere
di nuovo. E bevono, tornano a bere e a bere, a compiere
sempre lo stesso gesto guidati da una compulsione che
cresce dentro di loro e non li abbandona.
Ma non pensate che questo libro sia semplicemente una
storia sul bere. C’è qualcosa di più
che fa dell’alcool un pretesto per raccontare,
per scrivere. Jurus’, protagonista e narratore,
ci racconta con la sua penna le storie di Colombo lo
Scopritore, di Don Giovanni Ziobro, del Terrorista più
Ricercato del Mondo, della Regina di Kent e del loro
rapporto con l’inflessibile dottor Granada che
cura la loro degenza assistito da Mosè, alias
“Io l’Alcol”, e dall’infermiera
Viola; e allo stesso tempo, con la sua stessa penna,
Jurus’ racconta quelle storie ai suoi colleghi
di degenza. Il reparto di alcolisti cronici è,
infatti, una casa del lavoro creativo in cui, per sconfiggere
il vizio, si impara a dominarlo attraverso i racconti
della propria vita, attraverso la memoria e la scrittura.
Leggiamo così storie surreali e incredibili di
un mondo che sembra capovolto, che sembra camminare
a testa in giù nell’ossessione etilica.
Un mondo in cui la normalità è affogata
nell’alcool tanto che il narratore stesso si chiede
perché mai la maggior parte delle persone non
beva. È un mondo ubriaco, alcolizzato, e fuori
da quel mondo c’è la via per uscirne dopo
il lungo viaggio nella memoria, c’è Alberta
che rapisce il cuore al vizio e lo riconsegna alla vita,
c’è la scrittura per raccontarsi e raccontare
storie simili alla propria.
E scrive Jurus’, scrive sempre. La sua scrittura
prende il passo dell’alcool: barcolla, inciampa,
si ripete, si impasta come la lingua di un ubriaco e
salta di ricordo in ricordo, di racconto in racconto,
facendo saltare con sé i nostri occhi di lettori.
Se far scrivere un ubriaco richiede uno stile di scrittura
che sappia parlare da ubriaco, Pilch è riuscito
perfettamente in questo, e merito dobbiamo renderne
(noi lettori italiani) alla traduzione di Lorenzo Pompeo
e Grzegorz Kowalski. Ma ancora di più, Pilch
è riuscito a stabilire un legame stretto tra
le storie etiliche che racconta e la scrittura intesa
come racconto, ma soprattutto intesa come intimo ragionamento
dell’anima. Jurus’ scrive sempre, scrive
di tutti, scrive a nome di tutti, e anche di questo
non sa fare a meno: prende la penna e racconta, e così
disegna il suo percorso fuori dal vizio, preso per mano
dall’amore di Alberta che, guarda caso, è
una poetessa. La letteratura si fa così vizio,
compulsione a ripetere, ma, a differenza dell’alcolismo,
la penna non alimenta il demone, ma lo annulla semplicemente
facendo il suo mestiere, raccontando.
Scrivere e bere camminano insieme tra le pagine di
questo libro, camminano insieme anche nelle numerose
citazioni etiliche di autorevoli letterati, Bukowski,
ovviamente, ma anche Nabokov e Bellow, Cioran e Joyce,
Dostoevskij e Kierkegaard. In ogni bottiglia di vodka
scolata da Jurus’ c’è un episodio
della sua infanzia, in ogni bicchiere svuotato il racconto
di un delirio, in ogni goccia di alcool si ripete la
penna di Pilch, fino all’ultima pagina quando,
finita la lettura, ci ripromettiamo di tornare, prede
del vizio, a prendere un’altra bottiglia, aprire
un altro libro, e leggere ancora e ancora.
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