Agota
Kristof, L’analfabeta,
Casagrande, pp.53, € 10,00
“Leggo. È come una malattia. Leggo
tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli
occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di
carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per
bambini. Tutto ciò che è a caratteri di
stampa. Ho quattro anni. La guerra è appena cominciata”.
Questo l’incipit – che già racchiude
tutto un programma – del racconto autobiografico
L’analfabeta, di Agota Kristof. Un avvio
nel segno d’una prosa secca, franta, essenziale,
senza orpelli ma estremamente incisiva ed evocativa.
Una dichiarazione d’amore (nei riguardi della
lettura e, per converso, della scrittura) e al contempo
d’intenti. Infine, l’esordio d’una
vocazione all’espressività letteraria che
caratterizzerà l’esistenza intera della
grande scrittrice ungherese, contrassegnata sin dall’infanzia
da un inesausto corpo a corpo con la lingua, anzi con
le lingue. Quella materna, in primis, cui presto si
sovrappone il russo: idioma degli oppressori; quindi
il francese, parlato nella Svizzera francofona dove
la giovane esule emigrerà, ritrovandosi di colpo
analfabeta, incapace di fronteggiare una nuova lingua
“sconosciuta” e “nemica”.
Mentre: “All’inizio non c’era che
una sola lingua”, riferisce la scrittrice riandando
con la memoria agli anni dell’infanzia, quando
per la piccola Agota figlia d’un maestro di campagna
non vi era cesura fra significante e significato, tra
le parole e le cose, ma una sorta di magica unità
aurorale pareva tener uniti insieme abbecedario e mondo.
In quell’ottica puerile leggere o “raccontare
storie” era dunque fare esperienza, varcare gli
angusti confini di quel “paesino privo di stazione,
di elettricità, di acqua corrente, di telefono”.
La scrittura tuttavia giungerà più tardi,
solo una volta rottosi “il filo d’argento
dell’infanzia”, e verrà usata in
collegio dalla adolescente Kristof come esorcismo per
fugare il dolore legato alla separazione dai genitori.
Le pagine su quel tristo istituto a metà “tra
la caserma e il convento, tra l’orfanotrofio e
il riformatorio” colpiscono per la depressione
che il collegio procurerà alla ragazza (“in
quel periodo piango tutte le sere, per mesi interi o
per anni, e piango tanto che in seguito non riuscirò
a piangere quasi mai più”). Però,
come sempre nelle opere della Kristof, anche la sofferenza
più lacerante è descritta mediante una
tonalità espressiva neutra quando non sia francamente
algida e con registro solo all’apparenza controllato,
da impassibile anatomista dell’anima. Come se
solo attraverso una presa di distanza emozionale fosse
possibile all’autrice rievocare un passato tanto
sofferto. Così, in quelle notti insonni “nascono
delle frasi”; prendono corpo poesie, pensieri,
riflessioni che costituiranno il materiale per quello
che un giorno sarà il primo e forse il più
crudo romanzo della scrittrice: Il grande quaderno.
Ma torniamo ai ricordi giovanili e agli anni Cinquanta.
Per la precisione al 1953, cioè alla morte del
compagno Stalin, su cui le ragazze del collegio
sono obbligate a scrivere un tema intitolato al “padre”
e “faro luminoso” del comunismo trionfante,
dal cui eden la giovane Agota riuscirà ad evadere
clandestinamente solo tre anni più tardi, in
compagnia del marito e della figlia di quattro anni.
Essenziale il bagaglio. Due borse: una colma di biberon
e pannolini, l’altra di dizionari guarda caso
per orientarsi in terra straniera. E sarà proprio
l’estraneità, il sentirsi destinata ad
essere straniera, esule sempre a costituire la cifra
esistenziale ed espressiva della narratrice ungherese.
Unita ad un ineluttabile senso di abbandono e perdita
che puntualmente pervade ogni suo scritto.
L’apolide troverà quindi accoglienza nella
Svizzera francese, dove avrà difficoltà
a inserirsi, alla pari di tanti altri connazionali dispersi
come lei in un “deserto sociale” difficile
da attraversare per i profughi che ambiscano a raggiungere
l’integrazione con gli elvetici o quanto meno
l’“assimilazione”. E vi è pure
chi non ce la fa a tollerare l’alienazione dell’esilio
e decide di compiere un viaggio ulteriore e definitivo:
quello che conduce “oltre la grande frontiera”
della vita. Non sarà certo questa l’opzione
della Kristof che cercherà piuttosto conforto
e rifugio nella scrittura, ben consapevole che usando
la lingua ungherese la speranza di pubblicare in Svizzera
è una pia illusione. Così, non appena
padroneggiata un poco la lettura, prende corpo l’ambizioso
progetto di scrivere in francese, cui Agota si applica
strenuamente riscrivendo, correggendo, togliendo “tutto
ciò che è di troppo” per più
di dieci anni prima di iniziare a dar forma a un romanzo.
È una sfida che vincerà senz’altro.
Il grande quaderno, edito da Seuil, verrà
pubblicato in diciotto lingue. Non male per un’analfabeta.
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