281 - 13.07.05


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Agota Kristof,
esule, analfabeta.

Francesco Roat



Agota Kristof, L’analfabeta,
Casagrande, pp.53, € 10,00

“Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa. Ho quattro anni. La guerra è appena cominciata”.
Questo l’incipit – che già racchiude tutto un programma – del racconto autobiografico L’analfabeta, di Agota Kristof. Un avvio nel segno d’una prosa secca, franta, essenziale, senza orpelli ma estremamente incisiva ed evocativa. Una dichiarazione d’amore (nei riguardi della lettura e, per converso, della scrittura) e al contempo d’intenti. Infine, l’esordio d’una vocazione all’espressività letteraria che caratterizzerà l’esistenza intera della grande scrittrice ungherese, contrassegnata sin dall’infanzia da un inesausto corpo a corpo con la lingua, anzi con le lingue. Quella materna, in primis, cui presto si sovrappone il russo: idioma degli oppressori; quindi il francese, parlato nella Svizzera francofona dove la giovane esule emigrerà, ritrovandosi di colpo analfabeta, incapace di fronteggiare una nuova lingua “sconosciuta” e “nemica”.

Mentre: “All’inizio non c’era che una sola lingua”, riferisce la scrittrice riandando con la memoria agli anni dell’infanzia, quando per la piccola Agota figlia d’un maestro di campagna non vi era cesura fra significante e significato, tra le parole e le cose, ma una sorta di magica unità aurorale pareva tener uniti insieme abbecedario e mondo. In quell’ottica puerile leggere o “raccontare storie” era dunque fare esperienza, varcare gli angusti confini di quel “paesino privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”. La scrittura tuttavia giungerà più tardi, solo una volta rottosi “il filo d’argento dell’infanzia”, e verrà usata in collegio dalla adolescente Kristof come esorcismo per fugare il dolore legato alla separazione dai genitori.

Le pagine su quel tristo istituto a metà “tra la caserma e il convento, tra l’orfanotrofio e il riformatorio” colpiscono per la depressione che il collegio procurerà alla ragazza (“in quel periodo piango tutte le sere, per mesi interi o per anni, e piango tanto che in seguito non riuscirò a piangere quasi mai più”). Però, come sempre nelle opere della Kristof, anche la sofferenza più lacerante è descritta mediante una tonalità espressiva neutra quando non sia francamente algida e con registro solo all’apparenza controllato, da impassibile anatomista dell’anima. Come se solo attraverso una presa di distanza emozionale fosse possibile all’autrice rievocare un passato tanto sofferto. Così, in quelle notti insonni “nascono delle frasi”; prendono corpo poesie, pensieri, riflessioni che costituiranno il materiale per quello che un giorno sarà il primo e forse il più crudo romanzo della scrittrice: Il grande quaderno.

Ma torniamo ai ricordi giovanili e agli anni Cinquanta. Per la precisione al 1953, cioè alla morte del compagno Stalin, su cui le ragazze del collegio sono obbligate a scrivere un tema intitolato al “padre” e “faro luminoso” del comunismo trionfante, dal cui eden la giovane Agota riuscirà ad evadere clandestinamente solo tre anni più tardi, in compagnia del marito e della figlia di quattro anni. Essenziale il bagaglio. Due borse: una colma di biberon e pannolini, l’altra di dizionari guarda caso per orientarsi in terra straniera. E sarà proprio l’estraneità, il sentirsi destinata ad essere straniera, esule sempre a costituire la cifra esistenziale ed espressiva della narratrice ungherese. Unita ad un ineluttabile senso di abbandono e perdita che puntualmente pervade ogni suo scritto.

L’apolide troverà quindi accoglienza nella Svizzera francese, dove avrà difficoltà a inserirsi, alla pari di tanti altri connazionali dispersi come lei in un “deserto sociale” difficile da attraversare per i profughi che ambiscano a raggiungere l’integrazione con gli elvetici o quanto meno l’“assimilazione”. E vi è pure chi non ce la fa a tollerare l’alienazione dell’esilio e decide di compiere un viaggio ulteriore e definitivo: quello che conduce “oltre la grande frontiera” della vita. Non sarà certo questa l’opzione della Kristof che cercherà piuttosto conforto e rifugio nella scrittura, ben consapevole che usando la lingua ungherese la speranza di pubblicare in Svizzera è una pia illusione. Così, non appena padroneggiata un poco la lettura, prende corpo l’ambizioso progetto di scrivere in francese, cui Agota si applica strenuamente riscrivendo, correggendo, togliendo “tutto ciò che è di troppo” per più di dieci anni prima di iniziare a dar forma a un romanzo. È una sfida che vincerà senz’altro. Il grande quaderno, edito da Seuil, verrà pubblicato in diciotto lingue. Non male per un’analfabeta.

 

 

 

 

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