Lo confesso:
mi sono resa colpevole di un crimine.
L'anno scorso, alla Mostra del Cinema di Venezia, ho
eluso la sorveglianza di una solerte guardia lagunare
e ho asportato da una parete del Casinò del Lido
il poster di un film. Si è trattato di un furto
da poco, visto che il giorno dopo quel poster sarebbe
stato gettato nel cestino della carta straccia. Forse
ho addirittura commesso un atto di giustizia poetica,
visto che il poster ha trovato nuova vita sulle pareti
del mio appartamento. Ma si è trattato pur sempre
un crimine, anzi, per dirla come i noir americani, di
un vero e proprio crime of passion.
Perché il poster era la locandina di Café
Lumiére, il film del regista di Taiwan Xou
Xsiao-Xsien in concorso alla Mostra del Cinema dello
scorso anno, ed era un perfetto esempio di come le illustrazioni
cinematografiche cinesi possano essere vere opere d'arte.
Ne è la prova la mostra Cento anni di cinema
cinese 1905-2005 Ombre elettriche, in corso al
Complesso del Vittoriano di Roma fino al 24 luglio,
che ci regala (davvero: l'ingresso è gratis)
oltre 250 manifesti originali che spaziano dal '34 ai
giorni nostri. Al valore estetico si aggiunge quindi
anche il valore di testimonianza storica, la capacità
di trasmettere, in forma sintetica ed immediata, il
gusto delle varie epoche.
Inframmezzati alle locandine ci sono alcuni schermi
"improvvisati" sulle pareti bianche del Vittoriano,
sui quali scorrono le immagini di spezzoni di film della
storia del cinema cinese, ad aggiungere magia e movimento
alla visione statica delle locandine allineate lungo
i muri. Tanto più che la mostra del Vittoriano
è accompagnata da una rassegna cinematografica
che si svolge al Cinema Nuovo Olimpia di Roma fino all'8
luglio, frutto di una selezione operata da un grande
amante del cinema dell'estremo oriente quale Marco Müller,
direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia
nonché curatore, insieme ad Alessandro Nicosia,
di Cento anni di cinema cinese 1905-2005 Ombre elettriche.
Fra le firme di primo piano presenti con i loro film
nella rassegna ci sono Zhang Yimou con La storia
di Qiu Ju (Leone d'oro e Coppa Volpi per la Miglior
Attrice a Venezia '92), Zhang Yuan, con Diciassette
anni (che a Venezia vinse invece il Leone d'Argento
nel '99) e Gu Changwei con il suo Pavone, vincitore
del Gran Premio della Giuria all'ultima Berlinale, più
altri nomi meno noti al pubblico "generalista"
ma molto apprezzati dagli intenditori.
Ma torniamo per un momento alle locandine dei film
cinesi in mostra al Vittoriano, divise, oltre che per
epoca, per genere: dal film bellico al film di cappa
e spada, dalla commedia al poliziesco, dall'horror al
musical. Senza dimenticare un "genere" tutto
particolare: il film di propaganda, del quale i cinesi
furono maestri, e che è riecheggiato fedelmente
dalle locandine-tazebao (non a caso il termine cinese
è diventato universale), poiché ogni governo
totalitario in Cina volle "impadronirsi dell'arma
idologica più acuminata" (sono parole del
"gruppo cinema" del Partito Comunista). Alla
funzione promozionale delle locandine si affianca dunque
quella pedagogica, anche nelle sue accezioni più
spiacevoli.
Ma le locandine dei film cinesi restano, in primo luogo,
piccole opere d'arte, composizioni di forme e colori
studiate per suscitare curiosità ed emozione,
capaci (nelle forme più riuscite) di combinare
una tradizione iconografica millenaria (che mette a
buon frutto anche il valore estetico dell'ideogramma:
non è un caso che la locandina di Café
Lumiere che mi ha spinto sulla via del crimine
sia scritta in cinese, con una disposizione dei
credit altrettanto artistica di quella delle immagini
del film) con le suggestioni più moderne, spesso
occidentali, qualche volta hollywoodiane.
Se paragoniamo la "presa" che hanno alcune
locandine cinesi contemporanee a confronto con quelle
italiane (che pure hanno una tradizione gloriosa, vedi
l'opera di Marcello Dudovich), capiamo come in Cina
ancora oggi l'affiche abbia soprattutto il
compito di suscitare coinvolgimento da parte del potenziale
spettatore, e lo fa senza mezzi termini, o senza falsi
pudori. Un esempio per tutti: il poster di In the
mood for love di Wong Kar-Wai, ritratto di passione
che nulla ha da spartire con certi poster italiani stilizzati
e algidi di popolarità crescente (fra i responsabili
marketing, non fra gli spettatori).
La mostra del Vittoriano ci fa vedere le locandine
dei film di Wong Kar-Wai (2046) e Zhang Yimou
(Lanterne Rosse), ma anche decine di immagini
di film di autori a noi sconosciuti. Ed è una
carrellata estetica e culturale che piacerà anche
a chi di quel cinema non sa assolutamente nulla - anche
perché a raccontarglielo ci sono le "didascalie"
firmate dallo stesso Müller, ingigantite sulla
parete a spiegare in parole semplici le fasi fondamentali
della storia di un'industria - e di un Paese. E' questo
il senso del museo moderno: farsi capire, senza spocchia
intellettuale, da chiunque abbia avuto abbastanza curiosità
per avventurarsi in un microcosmo di conoscenza.
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