281 - 13.07.05


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Un secolo di locandine

Paola Casella



Lo confesso: mi sono resa colpevole di un crimine.
L'anno scorso, alla Mostra del Cinema di Venezia, ho eluso la sorveglianza di una solerte guardia lagunare e ho asportato da una parete del Casinò del Lido il poster di un film. Si è trattato di un furto da poco, visto che il giorno dopo quel poster sarebbe stato gettato nel cestino della carta straccia. Forse ho addirittura commesso un atto di giustizia poetica, visto che il poster ha trovato nuova vita sulle pareti del mio appartamento. Ma si è trattato pur sempre un crimine, anzi, per dirla come i noir americani, di un vero e proprio crime of passion.
Perché il poster era la locandina di Café Lumiére, il film del regista di Taiwan Xou Xsiao-Xsien in concorso alla Mostra del Cinema dello scorso anno, ed era un perfetto esempio di come le illustrazioni cinematografiche cinesi possano essere vere opere d'arte. Ne è la prova la mostra Cento anni di cinema cinese 1905-2005 Ombre elettriche, in corso al Complesso del Vittoriano di Roma fino al 24 luglio, che ci regala (davvero: l'ingresso è gratis) oltre 250 manifesti originali che spaziano dal '34 ai giorni nostri. Al valore estetico si aggiunge quindi anche il valore di testimonianza storica, la capacità di trasmettere, in forma sintetica ed immediata, il gusto delle varie epoche.

Inframmezzati alle locandine ci sono alcuni schermi "improvvisati" sulle pareti bianche del Vittoriano, sui quali scorrono le immagini di spezzoni di film della storia del cinema cinese, ad aggiungere magia e movimento alla visione statica delle locandine allineate lungo i muri. Tanto più che la mostra del Vittoriano è accompagnata da una rassegna cinematografica che si svolge al Cinema Nuovo Olimpia di Roma fino all'8 luglio, frutto di una selezione operata da un grande amante del cinema dell'estremo oriente quale Marco Müller, direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia nonché curatore, insieme ad Alessandro Nicosia, di Cento anni di cinema cinese 1905-2005 Ombre elettriche. Fra le firme di primo piano presenti con i loro film nella rassegna ci sono Zhang Yimou con La storia di Qiu Ju (Leone d'oro e Coppa Volpi per la Miglior Attrice a Venezia '92), Zhang Yuan, con Diciassette anni (che a Venezia vinse invece il Leone d'Argento nel '99) e Gu Changwei con il suo Pavone, vincitore del Gran Premio della Giuria all'ultima Berlinale, più altri nomi meno noti al pubblico "generalista" ma molto apprezzati dagli intenditori.

Ma torniamo per un momento alle locandine dei film cinesi in mostra al Vittoriano, divise, oltre che per epoca, per genere: dal film bellico al film di cappa e spada, dalla commedia al poliziesco, dall'horror al musical. Senza dimenticare un "genere" tutto particolare: il film di propaganda, del quale i cinesi furono maestri, e che è riecheggiato fedelmente dalle locandine-tazebao (non a caso il termine cinese è diventato universale), poiché ogni governo totalitario in Cina volle "impadronirsi dell'arma idologica più acuminata" (sono parole del "gruppo cinema" del Partito Comunista). Alla funzione promozionale delle locandine si affianca dunque quella pedagogica, anche nelle sue accezioni più spiacevoli.

Ma le locandine dei film cinesi restano, in primo luogo, piccole opere d'arte, composizioni di forme e colori studiate per suscitare curiosità ed emozione, capaci (nelle forme più riuscite) di combinare una tradizione iconografica millenaria (che mette a buon frutto anche il valore estetico dell'ideogramma: non è un caso che la locandina di Café Lumiere che mi ha spinto sulla via del crimine sia scritta in cinese, con una disposizione dei credit altrettanto artistica di quella delle immagini del film) con le suggestioni più moderne, spesso occidentali, qualche volta hollywoodiane.

Se paragoniamo la "presa" che hanno alcune locandine cinesi contemporanee a confronto con quelle italiane (che pure hanno una tradizione gloriosa, vedi l'opera di Marcello Dudovich), capiamo come in Cina ancora oggi l'affiche abbia soprattutto il compito di suscitare coinvolgimento da parte del potenziale spettatore, e lo fa senza mezzi termini, o senza falsi pudori. Un esempio per tutti: il poster di In the mood for love di Wong Kar-Wai, ritratto di passione che nulla ha da spartire con certi poster italiani stilizzati e algidi di popolarità crescente (fra i responsabili marketing, non fra gli spettatori).

La mostra del Vittoriano ci fa vedere le locandine dei film di Wong Kar-Wai (2046) e Zhang Yimou (Lanterne Rosse), ma anche decine di immagini di film di autori a noi sconosciuti. Ed è una carrellata estetica e culturale che piacerà anche a chi di quel cinema non sa assolutamente nulla - anche perché a raccontarglielo ci sono le "didascalie" firmate dallo stesso Müller, ingigantite sulla parete a spiegare in parole semplici le fasi fondamentali della storia di un'industria - e di un Paese. E' questo il senso del museo moderno: farsi capire, senza spocchia intellettuale, da chiunque abbia avuto abbastanza curiosità per avventurarsi in un microcosmo di conoscenza.

 

 

 

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