279 - 14.06.05


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A lezione da Lord Dahrendorf

Massimiliano Panarari



Ralph Dahrendorf,
Libertà attiva.
Sei lezioni su un mondo instabile,

Laterza, pp. 146, euro 7

Arriva in edizione economica un libro che – anche se magari non si condivide totalmente – va conservato nella biblioteca di casa propria, pronto all’uso e a venire sfogliato di tanto in tanto, quando si avverte il bisogno di ripassare i precetti del liberalismo intelligente e responsabile. E, del resto, le “sei lezioni su un mondo instabile” di Ralph Dahrendorf, raccolte in Libertà attiva, valgono un libro di testo. Si tratta delle conferenze tenute tra fine 2001 e inizi 2002, presso il Kulturwissenschaftliches Institut di Essen, nell’ambito delle “Lezioni Krupp”, da uno dei maggiori scienziati politici e sociali di questi tempi (già “storico” direttore della London School of Economics), un personaggio dotato di una spiccata e saggia inclinazione a rifiutare gli steccati disciplinari, in nome della «prospettiva di uno che va e viene tra le frontiere della scienza sociale e della politica, tra l’analisi e l’azione. Dalla grande corporazione della cosiddetta scientific community io sono uscito già da parecchio, senza per questo aderire a un’altra organizzazione. I vincoli tribali in genere mi sono estranei» (p. V). Ben detto!

Nel corso degli anni, il celebre Lord Dahrendorf ha affinato il suo liberalismo, rimanendo, però, sempre coerente con se stesso e i suoi principi. Il risultato è quello di un “liberalismo (e di un cosmopolitismo) inquieto”, fedele alle eredità di Kant e di Popper; mai statico né pago, dunque, ma pronto a confrontarsi con i mutamenti della realtà – e convinto che solo nel movimento, e nel conflitto, risieda la possibilità di incamminarsi verso un futuro migliore (che va conquistato faticosamente…), alla faccia degli alfieri della fine della storia e degli eredi di Fukuyama.

Dahrendorf ha ben chiari i problemi: la “democrazia sotto pressione”; l’autoritarismo strisciante (che si alimenta di una sempre più diffusa apatia e indifferenza); il populismo; una sorta di dittatura esercitata da media e sondaggi (quelle che potremmo chiamare “mediacrazia” e “sondocrazia”); le burocrazie che strozzano le libertà (al riguardo, critica duramente certi comportamenti, a suo dire inaccettabili, della tecnocrazia dell’Unione europea); il “capitale senza lavoro” che impedisce il conflitto sociale democratico (grazie al quale una società cresce; si pensi quale differenza rispetto ai teorici, anche appartenenti alla sinistra moderata, della fine di ogni “lotta di classe”) e si traduce in un neoliberismo nemico dei diritti; e, soprattutto, il regionalismo etnico e delle “piccole patrie” xenofobe. Altrettanti fenomeni degenerativi e involutivi che il famoso sociologo e politologo vede trionfare nel nostro paese nell’alleanza tra Berlusconi e la Lega. Ci sono, poi, quelli che considera i “miti” da sfatare: l’idea, per Dahrendorf irrealizzabile, di una “democrazia mondiale”; la globalizzazione sempre e in ogni caso positiva (tanto esaltata da Anthony Giddens cui non risparmia alcuni rimproveri); il “popolo di Seattle”(cui riconosce comunque il carattere di “sintomo” di un problema molto serio).

Al tempo stesso, tuttavia, lo studioso inglese ha ben chiare le stelle polari cui ispirarsi e gli strumenti da utilizzare: ovvero, i parlamenti e gli Stati nazionali da rilanciare (perché quello è il solo livello in cui hanno trovato attuazione autentica la democrazia e l’ordinamento liberale) e la “gioia dell’agire” – Dahrendorf, da bravo liberale, si rivela alquanto attento al ruolo della psicologia nella determinazione dei comportamenti individuali e collettivi. La finalità è quella di promuovere quanto più largamente possibile la “politica della libertà”, a lui tanto cara, fondata sull’ordine liberale, il dominio del diritto e l’espansione della società civile (che deve salvaguardarsi dalla minaccia della “statalizzazione” del terzo settore).

Nessuna risposta radicale, naturalmente, che non potrebbe stare nelle corde intime di questo studioso, ma un tentativo – faticoso e difficile, naturalmente, perché mai concluso – di affrontare tutte le questioni sul piatto, usando acume, buon senso, duttilità e fedeltà ai principi e rifiutando le “sterili utopie”. In una parola, le “virtù cardinali” di ogni buon – e autentico – liberale.
Dunque, un idealista che sa, contemporaneamente, essere realista, e che si rivolge al lettore con affermazioni come questa: «Dietro l’imperativo categorico della società cosmopolitica non sta certo il sogno di un perenne discorso armonico fra eguali. Il mondo di cui parliamo è quanto mai lontano da Rousseau o anche da Habermas. Vale la pena di ripetere la frase che ho citato sopra dal mio testo guida: “Si rendano dunque grazie alla natura per l’intrattabilità, per la vanità suscitatrice di invidiosa rivalità, per l’invincibile brama di ricchezze e di dominio!” Possiamo lasciare in sospeso chi o che cosa sia la “natura” qui evocata, ma l’invidia resta pur sempre una molla dell’agire, e il possesso e il potere sono le chiavi di un mondo che cerca il progresso. Chi si accinge ad abolirli, non soltanto fallirà, ma finirà, più che in Arcadia, in una incontrollabile tirannia» (p. 126).
Un liberale serio, senza bisogno di tanti aggettivi, in un’epoca nella quale ormai quasi tutti – spesso inappropriatamente – si professano tali. E, allora, assodato definitivamente che di liberalismo non ve n’è soltanto uno, ma ce ne sono tanti, quello di Dahredorf ci pare, senza alcun dubbio, uno dei migliori possibili…

 

 

 

 

 

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