Ralph Dahrendorf,
Libertà attiva.
Sei lezioni su un mondo instabile,
Laterza, pp. 146, euro 7
Arriva in edizione economica un libro che – anche
se magari non si condivide totalmente – va conservato
nella biblioteca di casa propria, pronto all’uso
e a venire sfogliato di tanto in tanto, quando si avverte
il bisogno di ripassare i precetti del liberalismo intelligente
e responsabile. E, del resto, le “sei lezioni
su un mondo instabile” di Ralph Dahrendorf, raccolte
in Libertà attiva, valgono un libro
di testo. Si tratta delle conferenze tenute tra fine
2001 e inizi 2002, presso il Kulturwissenschaftliches
Institut di Essen, nell’ambito delle “Lezioni
Krupp”, da uno dei maggiori scienziati politici
e sociali di questi tempi (già “storico”
direttore della London School of Economics), un personaggio
dotato di una spiccata e saggia inclinazione a rifiutare
gli steccati disciplinari, in nome della «prospettiva
di uno che va e viene tra le frontiere della scienza
sociale e della politica, tra l’analisi e l’azione.
Dalla grande corporazione della cosiddetta scientific
community io sono uscito già da parecchio,
senza per questo aderire a un’altra organizzazione.
I vincoli tribali in genere mi sono estranei»
(p. V). Ben detto!
Nel corso degli anni, il celebre Lord Dahrendorf ha
affinato il suo liberalismo, rimanendo, però,
sempre coerente con se stesso e i suoi principi. Il
risultato è quello di un “liberalismo (e
di un cosmopolitismo) inquieto”, fedele alle eredità
di Kant e di Popper; mai statico né pago, dunque,
ma pronto a confrontarsi con i mutamenti della realtà
– e convinto che solo nel movimento, e nel conflitto,
risieda la possibilità di incamminarsi verso
un futuro migliore (che va conquistato faticosamente…),
alla faccia degli alfieri della fine della storia e
degli eredi di Fukuyama.
Dahrendorf ha ben chiari i problemi: la “democrazia
sotto pressione”; l’autoritarismo strisciante
(che si alimenta di una sempre più diffusa apatia
e indifferenza); il populismo; una sorta di dittatura
esercitata da media e sondaggi (quelle che potremmo
chiamare “mediacrazia” e “sondocrazia”);
le burocrazie che strozzano le libertà (al riguardo,
critica duramente certi comportamenti, a suo dire inaccettabili,
della tecnocrazia dell’Unione europea); il “capitale
senza lavoro” che impedisce il conflitto sociale
democratico (grazie al quale una società cresce;
si pensi quale differenza rispetto ai teorici, anche
appartenenti alla sinistra moderata, della fine di ogni
“lotta di classe”) e si traduce in un neoliberismo
nemico dei diritti; e, soprattutto, il regionalismo
etnico e delle “piccole patrie” xenofobe.
Altrettanti fenomeni degenerativi e involutivi che il
famoso sociologo e politologo vede trionfare nel nostro
paese nell’alleanza tra Berlusconi e la Lega.
Ci sono, poi, quelli che considera i “miti”
da sfatare: l’idea, per Dahrendorf irrealizzabile,
di una “democrazia mondiale”; la globalizzazione
sempre e in ogni caso positiva (tanto esaltata da Anthony
Giddens cui non risparmia alcuni rimproveri); il “popolo
di Seattle”(cui riconosce comunque il carattere
di “sintomo” di un problema molto serio).
Al tempo stesso, tuttavia, lo studioso inglese ha ben
chiare le stelle polari cui ispirarsi e gli strumenti
da utilizzare: ovvero, i parlamenti e gli Stati nazionali
da rilanciare (perché quello è il solo
livello in cui hanno trovato attuazione autentica la
democrazia e l’ordinamento liberale) e la “gioia
dell’agire” – Dahrendorf, da bravo
liberale, si rivela alquanto attento al ruolo della
psicologia nella determinazione dei comportamenti individuali
e collettivi. La finalità è quella di
promuovere quanto più largamente possibile la
“politica della libertà”, a lui tanto
cara, fondata sull’ordine liberale, il dominio
del diritto e l’espansione della società
civile (che deve salvaguardarsi dalla minaccia della
“statalizzazione” del terzo settore).
Nessuna risposta radicale, naturalmente, che non potrebbe
stare nelle corde intime di questo studioso, ma un tentativo
– faticoso e difficile, naturalmente, perché
mai concluso – di affrontare tutte le questioni
sul piatto, usando acume, buon senso, duttilità
e fedeltà ai principi e rifiutando le “sterili
utopie”. In una parola, le “virtù
cardinali” di ogni buon – e autentico –
liberale.
Dunque, un idealista che sa, contemporaneamente, essere
realista, e che si rivolge al lettore con affermazioni
come questa: «Dietro l’imperativo categorico
della società cosmopolitica non sta certo il
sogno di un perenne discorso armonico fra eguali. Il
mondo di cui parliamo è quanto mai lontano da
Rousseau o anche da Habermas. Vale la pena di ripetere
la frase che ho citato sopra dal mio testo guida: “Si
rendano dunque grazie alla natura per l’intrattabilità,
per la vanità suscitatrice di invidiosa rivalità,
per l’invincibile brama di ricchezze e di dominio!”
Possiamo lasciare in sospeso chi o che cosa sia la “natura”
qui evocata, ma l’invidia resta pur sempre una
molla dell’agire, e il possesso e il potere sono
le chiavi di un mondo che cerca il progresso. Chi si
accinge ad abolirli, non soltanto fallirà, ma
finirà, più che in Arcadia, in una incontrollabile
tirannia» (p. 126).
Un liberale serio, senza bisogno di tanti aggettivi,
in un’epoca nella quale ormai quasi tutti –
spesso inappropriatamente – si professano tali.
E, allora, assodato definitivamente che di liberalismo
non ve n’è soltanto uno, ma ce ne sono
tanti, quello di Dahredorf ci pare, senza alcun dubbio,
uno dei migliori possibili…
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