278 - 31.05.05


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“La mia letteratura
tra il Danubio e il Po”

Jarmila Ockayová con
Mauro Buonocore



“L’esilio è una condizione di sospensione”. Lo diceva il poeta russo Josif Brodskij, e lo ripete Jarmila Ockayová per raccontare la sua esperienza che dalla Slovacchia l’ha portata trent’anni fa in Italia, dove vive e scrive, in italiano. Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, L’essenziale è invisibile agli occhi e Requiem per tre padri sono i titoli dei suoi romanzi editi da Baldini & Castaldi; sua la traduzione delle antiche fiabe slovacche raccolte da Pavol Dobsinky´ e raccolte nel volume Il re del tempo (Sellerio). Slovacca per nascita, italiana per adozione, proveniente da una famiglia le cui origini affondano da una parte in Ucraina e dall’altra in Ungheria, la Ockayová sembra rappresentare lo spirito di una scrittura a cui sta stretto ogni confine ogni barriera.

Jarmila Ockayová , lei vive in Italia, scrive in italiano, ma la Slovacchia è sempre presente nelle sue storie. Quando parla della sua vita divisa tra Italia e Slovacchia cita Brodskij, il quale sosteneva che l’esilio è una condizione di umiltà e di sospensione. Cosa significa vivere in un paese, sentirlo proprio, ma allo stesso tempo sentire dentro di sé la propria terra lontana?

Mi sento come sospesa sopra le Alpi austriache, con un piede nel Danubio e l’altro nel Po, visto che vivo in Emilia. Ed è una condizione faticosissima ma interessante. Amo definirmi una scrittrice senza aggettivi, né slovacca né italiana e tutt’e due allo stesso tempo, perché nei miei libri le due culture di incontrano, dialogano, si scontrano e sono comunque sempre presenti, anche se scrivo in italiano. Io resto slovacca e sono orgogliosa di esserlo. La mia terra d’origine, con tutti i suoi affetti, con il senso di appartenenza che genera, è assolutamente incancellabile e prezioso perché è una sorgente di forza e una fonte d’ispirazione.

In che cosa le due culture, la italiana e la slovacca, duettano nella sua scrittura e in che cosa duellano? Cos’è che le amalgama e cosa le oppone?

Questo è un discorso molto complesso, posso provare a dare una spiegazione tentando un confronto tra le due lingue. Vedo l’italiano come una lingua vastissima e trasformista, capace di portare con la stessa disinvoltura il cappello di paglia di una mondina china su un campo di riso e l’elegante tuba di un direttore d’orchestra che dirige virtuosismi barocchi. È una lingua orizzontale. La lingua slovacca invece è verticale, spazia meno ma va molto più in profondità, è molto avvolgente, pungente, piena di diminutivi, di iperboli quindi di dolcezze e di eccessi, molto mite e molto fiera, secondo me, come il popolo slovacco. La cultura italiana è stupenda dal punto di vista intellettuale, ma noto un eccessivo intellettualismo, quello che mi manca dello slovacco sono le sfumature emozionali, e non intendo i sentimentalismi, ma i sentimenti scavati e sviscerati in profondità, come li intendeva l’Ottocento di Dostoevskij.

Si sta generando in Italia una certa attenzione verso i paesi dell’est europeo. Tutto merito dell’ingresso nell’Ue?

Io credo che, al di là dell’adesione di alcuni paesi usciti dal blocco sovietico all’Unione europea, si stia comunque sviluppando una certa curiosità culturale. Questa può essere letta da varie interpretazioni, la mia è che da qualche anno l’Italia si sta trasformando in un laboratorio multietnico e multiculturale. Gli italiani non possono ignorare questo cambiamento che guarda al nuovo, al diverso che viene da tutte le parti del mondo, e lo affrontano con duplice atteggiamento. Da una parte la xenofobia, il rifiuto, l’ostilità o comunque un’accettazione subordinata al silenzio dello straniero. Dall’altra un atteggiamento positivo che cresce nel desiderio di confronto con le culture.
La mia impressione è che gli italiani siano comunque molto cauti e, all’interno di questo confronto vogliono muoversi a piccoli passi, cominciando dai paesi che erano in un certo modo nascosti ai loro occhi dietro la cortina di ferro e il muro di Berlino e che oggi scoprono come interlocutori interessanti.

Caduto il muro e abbattuta la cortina di ferro. Lei vive in Italia da trent’anni ed ha quindi vissuto da lontano momenti importanti della storia recente della Slovacchia. Il 1989, la rivoluzione e la fine del comunismo, la separazione dalla Repubblica Ceca e l’indipendenza del ’93 fino all’adesione all’Ue del 2004. Come ha vissuto tutti questi eventi?

Con molta curiosità, attesa, speranza in un cambiamento positivo. Nell’89 e nel ’93 ero in Slovacchia e ho partecipato ad alcune manifestazioni. Sono stati momenti bellissimi, testimonianze di un’esplosione di fratellanza dopo tante umiliazioni, un popolo che si affacciava al mondo con gli occhi spalancati verso il futuro. Qualcosa di questa carica di entusiasmo ha cominciato a perdersi per strada. Il motivo è che secondo me i paesi dell’Est-europa hanno preso in fretta il peggio del mondo occidentale, la cultura dell’immagine del consumo e dell’omologazione. Il resto, gli aspetti più positivi della cultura occidentale, viene acquisito piano piano, lentamente.

Cosa si aspetta dall’Unione europea?

Più letteratura dell’Est nell’Europa occidentale e quindi più letteratura slovacca in Italia. Questo è il mio sogno: contribuire a fare per la letteratura slovacca quello che Angelo Maria Ribellino ha fatto per la letteratura ceca, far conoscere alcuni autori del mio paese, dai classici del ‘900 ai contemporanei, che non possono far altro che arricchire il panorama letterario italiano.

 

 

 

 

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