“L’esilio
è una condizione di sospensione”. Lo diceva
il poeta russo Josif Brodskij, e lo ripete Jarmila Ockayová
per raccontare la sua esperienza che dalla Slovacchia
l’ha portata trent’anni fa in Italia, dove
vive e scrive, in italiano. Verrà la vita
e avrà i tuoi occhi, L’essenziale è
invisibile agli occhi e Requiem per tre padri sono
i titoli dei suoi romanzi editi da Baldini & Castaldi;
sua la traduzione delle antiche fiabe slovacche raccolte
da Pavol Dobsinky´ e raccolte nel volume Il
re del tempo (Sellerio). Slovacca per nascita,
italiana per adozione, proveniente da una famiglia le
cui origini affondano da una parte in Ucraina e dall’altra
in Ungheria, la Ockayová sembra rappresentare
lo spirito di una scrittura a cui sta stretto ogni confine
ogni barriera.
Jarmila Ockayová , lei vive in Italia,
scrive in italiano, ma la Slovacchia è sempre
presente nelle sue storie. Quando parla della sua vita
divisa tra Italia e Slovacchia cita Brodskij, il quale
sosteneva che l’esilio è una condizione
di umiltà e di sospensione. Cosa significa vivere
in un paese, sentirlo proprio, ma allo stesso tempo
sentire dentro di sé la propria terra lontana?
Mi sento come sospesa sopra le Alpi austriache, con
un piede nel Danubio e l’altro nel Po, visto che
vivo in Emilia. Ed è una condizione faticosissima
ma interessante. Amo definirmi una scrittrice senza
aggettivi, né slovacca né italiana e tutt’e
due allo stesso tempo, perché nei miei libri
le due culture di incontrano, dialogano, si scontrano
e sono comunque sempre presenti, anche se scrivo in
italiano. Io resto slovacca e sono orgogliosa di esserlo.
La mia terra d’origine, con tutti i suoi affetti,
con il senso di appartenenza che genera, è assolutamente
incancellabile e prezioso perché è una
sorgente di forza e una fonte d’ispirazione.
In che cosa le due culture, la italiana e la
slovacca, duettano nella sua scrittura e in che cosa
duellano? Cos’è che le amalgama e cosa
le oppone?
Questo è un discorso molto complesso, posso provare
a dare una spiegazione tentando un confronto tra le
due lingue. Vedo l’italiano come una lingua vastissima
e trasformista, capace di portare con la stessa disinvoltura
il cappello di paglia di una mondina china su un campo
di riso e l’elegante tuba di un direttore d’orchestra
che dirige virtuosismi barocchi. È una lingua
orizzontale. La lingua slovacca invece è verticale,
spazia meno ma va molto più in profondità,
è molto avvolgente, pungente, piena di diminutivi,
di iperboli quindi di dolcezze e di eccessi, molto mite
e molto fiera, secondo me, come il popolo slovacco.
La cultura italiana è stupenda dal punto di vista
intellettuale, ma noto un eccessivo intellettualismo,
quello che mi manca dello slovacco sono le sfumature
emozionali, e non intendo i sentimentalismi, ma i sentimenti
scavati e sviscerati in profondità, come li intendeva
l’Ottocento di Dostoevskij.
Si sta generando in Italia una certa attenzione
verso i paesi dell’est europeo. Tutto merito dell’ingresso
nell’Ue?
Io credo che, al di là dell’adesione di
alcuni paesi usciti dal blocco sovietico all’Unione
europea, si stia comunque sviluppando una certa curiosità
culturale. Questa può essere letta da varie interpretazioni,
la mia è che da qualche anno l’Italia si
sta trasformando in un laboratorio multietnico e multiculturale.
Gli italiani non possono ignorare questo cambiamento
che guarda al nuovo, al diverso che viene da tutte le
parti del mondo, e lo affrontano con duplice atteggiamento.
Da una parte la xenofobia, il rifiuto, l’ostilità
o comunque un’accettazione subordinata al silenzio
dello straniero. Dall’altra un atteggiamento positivo
che cresce nel desiderio di confronto con le culture.
La mia impressione è che gli italiani siano comunque
molto cauti e, all’interno di questo confronto
vogliono muoversi a piccoli passi, cominciando dai paesi
che erano in un certo modo nascosti ai loro occhi dietro
la cortina di ferro e il muro di Berlino e che oggi
scoprono come interlocutori interessanti.
Caduto il muro e abbattuta la cortina di ferro.
Lei vive in Italia da trent’anni ed ha quindi
vissuto da lontano momenti importanti della storia recente
della Slovacchia. Il 1989, la rivoluzione e la fine
del comunismo, la separazione dalla Repubblica Ceca
e l’indipendenza del ’93 fino all’adesione
all’Ue del 2004. Come ha vissuto tutti questi
eventi?
Con molta curiosità, attesa, speranza in un cambiamento
positivo. Nell’89 e nel ’93 ero in Slovacchia
e ho partecipato ad alcune manifestazioni. Sono stati
momenti bellissimi, testimonianze di un’esplosione
di fratellanza dopo tante umiliazioni, un popolo che
si affacciava al mondo con gli occhi spalancati verso
il futuro. Qualcosa di questa carica di entusiasmo ha
cominciato a perdersi per strada. Il motivo è
che secondo me i paesi dell’Est-europa hanno preso
in fretta il peggio del mondo occidentale, la cultura
dell’immagine del consumo e dell’omologazione.
Il resto, gli aspetti più positivi della cultura
occidentale, viene acquisito piano piano, lentamente.
Cosa si aspetta dall’Unione europea?
Più letteratura dell’Est nell’Europa
occidentale e quindi più letteratura slovacca
in Italia. Questo è il mio sogno: contribuire
a fare per la letteratura slovacca quello che Angelo
Maria Ribellino ha fatto per la letteratura ceca, far
conoscere alcuni autori del mio paese, dai classici
del ‘900 ai contemporanei, che non possono far
altro che arricchire il panorama letterario italiano.
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