Il riso
abbonda sulla bocca degli stolti.
Finalmente! Tutto questo aziendalismo d’accatto,
“sorrida: prego, no, sorrida Lei”, “mi
consenta...” (“...che glielo metto nel sedere”
resta nell’implicito) comincia a mostrare la trama.
Buona parte della mia socializzazione primaria si è
svolta in un ambiente montagnardo e valligiano in cui
valeva la regola del “chi si loda s’imbroda”.
La non dimenticata maestra Pivetta era una delle due
venete del paese e quindi considerata poco più
di una negra (Bocca mi ha raccontato che a Torino gli
immigrati veneti erano chiamati “i cinès”),
ma molto rispettata in quanto maestra. Alta, segaligna,
con cappelli stopposi mezzo ricci, come le bamboline
che oggi vanno di moda, era lesta di mano e non si tirava
indietro se all’occorrenza, alzandosi la gonna
con la sinistra e menando con la destra fendenti con
il pesante righello, doveva saltabeccare da un banco
all’altro per inseguire l’occasionale (ma
non raro) trasgressore. Una volta ha persino tirato
un calamaio a uno di quelli degli ultimi banchi, capaci
di stroncare anche Giobbe, ma lesti di riflessi come
gatti, cosicché il calamaio è finito sul
muro di fondo, senza rompersi (penso fossero collaudati
anche per questo genere di stress), ma lasciando una
enorme macchia di inchiostro, oggetto poi di reverenti
pellegrinaggi da parte di tutta la scolaresca. Anticipando
di un bel pezzo le abitudini nostrane ci apostrofava
cantilenando: “Sceemi! Sceemi! (che usciva come
un “seemi, seemi”)” o, tentando vanamente
la sprezzatura, “il riso abbonda sulla bocca degli
stolti”. Al che noi, vera banda di liggera pidocchiosi,
che aspettavamo con ansia questa formula di rito, giù
a ridere più forte. Ma ridi che ti ridi il concetto
ci era entrato in testa e a me queste orribili sgrinfie
pubbliche che ridono anche ai funerali mi danno veramente
sui nervi. Seemi! Seemi!, che avete da ridere?
Al fondo mi è rimasta la morale delle valli,
che si fida molto di più della calma austera
di un Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco che
del braggadocio pomposo del Generale Santa Aña
di fronte ad Alamo. La regola era, sopratutto in fatti
amatori, che “chi fa non dice e chi dice non fa”.
Ma di questi tempi la mia fiducia è stata messa
a dura prova perché siamo stati subissati da
valanghe di “facciamo squadra” “think
positive” o ”ci vuole ottimismo”,
perché chi non sghignazza oscenamente appena
scorge un occhio di vetro, è subito inquadrato
come menagramo o “filosofo del nulla”, come
se dietro le risate ci fosse qualcosa di più
della stoltezza acutamente percepita dalla Maestra Pivetta.
Ma oggi, per fortuna, grazie a “ricercatrici capaci
di pensare (thoughtful) come Jennifer Crocker
della University of Michigan at Ann Arbor” e ad
altri studiosi, come lei poco inclini a fermarsi alle
apparenze, il mito che l’autostima produce i migliori
risultati e che quindi basta affidarsi a uno dei milioni
di venditori di self esteem boosting, per diventare
persone più capaci e di maggior successo, è
stato seriamente intaccato. La storia è raccontata
da un gruppo di psicologi, incaricati dall’American
Psychological Society di svolgere una approfondita
analisi dei dati di ricerca sull’argomento, Roy
F. Baumeister, Jennifer D.Campbell, Joachim I. Krueger
and Kathleen D. Vohs (vedi “Exploding the self-esteem
myth”, in Scientific American del Gennaio
2005 (pp.70-77). Una lettura che consiglio caldamente.
La storia va così. Alla fine degli anni ’80,
su iniziativa del Deputato John Vasconcellos, l’allora
Governatore della California George Deukmejian, nominò
una task force, con il compito di far aumentare
la stima di sé dei giovani sulla base del postulato
che un aumento della “selfesteem” avrebbe
migliorato la loro vita riducendo “criminalità,
gravidanze adolescenti, abuso di droghe, scarso profitto
scolastico e inquinamento” (p.70). L’entusiasta
parlamentare, il quale era convinto, come tutti gli
americani, che “i problemi non solo si devono
risolvere, ma si possono risolvere” (secondo
la famosa battuta di Luigi Barzini) arrivò anche
a prospettare una eliminazione del deficit dello stato,
grazie ai miglioramenti previsti. Tra le altre attività
svolte dalla task force, venne anche commissionato
a un gruppo di ricercatori, (tra i quali il mio vecchio
professore di U.C. Berkeley, Neil J.Smelser) uno studio
della letteratura per ricavarne indicazioni sintetiche.
Il risultato di questo lavoro, pubblicato in un volume
intitolato, prevedibilmente, The Social Importance
of Self-esteem(1989) concludeva: “molti,
se non tutti, tra i maggiori problemi che affliggono
la società affondano le proprie radici nella
scarsa stima di se stessi di gran parte delle persone
che di quella società fanno parte” (pp.71-72).
Una conclusione che farebbe felice il sempre sorridente
secondo cavaliere della storia d’Italia e tutta
la sua corte di comunicatori di felicità. “Don’t
worry, be happy!”, oppure, come nel terribile
Zoo di vetro, di Tennessee Williams, lo stridente
“rise and shine” (alzati e splendi) con
cui la madre della ragazza poliomelitica, angaria la
figlia ogni mattina.
Purtroppo, come sottolineano gli autori della ricerca,
“in realtà il rapporto conteneva molto
poco a sostegno di questa affermazione” (p.72).
Nella vita reale, e non in quella del Formaggino mio,
dello studio di Bruno Vespa o di Emilio Fede e dei comunicati
di Schifani, Bondi e di quelli con il loro chutzpah,
spesso il ridere fa solo ridere, o pena, se si vuole.
E lo provano anche i dati scientifici presentati nell’articolo.
La storia prosegue con lo scioglimento, nel 1995, della
task force californiana di Vasconcellos, fine comune
a molti di questi progetti politico-ideologici. L’attività
fu però ripresa da una associazione privata la
Nase (National Self-Esteem Association), che tuttavia
non ha mostrato nessun interesse nel prendere in considerazione
i nuovi dati sperimentali sul tema, che nei 15 anni
successivi alla iniziativa di Vasconcellos si sono accumulati
in notevole quantità. Ragion per cui si è
arrivati alla situazione attuale in cui, come abbiamo
detto, la Aps ha deciso di far luce sul problema, in
base a una seria valutazione scientifica dei dati (15.000
ricerche, di cui 200 ritenute interamente valide). Ed
eccoci qui.
Per capire la logica di fondo che si deve applicare
alla interpretazione di questo tipo di dati, occorre
avere una idea chiara di cosa significhi “associazione
statistica” (di cui l’indice di correlazione
è una delle possibili misure) e in quale rapporto
essa stia alla causalità. Se rileviamo che le
cicogne tendono a nidificare nelle case in cui ci sono
neonati, abbiamo individuato una associazione statistica
(che può anche essere espressa con un indice
di correlazione che varia da -1 a +1 dove se c’è
forte associazione positiva l’indice è
vicino a 1,00 e può essere, per esempio, 0,7).
Ma dobbiamo perciò anche concludere che le cicogne
portano i bambini? Se volete crederlo, accomodatevi,
ma forse è meglio sforzarsi di trovare un percorso
causale che spieghi in modo più convincente l’associazione
tra i due fatti. Lascio al lettore il piacere di scoprirlo.
Ma per aiutarlo gli faccio un altro esempio famoso,
che si trova in tutti i libri di statistica: esiste
una forte correlazione tra gravità degli incendi
e numero di pompieri. Lo sciocco di Porta a Porta
dirà inevitabilmente che i pompieri causano gli
incendi. Lo studioso, invece, penserà che l’associazione
statistica tra incendi e pompieri, di per sé
non è in grado di dire in che senso vada la relazione
causale, ma che, se Emilio Fede dice che sono i pompieri
a causare gli incendi, quasi certamente sarà
vero il contrario. Per esempio è plausibile che
la correlazione sia dovuta alla circostanza che, dove
ci sono grandi incendi, vengono inviati più pompieri.
L’associazione (o correlazione) statistica non
è dunque in grado di dire nulla sulla causalità.
Se due fenomeni co-variano, o sono statisticamente associati
(o correlati) esiste una possibilità che l’uno
causi l’altro, ma rileveremmo gli stessi dati
se i fenomeni fossero entrambi causati da una terza
variabile. Quindi attenzione, quando sentite qualcuno
che generalizza una associazione in una relazione causale
caveat emptor, rizzate le orecchie. Il più
delle volte la supposta relazione causale non esiste.
Questa affermazione vale anche per il rapporto tra
self-esteem e successo, per esempio successo scolastico.
In generale per misurare l’autostima, gli psicologi
fanno così: chiedono a un campione di persone,
cosa pensano di se stessi (self-reporting).
Non è una gran misura, ma non ci sono molte alternative.
Se tu chiedi a un campione di persone di dire come ciascuna
di loro si stimi e poi gli chiedi se hanno successo
nella vita, è probabile che ci sia una ragionevole
associazione tra le due variabili. Lo sciocco di Porta
a Porta, o l’ideologo alla Emilio Fede, diranno
subito che la self-esteem produce un maggiore
successo nella vita. “Elementare, Watson.”.
Ma se fosse vero il contrario? E’ davvero così
implausibile che il successo nella vita, che può
essere dovuto a molti fattori anche accidentali, provochi
un aumento della propria autostima? Il problema metodologico
principale è che il self-reporting non è
uno strumento buono per questo genere di misure. Nella
maggior parte dei casi (non solo in merito alla self-esteem)
le ricerche che si basano sul self-reporting,
producono risultati distorti. Raramente una persona
ha una esatta percezione della sua immagine pubblica.
Pensate al Ministro Castelli.
Per esempio, se chiediamo a un campione di studenti
con una forte autostima, se si ritengono “più
abili nell’intraprendere relazioni con altri compagni,
oppure meglio capaci di parlare di sé, oppure
in grado di stare sulle proprie posizioni di fronte
a un contrasto, o migliori nel fornire sostegno emotivo
oppure semplicemente a gestire i conflitti” (p.74),
troviamo una forte correlazione tra le due variabili.
Ma se confrontiamo il valore dell’autostima con
quello che sui vari parametri dicono i roommates
dell’intervistato, le correlazioni scompaiono.
Prevedibilmente resta valida (ma sempre con un valore
più basso per il giudizio dato dagli altri) solo
la correlazione tra autostima e giudizio sulla propria
capacità di avviare relazioni (è chiaro
che persone che si autostimano e che pensano di essere
attraenti, hanno anche maggior facilità nello
stabilire contatti con altri). Complessivamente però
questo dato ci indica che il mito si incrina, mentre
rende evidente il contenuto tautologico dell’affermazione
convenzionale.
Un altro modo per stabilire se l’associazione
statistica sia anche segno di un rapporto di causa ed
effetto, è di vedere se una delle due variabili
viene prima dell’altra. Anche in questo caso l’associazione
non prova da sola che una co-variazione tra A e B coincida
con una causazione. Quantomeno, però, introducendo
il tempo, si può escludere che se A viene prima,
B possa causare A. Nel caso specifico, quando si misura
la relazione tra autostima e rendimento scolastico la
correlazione è normalmente molto elevata. Ma,
mentre le intelligenze a la Calderoli, per fare un esempio,
concluderebbero subito che l’autostima produce
i buoni risultati (come farebbe del resto il medio ospite
di Bruno Vespa) si può anche ragionevolmente
pensare che chi ha ottenuto buoni risultati (magari
anche solo per aver avuto fortuna alle prove di esame,
chissà) senta la propria autostima aumentare.
Come si decide? Calderoli non ha bisogno di prove, lui
sa già tutto prima. Ma un considerate scholar
cioè uno studioso attento, cerca dei modi per
avere una conferma. E il modo c’è, basta
vedere quale dei due dati viene prima nel tempo: per
esempio correlando i dati di autostima e di rendimento
scolastico tratti da migliaia di interviste a studenti
americani di high school, nell’anno di
scuola del 10° grado (sophomore) e del
12° grado (senior) l’ultimo della
scuola secondaria. Andiamo a vedere se chi aveva una
grande stima di sé al 10° grado, ha anche
voti elevati al 12° grado. Se l’autostima
influenza il rendimento dovremmo trovare una correlazione
elevata tra le due misure, dell’ordine di almeno
0,50.
Surprise, surprise, l’indice di correlazione
è di 0,1 cioè molto, molto basso, o meglio
quasi nullo. Statisticamente parlando, chi volesse prevedere
il risultato scolastico al 12° anno di scuola, partendo
dal grado di autostima al 10° sbaglierebbe 9 volte
su 10. Non una buona base per farci i soldi con le scommesse.
Proviamo la relazione inversa: la riuscita scolastica
al 10° anno, come si correla con l’autostima
al 12° anno? Un pelo, ma proprio un pelo di più,
ma sempre praticamente zero. In realtà, comunque
la si giri, quando si toglie la tautologia (di chi oggi
si stima molto perché ha conseguito
buoni risultati) tra le due variabili non esiste davvero
relazione, le due variabili (era ora!!!) sono dimostrabilmente
indipendenti: il ghigno non serve a farci migliori.
E la conferma viene dal confronto separato tra le due
variabili tra di loro. Gli studenti che avevano molta
autostima nel 12° anno sono in buona parte, ma non
troppo, anche quelli che l’avevano nel 10°.
La correlazione è 0.40, buona, ma non di quelle
da far venire giù il soffitto; significa che
mediamente si sbaglierebbe 6 volte su dieci. In altre
parole, la stima di sé varia molto nel corso
del tempo, in base agli eventi e non sempre dipende
dai risultati passati. La vera bomba salta fuori confrontando
il risultato negli studi del 10° anno con il risultato
negli studi del 12° anno: 0.85 e più di correlazione.
Quelli bravi a studiare rimangono bravi anche se putacaso
(ma non è necessario) hanno i foruncoli e sono
un po’ timidi. Le mezze calzette rimangono tali
anche se ridono come sapete chi. Gli stolti possono
abbondare in risate televisive, ma rimangono stolti:
“Seemi! Seemi”! Grazie, avevi ragione, maestra
Pivetta! Ti siamo tutti molto grati.
Quando ci saremo liberati di tutti i similVanna che
riempiono abusivamente lo schermo derubando milioni
di italiani di una informazione e di divertimenti onesti,
capiremo tutti, e non solo chi è stato scolaro
delle tante maestre Pivetta e di altri buoni maestri,
che quelle risate, quelle mossette e quell’ottimismo
da gita aziendale con tutti che ridono alle freddure
del capo, non bastano a farci migliori. Anzi.
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