276 - 29.04.05


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Sorrida, prego, e sarà un trionfo.

Guido Martinotti



Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.

Finalmente! Tutto questo aziendalismo d’accatto, “sorrida: prego, no, sorrida Lei”, “mi consenta...” (“...che glielo metto nel sedere” resta nell’implicito) comincia a mostrare la trama. Buona parte della mia socializzazione primaria si è svolta in un ambiente montagnardo e valligiano in cui valeva la regola del “chi si loda s’imbroda”. La non dimenticata maestra Pivetta era una delle due venete del paese e quindi considerata poco più di una negra (Bocca mi ha raccontato che a Torino gli immigrati veneti erano chiamati “i cinès”), ma molto rispettata in quanto maestra. Alta, segaligna, con cappelli stopposi mezzo ricci, come le bamboline che oggi vanno di moda, era lesta di mano e non si tirava indietro se all’occorrenza, alzandosi la gonna con la sinistra e menando con la destra fendenti con il pesante righello, doveva saltabeccare da un banco all’altro per inseguire l’occasionale (ma non raro) trasgressore. Una volta ha persino tirato un calamaio a uno di quelli degli ultimi banchi, capaci di stroncare anche Giobbe, ma lesti di riflessi come gatti, cosicché il calamaio è finito sul muro di fondo, senza rompersi (penso fossero collaudati anche per questo genere di stress), ma lasciando una enorme macchia di inchiostro, oggetto poi di reverenti pellegrinaggi da parte di tutta la scolaresca. Anticipando di un bel pezzo le abitudini nostrane ci apostrofava cantilenando: “Sceemi! Sceemi! (che usciva come un “seemi, seemi”)” o, tentando vanamente la sprezzatura, “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”. Al che noi, vera banda di liggera pidocchiosi, che aspettavamo con ansia questa formula di rito, giù a ridere più forte. Ma ridi che ti ridi il concetto ci era entrato in testa e a me queste orribili sgrinfie pubbliche che ridono anche ai funerali mi danno veramente sui nervi. Seemi! Seemi!, che avete da ridere?

Al fondo mi è rimasta la morale delle valli, che si fida molto di più della calma austera di un Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco che del braggadocio pomposo del Generale Santa Aña di fronte ad Alamo. La regola era, sopratutto in fatti amatori, che “chi fa non dice e chi dice non fa”. Ma di questi tempi la mia fiducia è stata messa a dura prova perché siamo stati subissati da valanghe di “facciamo squadra” “think positive” o ”ci vuole ottimismo”, perché chi non sghignazza oscenamente appena scorge un occhio di vetro, è subito inquadrato come menagramo o “filosofo del nulla”, come se dietro le risate ci fosse qualcosa di più della stoltezza acutamente percepita dalla Maestra Pivetta. Ma oggi, per fortuna, grazie a “ricercatrici capaci di pensare (thoughtful) come Jennifer Crocker della University of Michigan at Ann Arbor” e ad altri studiosi, come lei poco inclini a fermarsi alle apparenze, il mito che l’autostima produce i migliori risultati e che quindi basta affidarsi a uno dei milioni di venditori di self esteem boosting, per diventare persone più capaci e di maggior successo, è stato seriamente intaccato. La storia è raccontata da un gruppo di psicologi, incaricati dall’American Psychological Society di svolgere una approfondita analisi dei dati di ricerca sull’argomento, Roy F. Baumeister, Jennifer D.Campbell, Joachim I. Krueger and Kathleen D. Vohs (vedi “Exploding the self-esteem myth”, in Scientific American del Gennaio 2005 (pp.70-77). Una lettura che consiglio caldamente.

La storia va così. Alla fine degli anni ’80, su iniziativa del Deputato John Vasconcellos, l’allora Governatore della California George Deukmejian, nominò una task force, con il compito di far aumentare la stima di sé dei giovani sulla base del postulato che un aumento della “selfesteem” avrebbe migliorato la loro vita riducendo “criminalità, gravidanze adolescenti, abuso di droghe, scarso profitto scolastico e inquinamento” (p.70). L’entusiasta parlamentare, il quale era convinto, come tutti gli americani, che “i problemi non solo si devono risolvere, ma si possono risolvere” (secondo la famosa battuta di Luigi Barzini) arrivò anche a prospettare una eliminazione del deficit dello stato, grazie ai miglioramenti previsti. Tra le altre attività svolte dalla task force, venne anche commissionato a un gruppo di ricercatori, (tra i quali il mio vecchio professore di U.C. Berkeley, Neil J.Smelser) uno studio della letteratura per ricavarne indicazioni sintetiche. Il risultato di questo lavoro, pubblicato in un volume intitolato, prevedibilmente, The Social Importance of Self-esteem(1989) concludeva: “molti, se non tutti, tra i maggiori problemi che affliggono la società affondano le proprie radici nella scarsa stima di se stessi di gran parte delle persone che di quella società fanno parte” (pp.71-72). Una conclusione che farebbe felice il sempre sorridente secondo cavaliere della storia d’Italia e tutta la sua corte di comunicatori di felicità. “Don’t worry, be happy!”, oppure, come nel terribile Zoo di vetro, di Tennessee Williams, lo stridente “rise and shine” (alzati e splendi) con cui la madre della ragazza poliomelitica, angaria la figlia ogni mattina.

Purtroppo, come sottolineano gli autori della ricerca, “in realtà il rapporto conteneva molto poco a sostegno di questa affermazione” (p.72). Nella vita reale, e non in quella del Formaggino mio, dello studio di Bruno Vespa o di Emilio Fede e dei comunicati di Schifani, Bondi e di quelli con il loro chutzpah, spesso il ridere fa solo ridere, o pena, se si vuole. E lo provano anche i dati scientifici presentati nell’articolo. La storia prosegue con lo scioglimento, nel 1995, della task force californiana di Vasconcellos, fine comune a molti di questi progetti politico-ideologici. L’attività fu però ripresa da una associazione privata la Nase (National Self-Esteem Association), che tuttavia non ha mostrato nessun interesse nel prendere in considerazione i nuovi dati sperimentali sul tema, che nei 15 anni successivi alla iniziativa di Vasconcellos si sono accumulati in notevole quantità. Ragion per cui si è arrivati alla situazione attuale in cui, come abbiamo detto, la Aps ha deciso di far luce sul problema, in base a una seria valutazione scientifica dei dati (15.000 ricerche, di cui 200 ritenute interamente valide). Ed eccoci qui.

Per capire la logica di fondo che si deve applicare alla interpretazione di questo tipo di dati, occorre avere una idea chiara di cosa significhi “associazione statistica” (di cui l’indice di correlazione è una delle possibili misure) e in quale rapporto essa stia alla causalità. Se rileviamo che le cicogne tendono a nidificare nelle case in cui ci sono neonati, abbiamo individuato una associazione statistica (che può anche essere espressa con un indice di correlazione che varia da -1 a +1 dove se c’è forte associazione positiva l’indice è vicino a 1,00 e può essere, per esempio, 0,7). Ma dobbiamo perciò anche concludere che le cicogne portano i bambini? Se volete crederlo, accomodatevi, ma forse è meglio sforzarsi di trovare un percorso causale che spieghi in modo più convincente l’associazione tra i due fatti. Lascio al lettore il piacere di scoprirlo. Ma per aiutarlo gli faccio un altro esempio famoso, che si trova in tutti i libri di statistica: esiste una forte correlazione tra gravità degli incendi e numero di pompieri. Lo sciocco di Porta a Porta dirà inevitabilmente che i pompieri causano gli incendi. Lo studioso, invece, penserà che l’associazione statistica tra incendi e pompieri, di per sé non è in grado di dire in che senso vada la relazione causale, ma che, se Emilio Fede dice che sono i pompieri a causare gli incendi, quasi certamente sarà vero il contrario. Per esempio è plausibile che la correlazione sia dovuta alla circostanza che, dove ci sono grandi incendi, vengono inviati più pompieri. L’associazione (o correlazione) statistica non è dunque in grado di dire nulla sulla causalità. Se due fenomeni co-variano, o sono statisticamente associati (o correlati) esiste una possibilità che l’uno causi l’altro, ma rileveremmo gli stessi dati se i fenomeni fossero entrambi causati da una terza variabile. Quindi attenzione, quando sentite qualcuno che generalizza una associazione in una relazione causale caveat emptor, rizzate le orecchie. Il più delle volte la supposta relazione causale non esiste.

Questa affermazione vale anche per il rapporto tra self-esteem e successo, per esempio successo scolastico. In generale per misurare l’autostima, gli psicologi fanno così: chiedono a un campione di persone, cosa pensano di se stessi (self-reporting). Non è una gran misura, ma non ci sono molte alternative. Se tu chiedi a un campione di persone di dire come ciascuna di loro si stimi e poi gli chiedi se hanno successo nella vita, è probabile che ci sia una ragionevole associazione tra le due variabili. Lo sciocco di Porta a Porta, o l’ideologo alla Emilio Fede, diranno subito che la self-esteem produce un maggiore successo nella vita. “Elementare, Watson.”. Ma se fosse vero il contrario? E’ davvero così implausibile che il successo nella vita, che può essere dovuto a molti fattori anche accidentali, provochi un aumento della propria autostima? Il problema metodologico principale è che il self-reporting non è uno strumento buono per questo genere di misure. Nella maggior parte dei casi (non solo in merito alla self-esteem) le ricerche che si basano sul self-reporting, producono risultati distorti. Raramente una persona ha una esatta percezione della sua immagine pubblica. Pensate al Ministro Castelli.

Per esempio, se chiediamo a un campione di studenti con una forte autostima, se si ritengono “più abili nell’intraprendere relazioni con altri compagni, oppure meglio capaci di parlare di sé, oppure in grado di stare sulle proprie posizioni di fronte a un contrasto, o migliori nel fornire sostegno emotivo oppure semplicemente a gestire i conflitti” (p.74), troviamo una forte correlazione tra le due variabili. Ma se confrontiamo il valore dell’autostima con quello che sui vari parametri dicono i roommates dell’intervistato, le correlazioni scompaiono. Prevedibilmente resta valida (ma sempre con un valore più basso per il giudizio dato dagli altri) solo la correlazione tra autostima e giudizio sulla propria capacità di avviare relazioni (è chiaro che persone che si autostimano e che pensano di essere attraenti, hanno anche maggior facilità nello stabilire contatti con altri). Complessivamente però questo dato ci indica che il mito si incrina, mentre rende evidente il contenuto tautologico dell’affermazione convenzionale.

Un altro modo per stabilire se l’associazione statistica sia anche segno di un rapporto di causa ed effetto, è di vedere se una delle due variabili viene prima dell’altra. Anche in questo caso l’associazione non prova da sola che una co-variazione tra A e B coincida con una causazione. Quantomeno, però, introducendo il tempo, si può escludere che se A viene prima, B possa causare A. Nel caso specifico, quando si misura la relazione tra autostima e rendimento scolastico la correlazione è normalmente molto elevata. Ma, mentre le intelligenze a la Calderoli, per fare un esempio, concluderebbero subito che l’autostima produce i buoni risultati (come farebbe del resto il medio ospite di Bruno Vespa) si può anche ragionevolmente pensare che chi ha ottenuto buoni risultati (magari anche solo per aver avuto fortuna alle prove di esame, chissà) senta la propria autostima aumentare. Come si decide? Calderoli non ha bisogno di prove, lui sa già tutto prima. Ma un considerate scholar cioè uno studioso attento, cerca dei modi per avere una conferma. E il modo c’è, basta vedere quale dei due dati viene prima nel tempo: per esempio correlando i dati di autostima e di rendimento scolastico tratti da migliaia di interviste a studenti americani di high school, nell’anno di scuola del 10° grado (sophomore) e del 12° grado (senior) l’ultimo della scuola secondaria. Andiamo a vedere se chi aveva una grande stima di sé al 10° grado, ha anche voti elevati al 12° grado. Se l’autostima influenza il rendimento dovremmo trovare una correlazione elevata tra le due misure, dell’ordine di almeno 0,50.

Surprise, surprise, l’indice di correlazione è di 0,1 cioè molto, molto basso, o meglio quasi nullo. Statisticamente parlando, chi volesse prevedere il risultato scolastico al 12° anno di scuola, partendo dal grado di autostima al 10° sbaglierebbe 9 volte su 10. Non una buona base per farci i soldi con le scommesse. Proviamo la relazione inversa: la riuscita scolastica al 10° anno, come si correla con l’autostima al 12° anno? Un pelo, ma proprio un pelo di più, ma sempre praticamente zero. In realtà, comunque la si giri, quando si toglie la tautologia (di chi oggi si stima molto perché ha conseguito buoni risultati) tra le due variabili non esiste davvero relazione, le due variabili (era ora!!!) sono dimostrabilmente indipendenti: il ghigno non serve a farci migliori.

E la conferma viene dal confronto separato tra le due variabili tra di loro. Gli studenti che avevano molta autostima nel 12° anno sono in buona parte, ma non troppo, anche quelli che l’avevano nel 10°. La correlazione è 0.40, buona, ma non di quelle da far venire giù il soffitto; significa che mediamente si sbaglierebbe 6 volte su dieci. In altre parole, la stima di sé varia molto nel corso del tempo, in base agli eventi e non sempre dipende dai risultati passati. La vera bomba salta fuori confrontando il risultato negli studi del 10° anno con il risultato negli studi del 12° anno: 0.85 e più di correlazione. Quelli bravi a studiare rimangono bravi anche se putacaso (ma non è necessario) hanno i foruncoli e sono un po’ timidi. Le mezze calzette rimangono tali anche se ridono come sapete chi. Gli stolti possono abbondare in risate televisive, ma rimangono stolti: “Seemi! Seemi”! Grazie, avevi ragione, maestra Pivetta! Ti siamo tutti molto grati.

Quando ci saremo liberati di tutti i similVanna che riempiono abusivamente lo schermo derubando milioni di italiani di una informazione e di divertimenti onesti, capiremo tutti, e non solo chi è stato scolaro delle tante maestre Pivetta e di altri buoni maestri, che quelle risate, quelle mossette e quell’ottimismo da gita aziendale con tutti che ridono alle freddure del capo, non bastano a farci migliori. Anzi.

 

 

 

 

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