L’accesa
manualità dell’arte alla fine del XIX secolo,
la curiosità per le arti minori e le culture
primitive sono la risposta a un contesto avviato sempre
più verso la riproduzione meccanica non soltanto
dell’immagine ma anche del comportamento standardizzato
dell’uomo.
All’impersonalità entusiasta dell’impressionismo
avevano già dato risposta Van Gogh e Gauguin:
a questi artisti, oltre che a Toulouse-Lautrec, si aggancia
il lavoro di Eduard Munch (1863-1944) , e poi degli
Espressionisti, che riporta sulle motivazioni del soggetto
la sostanza morale del bisogno creativo.
Un bisogno accentuato dall’urgenza di ripristinare
una lacerata centralità dell’individuo
mortificata dallo sviluppo dell’industrializzazione
e dall’abnorme crescita della città, agglomerato
artificiale rispondente soltanto a motivazioni produttive
ed economiche. La città è il teatro della
messa in posa sociale dell’uomo che indossa le
maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione
e della repressione.
Verso l’abnormità di questa realtà
l’artista si sente minore sul piano della quantità
sociale che invece accetta supinamente il grado negativo
dell’esistenza, maggiore sul piano della qualità
morale in quanto capace di ripristinare le ragioni del
soggetto seppure ferito e dissociato per un paradossale
eccesso di consapevolezza e di sensibilità. Per
far questo l’artista adotta una strategia particolare,
quella dell’enfasi espressiva capace di dilatare
al massimo la presenza del soggetto: l’urlo munchiano
(virtualmente pronto alla riproduzione modulare anche
nelle affiches del XXI secolo) contro il silenzio
supino della società e il mistero dell’universo
che accoglie nello stesso tempo l’innocenza maligna
della natura e le contraddizioni della storia, la melanconia
dell’adolescenza già minacciata dall’ombra
sospetta di un futuro incombente. La perplessità
della figura ricorda Degas. In ogni caso l’urlo
resta l’emblema iconografico che conferma la sentenza
di Schopenhauer: “Il mondo stesso è il
Giudizio Universale”.
Una sorta di procedimento di irradiazione narcisistica
esasperata dal soggetto sull’oggetto, sull’opera
realizzata, presiede la creazione, una regressione allo
stadio elementare dell’infanzia, anche a quella
dell’umanità rappresentata dalle culture
primitive, che permette l’uso e il piacere di
una manualità che riduce ogni complessità
a uno stadio essenziale. Ma tutto questo non è
il frutto di un atteggiamento artefatto, ma è
la conseguenza di una condizione sentimentale che non
permette alternative se non quella di un’espressione
artistica, capace di produrre riparazione.
In tal modo Munch, ristabilisce un’attenzione
del mondo su di sé, che altrimenti non ci sarebbe.
La naturalezza del soggetto viene ristabilita mediante
il recupero di un linguaggio, quello dell’arte,
capace di rappresentare la posizione asimmetrica dell’uomo
fuori da ogni verosimiglianza. Una salda coscienza metalinguistica
presiede la sua arte, consapevole della specificità
dell’esperienza creativa che adotta tecniche che
certamente non sono quelle della vita. Anche l’enfasi
diventa dunque il travestimento necessario per ingrandire
le istanze e i bisogni di totalità che la realtà
tende a negare.
Infatti la concezione dello spazio, pittorico o grafico,
è sempre saldamente bidimensionale, sbarrata
a ogni tentazione di rappresentazione naturalistica.
L’alterazione enfatica del segno rispetta la conformazione
di uno spazio che non cerca l’illusione della
duplicazione delle cose. Lo spazio è introspettivo
e come tale non ha bisogno di altra profondità
che non sia quella bidimensionale della tela o del foglio.
Le asimmetrie dell’emozione e della nostalgia
trovano nella lingua dell’arte i segni naturali
della propria messa in scena.
Qui messa in scena non significa mistificazione o alterazione,
semmai passaggio sotto una lente di ingrandimento capace
di evidenziare motivi di profondità che nessun
altro mezzo di riproduzione è capace di fare.
Ai mezzi riproduttivi di una società frutto di
cultura positivistica, Munch contrappone quelli tradizionali
dell’arte che riafferma la propria centralità
che il momento storico tende a negare. Paradossalmente,
sotto l’uso regressivo dell’enfasi espressiva,
cova una grande consapevolezza culturale che porta a
un intreccio con le scienze umane, la psicanalisi e
l’antropologia, culturale, seppure realizzato
spesso per sintonia e istinto verso il teatro: Ibsen
e Strindberg per i quali realizza manifesti per le loro
pieces teatrali.
L’arte diventa la fondazione di un modello liberatorio
che ripara le ferite ed esalta i motivi proliferanti
della profondità della psiche, strutturata sugli
stessi principi organici della natura; nello stesso
tempo ripara anche violenze e soprusi della storia che
ha emarginato culture come quelle primitive, colpevoli
di essere portatrici di differenza. L’etnologia
e l’antropologia si sviluppano infatti anche sotto
l’effetto di questo senso di colpa della cultura
occidentale. L’arte compie un giro a trecentosessanta
gradi su tutta la storia della creatività e accoglie
nel proprio bagaglio il linguaggio animistico dell’arte
primitiva.
“Ai loro tempi i nostri antipodi di ieri, gli
impressionisti, avevano perfettamente ragione di concentrarsi
sui germogli, sul sottobosco delle apparenze quotidiane.
Ma il nostro cuore che batte ci spinge giù, nella
profondità della terra primordiale. Ciò
che poi cresce da questo scavare — lo si chiami
come si vuole, sogno, idea, fantasia — è
da prendere sul serio solo quando viene interamente
dedicato, con i mezzi figurativi appropriati, all’atto
della creazione artistica. Allora quelle curiosità
diventano realtà, realtà dell’arte,
che rendono la vita un po’ più ampia di
quanto normalmente appaia. Poiché esse non solo
riproducono con più o meno temperamento cose
viste, ma rendono visibile ciò che è stato
scoperto in segreto” (Paul Klee).
Munch sta nella coscienza della propria minorità
rispetto alla brutale e banale maggiorità del
mondo visibile, adotta lo stile, come modo di essere,
dell’enfasi capace di auscultare le profondità;
un procedimento di dilatazione psicologica, attraverso
l’adozione di tecniche artigianali che non a caso
possono ricordare il medioevo, per l’identità
religiosa dell’arte e lingue primitive, adatto
a segnalare l’emergenza sentimentale di un soggetto
negato come totalità. Le tecniche artigianali
di riproduzione dell’immagine, come la xilografia,
rifondano l’unità del processo produttivo
messo in crisi dall’avvento della macchina che
tende a parcellizzare il lavoro e a standardizzare il
prodotto. Il recupero dell’arte primitiva permette
di introdurre nel tessuto del linguaggio espressivo
modalità ulteriori capaci di dare energia nuova
a un apparato e a un alfabeto ormai logorato e messo
in crisi dall’avvento delle tecniche di riproduzione
meccanica del segno.
All’artificio di tali tecniche riproduttive l’arte
di Munch risponde con la naturalezza dei procedimenti
artigianali e con la naturalezza di un linguaggio che
asseconda la natura sentimentale del soggetto creativo,
il quale cerca forme espressive non paralizzati ma semmai
flessibili e armoniche con i propri bisogni. All’anemia
di una realtà incolore l’artista risponde
con la rappresentazione di un’altra malattia,
quella dell’esuberanza, attraverso cui compensare
la sproporzione quantitativa che lo sovrasta. La temperatura
incandescente dell’opera gli dimostra come l’arte
è un procedimento che, pur adottando proprie
regole interne e specifici linguaggi, crea dei varchi
nell’opacità del quotidiano e introduce
una diversa visibilità del mondo.
La visione antinaturalistica del mondo è proprio
il sintomo di una mentalità si pone in completa
alternativa, in una contrapposizione radicale ed eclatante.
Uno stato di ipersensibilità arma la mano dell’artista
che si inabissa prima dentro di sé all’interno
delle proprie pulsioni, e poi riemerge nella zona solare
della forma dove tutto diventa rappresentazione e nulla
resta taciuto.
Lo stile dell’enfasi dà continuità
a tale procedimento, dà voce e notizia a ciò
che altrimenti resterebbe interiore e represso, fonda
la possibilità di uno scambio, seppure con toni
alterati, rappresenta una condizione di impossibilità
non soltanto sociale. L’impossibilità riguarda
lo stato dionisiaco, che sfiora per esaltazione anche
lo statuto della morte, adottato dall’artista
che mediante la sensazione forte della creatività
altera il ritmo ripetitivo dell’esistenza standardizzata.
L’arte è l’unica maniera di spingere
la vita verso una condizione di impossibilità,
per smascherarne gli angoli morti e di inerzia.
Il pensiero forte che attraversa l’arte trova
la sua radice nel pensiero filosofico di Nietzsche,
di cui adotta anche la struttura a frammento. Come il
filosofo tedesco procede ad aforismi, così gli
artisti adottano un’idea di spazio scheggiato
ed esploso, sottoposto a molte torsioni e tensioni che
rimandano a uno spazio non tipologico ma psicologico,
che tende a uscire da ogni orbita delimitata dalla cornice.
L’opera diventa una rotta di combattimento e di
contrasti, fuori da ogni speranza di armonia e di quiete.
Munch diventa l’eroe che si autorizza tutto da
solo a usare armi impari, a produrre colate di immagini
che entrano nelle fessure del mondo. L’autorizzazione
ha una sostanza morale e non di puro arbitrio, in quanto
l’artista sa di possedere un deterrente e un deposito
di visioni che egli intende mettere a disposizione del
corpo sociale. Da qui la violenza, non soltanto del
segno, necessaria per spostare l’inerzia del corpo
sociale dal piano orizzontale e statico della convenzione
razionale a quello inclinato e dinamico della visionarietà
e di una visibilità spirituale.
La frammentarietà è il sintomo di una
mentalità che non vuole opporre a un ordine un
altro ordine, che non vuole creare una simmetria tra
la necrofila convenzione sociale e la morte di una nuova
forma seppure artistica. Al contrario, essa è
il segno di un universo linguistico aperto e continuamente
arricchito dalla conflittualità permanente, quella
di una sensibilità neoumanistica che vuole ridare
centralità all’immaginario.
Qui l’immaginario attraversa tutte le culture
e non si arresta davanti alle rimozioni di quella occidentale,
anzi nella coscienza della propria minorità trova
solidarietà in altre culture ritenute minori
o minorizzate dalla superbia logocentrica di quella
europea.
In definitiva la lingua dell’arte è l’unica
in grado di formulare parole visive capaci di attraversare
ogni differenza etnica, sociale e religiosa, in quanto
essa stessa si pone nella condizione di poter totalizzare
dentro di sé ogni possibilità e ogni impossibilità.
I modi sono quelli di un linguaggio che accetta ogni
contaminazione e non crede più ai piani alti
e bassi della cultura, che vuole colmare ogni scissione.
Per farlo Munch adotta lo stile della scissione, la
frantumazione del segno, l’alterazione dell’eleganza
e del garbo, accetta l’accento forte di un’espressione
che vuole farsi sentire in tutte le sue lacerazioni.
Enfatizzare significa compiere una sana operazione
di regressione infantile che consiste nel porre il proprio
io al centro del mondo, in un contesto che ipocritamente
sembra invece celebrare il mito collettivo del noi.
La forza sta nel non aver posto un io monumentale e
monolitico, dunque adulto, ma alterato da tensioni centrifughe
capaci di spostarlo fuori dai luoghi della ragionevolezza
e verso territori abitati dal terrore e dalla nostalgia.
Tale nostalgia, confinante col sospetto di una possibile
interezza, fonda la sostanza morale di Munch, che non
ha mai spinto il suo furore nella direzione del nichilismo,
ma sempre della rifondazione, seppure attuata attraverso
i modelli del linguaggio creativo.
Il delirio è stato quello di tentare una umanizzazione
della società mediante la contrapposizione della
ragionevolezza dell’arte, lo stile dell’enfasi
come essere ed esistere, alla razionalità di
una civiltà indisponibile a sentire altre “ragioni”
e pronta invece a morire sotto i colpi della propria.
Così l’immagine si costruisce a balzi,
fuori dalla retta del progetto e dentro il sentiero
accidentato di numerose riprese stilistiche che privilegiano
la linea curva e continua dell’Art Nouveau e la
spirale simbolista che apre alla Secessione. La ripresa
permette il recupero di inattualità stilistiche
che entrano in collisione con altri stilemi che invece
appartengono alla sensibilità del momento storico
dell’artista.
Munch ha un’idea del tempo circolare, un movimento
di corso e ricorso fuori da ogni prospettiva lineare.
Comprende anche il fattore atmosferico che con i suoi
accidenti modifica le opere da lui stesso lasciate alle
intemperie. In questo senso egli assume l’immagine
come coagulo di molti flussi, come punto di emergenza
di innumerevoli spinte che guidano l’impulso creativo.
L’opera è il frutto di una elaborazione
che ritrova l’etica di un tempo esecutivo artigianale,
specialmente per quanto riguarda l’ornamentazione,
perduto nei procedimenti produttivi della civiltà
tecnologica.
La discontinuità della sensibilità comporta
anche la produzione di una immagine che assume i travestimenti
della figurazione, dell’astrazione, l’opulenza
del colore e la sinuosità del disegno, senza
mai arrivare ad una cifra standardizzata. L’opera
risponde sempre all’esigenza dell’occasione
irripetibile, perché irripetibile è la
relazione mobile dell’artista con i propri strumenti
espressivi. Tale carattere fonda un’ulteriore
inattualità dell’opera che non conosce
uno stile tutto legato al presente dell’artista,
il quale orchestra con grande decoro un linguaggio in
cui, come dice Hermann Broch, si dà a vedere
“il mostro di un’agonia nella quale il tempo
va in rovina”.
L’agonia presuppone una durata più che
una interruzione, una transizione ed una serie di passaggi,
attraverso stati diversi. Ecco che Munch rappresenta
tale transizione mediante l’ancoraggio dell’opera
ad una oscillazione tra due polarità: descrizione
e decorazione sono le cifre che adornano l’opera
portandola fuori dal luogo obbligato di una funzione
a senso unico. La descrizione è il portato di
una tensione che tende a presentarsi nel tono dell’affabulazione,
di una esplicitezza figurativa che vuole catturare l’attenzione
in un punto, in quella che Heidegger chiamerebbe la
località, la concentrazione dell’immagine.
La decorazione è il segno di uno stile .che trova
nell’astrazione e nella ripetizione di motivi
il modo per creare un campo di fascinazione e di indeterminatezza
che non vuole imporre il proprio senso, quello che Heidegger
chiamerebbe contrada.
L’opera di Munch gioca dunque tra località
e contrada, tra concentrazione figurativa e deconcentramento
astratto.
Gombrich stigmatizza l’affermarsi dell’ornamentazione
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento come tentativo di spostare l’attenzione
verso i margini dell’opera. Infatti l’artista
viennese tende a centralizzare ciò che prima
era oggetto di un’attenzione laterale: la decorazione.
Se il mondo non ha più centro, se non esiste
una gerarchia capace di segnare i confini tra centro
e periferia, allora Munch concepisce l’opera come
luogo dell’omologazione tra le due dimensioni.
La figura perde i suoi contorni netti e si apre verso
la periferia fuori dal proprio nucleo, mediante lo sfondamento,
la collocazione della figura in un ambito bidimensionale
in cui primo piano e sfondo giacciono sulla stessa linea.
L’immagine è il prodotto dunque di questa
necessaria indecisione, tra località e contrada,
tra centro e periferia, tra figurazione ed astrazione,
tra descrizione e decorazione: per questo non veicola
un significato forte, ma anche quando è il risultato
di una condensazione simbolica, il portato di un’idea.
Destituita del suo consueto funzionamento, quello di
veicolo di senso, l’opera di Munch acquista l’arbitrio
e la necessità di essere capriccio, descrizione
di stati interni della sensibilità, che non significa
però condizione psicologica. Un distaccato erotismo
che confina con l’estetismo regge la composizione.
Il suo dato esplicito è reso dalla miniaturizzazione
dell’evento ornamentale che avvolge la figura
e la fa dilagare verso i bordi dell’opera, creando
una connessione ed un processo di crescita che agisce
in tutte le direzioni della composizione. Fisso e centrale
resta il volto, disegnato e dipinto in maniera decisa
e precisa, mentre il corpo è attraversato da
una perturbazione stilistica che ne dissolve i contorni
e ne stabilisce l’integrazione con lo sfondo.
Se l’erotismo è proverbialmente espansione
ed integrazione con l’altro, se confina con i
ritmi di sviluppo della natura, quello di Munch si manifesta
come proliferazione stilistica e formale, come movimento
che non ha l’energia storica per attingere alla
profondità, in quanto un esaurimento storico
ha depurato il linguaggio da ogni valenza ideologica
a favore di un uso scorrevole ed intrecciato. Il dato
implicito di tali erotismo ed estetismo è l’impiego
dell’opera come luogo di continui slittamenti
del significato, una catena inarrestabile che segue
il viaggio dell’immagine attraverso peripezie
leggere ed intense dello stile. Scatta allora un’inversione
da una posizione tradizionalmente metaforica ad una
specificamente metonimica, destituita della sua valenza
simbolica.
L’immagine viene impiegata attraverso la neutralizzazione
del suo significato forte, come occasione di una rappresentazione
in cui figurativo ed astratto si pareggiano, in cui
prevale heideggerianamente l’essenza decorativa
e periferica dell’arte, memoria dell’impulso
vitale tramutato in durata stilistica.
In Munch la durata stilistica dell’opera è
direttamente collegata con la sua idea del tempo e della
storia, in cui non esiste svolgimento lineare, semmai
circolare e ripetitivo. Così l’immagine
sconfina nella decorazione e nell’ornamento che,
per definizione, è il prodotto di una ripetizione.
La figura, in prevalenza femminile, parte da un punto
fermo, la testa, e poi subisce una sorta di corruzione
stilistica capace di integrarla con lo spazio circostante.
L’opera si presenta con un risultato volutamente
disomogeneo, aperto al colore ed al segno figurativo
ed astratto. Il principio di piacere man mano sostituisce
il principio di realtà nel farsi dell’opera,
luogo di una rappresentazione opulenta che non gioca
al risparmio ma allo spreco stilistico.
La continuità bidimensionale di stili diversi
produce una catena di immagini operanti sullo spostamento
e sulla progressione, che non è mai progettata
ma fluida e sorgente dall’edonismo della creazione.
In ogni caso l’immagine oscilla sempre tra convenzione
ed invenzione. La convenzione è il momento di
assunzione del linguaggio figurativo, di uno stile di
cui l’artista recupera non il senso ma il segno,
il suo livello di superficie. L’invenzione scatta
attraverso l’accostamento imprevedibile di differenze
stilistiche ed assonanze linguistiche che non suscitano
lacerazione nell’immagine, non determinano campi
di perturbazione visiva ma di integrazione sofferta
con la natura e il mondo. L’arte: forme di dolore
insite nella vita stessa.
L’opera è un microevento che parte sempre
più dall’interno dell’immagine, centro
di irradiazione della sensibilità dello stile
che dipana e coniuga le proprie modificazioni dentro
la cornice articolata dell’imma-gine. Perché
l’opera non è mai un mosaico di forme ma
resta un’immagine, in quanto risultato di una
metamorfosi interna dello stile che considera lo spazio
pittorico come un potenziale luogo di estensione e di
alterazione, che funziona nel senso di una attenuazione
del significato nello sposta–mento della carica
metaforica verso l’inerzia metonimica.
L’opera finalmente perde la sua compostezza tradizionale,
la rigidità di un’arte come unità
ideale garantita dallo stile. L’immagine è
il risultato di una tensione tutta giocata su di una
peripezia di piacere che arriva ad un punto di estenuazione
tale da assottigliare la consistenza figurativa ribaltandola
in una trama astratta. L’uso della metonimia permette
all’immagine di assumere un senso mobile che sorge
progressivamente dall’economia interna del linguaggio,
mediante assonanze visive e pas–saggi di segni
che connotano lo spazio come campo, luogo potenziale
di relazioni mobili.
Il significato viene stordito, attenuato e reso relativo,
attraversato da turbolenze del segno e di un colore
improbabile. Da qui in fondo l’estenuato carattere
dell’opera che non parla più perentoriamente
e non erge le proprie spoglie sulla fissità ideologica
di una visione monolitica, ma si scioglie nella disseminazione
di molte direzioni. Dopo, tutta la Secessione ha posto
il proprio lavoro sotto il segno di una ineluttabile
astrazione, come perdita progressiva del senso, come
assenza di una motivazione centrale della vita. Da qui
il capriccio, l’opulenza, la alterazione di un
linguaggio che mima la gratuità dell’esistenza,
l’improbabilità di ogni progetto.
L’animalità della vita è ormai
un sogno perduto e dunque è possibile viverla
soltanto attraverso le mentite spoglie della forma.
L’opera di Munch è la rappresentazione
di spoglie stilistiche, in cui non esistono passato
e presente ed ogni tempo è pareggiato nella visione
superficialista di un linguaggio raggomitolato e espanso
divenuto esso stesso ombra ed eco di un centro perduto.
Come dice Gianni Carchia, l’opera non ha più
cornice, perché è interamente e solo cornice.
L’immagine ha prodotto uno sfondamento verso la
periferia, una crescita che la porta fuori dalla staticità
del centro e dunque verso l’impossibile architettura
della vita.
Tratto dal catalogo della mostra
"Munch 1863-1944",
dal 10 marzo al 19 giugno 2005.
Complesso del Vittoriano,
via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali), Roma.
La mostra è curata da Øivind Storm Bjercke
e Achille Bonito Oliva.
Orari: lunedì-giovedì, 9:30-19:30, venerdì-sabato,
9:30-23:30, domenica 9:30-20:30.
Ingresso: intero €9 - ridotto €7.
Informazioni: tel. 06-6780664.
Catalogo: Skira.
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