”Non
dipingo quello che vedo, ma quello che visto”.
Edvard Munch
In questa frase, volutamente sgrammaticata (anche nella
lingua originale), più attenta ad evocare uno
sgomento emotivo subcosciente che una riflessione passata
attraverso il filtro (sporco) del cervello, c'è
molta della ragione d'essere di Munch e della sua necessità
di esprimersi come artista, e c'è anche un esempio,
letterario invece che pittorico, della sua capacità
di parlare direttamente alle parti più nascoste
di noi, seguendo solo apparentemente le regole lessicali,
e inventandosi invece un linguaggio la cui potenza innovativa
è dimostrata non tanto dal successo che l'artista
norvegese ebbe in vita, quanto dall'influenza che egli
esercitò sulle generazioni a seguire.
"Dovevo cercare un’espressione per ciò
che agitava il mio spirito”, scrisse Munch, e
ciò che agitava il suo spirito era un'inquietudine
profonda, un'attrazione macabra (ma mai morbosa) verso
la malattia e la morte, e verso la sessualità
come fonte di profondo disagio. Munch voleva - doveva
- rappresentare il dramma dell'esistenza umana (o l'esistenza
umana come dramma), gettando lo sguardo (il suo, e il
nostro) dentro l'orrido che a volte si spalanca nelle
nostre esistenze o anche solo (?) nel nostro animo profondo.
Per questo i suoi dipinti provocano in noi contemporaneamente
attrazione e repulsione, come un brutto incidente dal
quale non riusciamo a staccare lo sguardo, arrivando
a coglierne anche la bellezza, al di là dell'orrore.
La mostra "Munch 1863-1944", al Complesso
del Vittoriano di Roma fino al 19 giugno, attraverso
pitture ad olio, acqueforti, litografie, xilografie
e ritratti fotografici racconta lo sguardo apparentemente
torbido, e invece lucidissimo, dell'artista, la sua
intensità ossessiva, la sua condanna a rappresentare
la vita attraverso il suo contrario. Nel raffigurare
i suoi soggetti nel momento della loro massima vulnerabilità
fisica e psicologica non c'è la tentazione del
sensazionalismo, ma un bisogno, anche quello ossessivo
e ossessionato, di verità - un'ossessione anche
culturale, secondo la tradizione nordica: dopotutto
da lì veniva Severino Kierkegaard - che costringe
l'artista a un estremo rigore, a una rincorsa continua
dell'onesta espressiva. Il che contribuisce a spiegare
perché Munch abbia spesso riprodotto lo stesso
soggetto per approssimazioni successive, e abbia abbandonato
molte sue opere ad uno stadio incompiuto: non, come
avevano insinuato alcuni critici suoi contemporanei,
per una mancanza di coraggio espressivo, ma per un rifiuto
di trasformare l'approssimazione sincera in falsa certezza.
Sarebbe troppo facile raccontare Munch come un artista
interamente spiegabile attraverso la sua colorita biografia.
"Fragile di nervi, alla ricerca del piacere fino
all'estremo, purosangue aristocratico”, come lo
descrisse un altro critico della sua epoca, con malcelata
spocchia, Edvard Munch apparteneva all'alta borghesia
norvegese, e godette di tutti i vantaggi della sua condizione
sociale - in particolare, la possibilità di studiare
arte nelle capitali dell'epoca - finché i suoi
demoni interiori non ebbero la meglio anche sul suo
stile di vita. Notoriamente refrattario ai contatti
sociali, al limite della misoginia, Munch fu vittima
consenziente di innumerevoli e devastanti frequentazioni
femminili e degli eccessi del bere, subì spaventosi
tracolli economici, e dovette confrontarsi ripetutamente
con quella sindrome depressiva della quale era stato
già preda suo padre prima di lui.
Sarebbe facile dunque interpretare la sua opera come
una forma di autobiografismo ossessivo, o addirittura
di narcisismo portato all'eccesso. Eppure anche i suoi
numerosi autoritratti (la collezione di fotografie che
lo raccontano dalla giovinezza alla vecchiaia è
la vera sorpresa della mostra) non si limitano a descrivere
un'individualità ma aspirano all'universale,
alla condivisione di una condizione che, secondo Munch,
è umana, mai solamente personale. Così
nelle bellissime fotografie dell'uomo che da giovane
appare appena sullo fondo, attraverso vetri, cortine,
figure femminili, e poi si offre all'obbiettivo a volto
nudo, senza più nascondere la rabbia e l'impotenza
di fronte alla crudeltà del vivere, non c'è
autocompiacimento ma un disperato invito a riconoscere
i segni visibili di un'inquietudine che fa parte di
ognuno di noi, e nella quale, volenti o nolenti, ci
dobbiamo specchiare.
Tutta l'opera di Munch, come scrive Maria Teresa Benedetti
nel suo saggio "Il colore dell'anima", incluso
nel catalogo di presentazione della mostra al Vittoriano,
narra la "costruzione di un linguaggio, che diventa
sempre più paradigmatico di un sentimento universale...
un linguaggio potente ed autonomo, che diverrà
per l’artista strumento di indagine delle esperienze
psicologiche del profondo". "Munch",
scrive ancora Benedetti, "traccia una sorta di
autobiografia dell’anima per immagini".
Lui stesso del resto spiegava che i suoi quadri raffiguravano
“intenzioni, idee, tentativi, cose non spiegate,
concetti che non hanno ancora preso forma”. E
la forma delle cose, dei paesaggi, delle persone, trasformati
in figure geometriche e linee contorte, parla di disagio,
di tormento, di angoscia esistenziale.
Il soggetto più famoso dell'artista norvegese,
"L'urlo" (la mostra del Vittoriano ne esibisce
una litografia) più efficacemente riassume la
volontà di Munch di restituire intatta a chi
guarda la sensazione di angoscia allo stato puro. Così
l'artista racconta la genesi di quel ritratto emotivo:
“Camminavo lungo la strada in compagnia di due
amici, il sole calava, il cielo divenne improvvisamente
rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai contro un parapetto,
stanco da morire, sulla città e sul fiordo di
un blu scuro c’erano sangue e lingue di fuoco,
i miei amici si allontanavano, io tremavo di angoscia,
e sentii un lungo urlo infinito attraversare la natura.”
"Munch cercò di dare forma al mondo invisibile
della psiche, ma senza cercare l'unità tra forma
e significato", scrive Øivind Storm Bjerke
nel saggio "Il maestro del 'non finito'",
anch'esso incluso nel catalogo della mostra. Se c'è
un linguaggio iconografico al quale l'artista norvegese
attinge, è quello dell'incubo, paradossalmente
riconoscibile da tutti, anche se ognuno di noi lo ricorda
come un'esperienza privata, chiusa dentro un universo
involontario dentro il quale ci sentiamo completamente
soli.
Certamente Munch non fu un caso isolato, fu figlio
del suo tempo, dei fermenti ideologici, filosofici,
espressivi che lo precedettero, e che lo avrebbero accompagnato
e seguito. La mostra al Vittoriano racconta efficacemente
anche il percorso dell'artista attraverso il suo tempo,
attraverso influenze e tentazioni, sperimentando sempre,
non solo a livello tecnico - nel campo della grafica,
del disegno, della pittura, della fotografia, della
scrittura - ma anche a livello narrativo. " Nella
storia dell'evoluzione dell'arte europea", scrive
Storm Bjerke, "Munch non è un innovatore
ma un eclettico che sperimentava codici già collaudati,
dando loro nuove valenze".
"Munch compie i primi passi del suo percorso artistico
nel ristretto ambiente culturale di Christiania (che
nel 1925 diventerà Oslo), per poi procedere attraverso
le esperienze dell’avanguardia francese, da cui
trarrà quegli stimoli che faranno di lui un precursore,
diventando così, a sua volta, una fonte di ispirazione",
racconta Storm Bjerke. Fondamentale la parentesi Impressionista,
ben documentata dall'esibizione romana, e la scoperta
di Van Gogh, dalle cui linee contorte e scalpellate
("Notte stellata" è del 1889, "Campo
di grano con corvi" del 1890) derivano direttamente
le curve concentriche e le linee ossessivamente parallele
de "L'urlo" (1895). Importanti anche i soggiorni
berlinesi di Munch, non solo per lui, ma anche per i
suoi sucessori. Come scrive Benedetti, l'artista "trasmetterà
la gestualità, il fermento della materia, lo
spazio incombente delle sue opere a larga parte della
pittura della seconda metà del secolo, dall’Informale,
all’Espressionismo astratto, alla Transavanguardia.
"Munch 1863-1944",
dal 10 marzo al 19 giugno 2005.
Complesso del Vittoriano,
via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali), Roma.
La mostra è curata da Øivind Storm Bjercke
e Achille Bonito Oliva.
Orari: lunedì-giovedì, 9:30-19:30, venerdì-sabato,
9:30-23:30, domenica 9:30-20:30.
Ingresso: intero €9 - ridotto €7.
Informazioni: tel. 06-6780664.
Catalogo: Skira.
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