Di quale
democrazia parliamo quando parliamo di democrazia? Cosa
vuol dire, ad esempio, che a pochi giorni dalle elezioni
in Irak, Zarqawi, leader di Al Qaeda, ha dichiarato
“guerra alla democrazia”, opponendosi a
coloro che tentano di esportarla proprio attraverso
la guerra? O ancora, come si chiede l’artista
Thomas Hirschhorn (Bern, 1957), quale futuro per la
democrazia in un paese come la Svizzera, che sembra
non conoscere conflitti? Per indagare più a fondo
quanto “la democrazia generi la propria vulnerabilità”,
Hirschhorn ha allestito una mostra al Centro culturale
svizzero di Parigi. Investendo per due mesi tutto lo
spazio disponibile ad eccezione del soffitto e riempiendolo
di materiale eterogeneo, ha finito per trasformarlo
in una sorta di squot.
Sui pannelli colorati che fanno da mura scorrevano
colte citazioni di teoria politica, slogan da graffiti
metropolitani, collages di ritagli di giornale. L’arredo
era completamente rivestito con lo scotch marrone da
imballaggio, trasformando l’ambiente in una sorta
di baraccone tirato su con materiali di scarto. Per
far passare un messaggio è del resto sufficiente
un cartone e un pennarello. Lo scopo era chiaramente
quello di allargare – o di far esplodere –
la funzione del centro espositivo; per questo stridevano
ancor più i blasoni dei cantoni svizzeri che
scandiscono il percorso, appesi ai muri come insegne
secernenti bianchi ectoplasmi.
In realtà ci siamo trovati all’interno
di una fucina, di un laboratorio politico – disordinato,
polivalente e antigerarchico – che traeva linfa
vitale dal coinvolgimento del pubblico, per cui erano
predisposte diverse attività quotidiane, proprie
più ad un forum pubblico che ad una manifestazione:
la stampa di un quotidiano redatto dall’artista
nei locali della mostra, distribuito gratuitamente all’ingresso,
che moltiplicava ulteriormente il montaggio di informazioni;
il ciclo di conferenze del giovane filosofo berlinese
Marcus Steinweg il quale, compreso a fondo quanto l’agire
politico investa nel più intimo la costituzione
del soggetto, si serve di un approccio multidisciplinare
e bulimico à la Slavoj Zizek. E ancora,
uno spazio per i dibattiti e la lettura, grazie ad una
biblioteca di filosofia politica poco attenta alle ripartizioni
accademiche; senza dimenticare infine la rappresentazione
teatrale ispirata al Guglielmo Tell di Schiller,
con la scena madre in cui un attore vomita in un’urna
elettorale e mima di orinare su una gigantografia del
consigliere federale della destra popolare Christoph
Blocher, eletto da poco più di un anno.
Prevedibile la polemica, la cui eco ha valicato i confini
nazionali, con la fondazione “Pro Helvetia”
– principale finanziatrice dell’evento costato
120.000 euro nonostante i materiali impiegati –
che rischia di perdere il sussidio finanziario elargito
dal ricco stato elvetico. Se aggiungiamo lo sdegno del
mondo intellettuale e l’assenza di rappresentanti
dello stato svizzero al vernissage, lo scandalo è
completo – e la pubblicità assicurata.
Dal suo canto, Hirschhorn ha avuto buon gioco a dichiarare,
dal palco di un’istituzione pubblica che rappresenta
la Svizzera in un paese della Comunità europea,
che per motivi politici non esporrà mai più
nel suo Paese natale, così come già fa
in Austria sulla scia dell’artista Robert Fleck.
Hirschhorn considera l’arte come movimento di
resistenza che, lontano da ogni geometria politica,
domanda l’impossibile e in cui, possiamo aggiungere,
l’attacco e la riflessione si danno insieme. Per
questo è inutile rimproverargli – come
pur ha fatto un giornale come L’Humanité
– di aver mal digerito alcuni testi canonici della
filosofia politica, perché l’importante
non è articolare un discorso teorico quanto saper
usare questi testi, metterli in circolazione, lasciare
che si contaminino. Per questo l’ipertrofica discarica
di Hirschhorn - artista-chiffonier - fatta
di ‘taglia e incolla’, somiglia alla deleuziana
“macchina da guerra”, ovvero a “un
certo modo di occupare, di riempire lo spazio-tempo,
o di inventare nuovi spazi-tempo”, come fanno
tanto i movimenti rivoluzionari quanto le pratiche artistiche.
Anziché cavalcare le polemiche più o
meno pretestuose (potremmo ad esempio rimproverare,
particolare sfuggito ai più, la presenza della
“Fondazione Nestlé per l’arte”
tra i finanziatori della mostra) ci sembra così
più importante ritenere la strategia di Hirschhorn,
dove ciò che conta in un gesto artistico non
è affatto la qualità contenuta quanto
le energie che lo attraversano e che si propagano. Schierarsi
contro il proprio Paese esponendo in una galleria privata
non è la stessa cosa che farlo in uno spazio
che di quel Paese è una vetrina. Cosa comporta
l’esposizione in uno spazio pubblico? In altre
parole, il cuore del problema, come ha ricordato giustamente
Nathalie Heinrich, è la politica culturale delle
istituzioni statali, come lo stanziamento di fondi pubblici
o la sovvenzione di spazi consacrati a manifestazioni
artistiche.
A tale proposito Heinrich parla di un “paradosso
permissivo” per cui è l’istituzione
stessa a finanziare – e dunque a incoraggiare
– un’attività rivolta contro se stessa.
Come se lo spazio pubblico fosse infettato da un virus
auto-immunitario. Ci troviamo insomma davanti all’ennesima
torsione dello stato avanzato del capitalismo, in cui
la trasgressione è incitata allo stesso tempo
che riassorbita e dunque neutralizzata. E’ nella
messa a nudo di questo dispositivo che risiede il carattere
più eversivo della mostra di Hirschhorn. Una
pratica artistica che invero attraversa tutto il Novecento
- dalle Avanguardie in poi - segnato dalla graduale
presa di coscienza della stretta morsa di questa logica
e dall’approntamento di pratiche che riescano
a sottrarvisi.
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