“Se
la comunanza linguistica è virtualmente un fatto
impossibile, in special modo dopo l’allargamento
dell’Unione Europea, esiste allora qualcos’altro,
un ideale europeo oppure un’idea europea?”,
si chiede il finnico Jörn Donner. Donner è
uno dei ventisei scrittori salito sul “TransEuropaExpress”,
un treno tutto letterario che dal 23 al 26 febbraio
scorso ha toccato i lidi della nuova Europa: quella
dei venticinque di fatto, e dell’aspirante Turchia.
Sotto la metafora del treno si cela una manifestazione
inaugurata nelle sale dei Musei Capitolini e svoltasi
tra l’Accademia d’Ungheria, il Goethe Institut
e la Casa delle Letterature di Roma. Il viaggio del
TransEuropaExpress si è dipanato lungo meridiani
che hanno condotto veloci dalla Spagna di Rosa Montero
alla Cipro di Panos Ioannides, dall’Irlanda di
Colm Toíbín all’Estonia di Emil
Tode, la Lettonia di Ma¯ra Za¯li¯te e
la Lituania di Tomas Venclova. Passando per la Polonia
di Stefan Chwin, la Slovacchia di Ivan S¹trpka, l’Ungheria
di Gábor Görgey e l’Italia di Dacia
Maraini. Ripartendo poi dalla Gran Bretagna di Jonathan
Coe e dall’Olanda di Kader Abdolah, con stazioni
di arrivo il Portogallo di Lídia Jorge e la Turchia
di Emine Sevgi O½zdamar.
Fatta l’Europa, bisogna fare gli Europei: ma
quale soluzione per la giovine Europa? Se “Essere
Europei è un referendum quotidiano”, dice
lo sloveno Ales¹ Debeljak, e se “In questo continente
“sempre più integrato” gli Stati
nazionali continuano a crescere, mentre si rivendicano
i caratteri originali delle culture e delle storie che
hanno segnato le grandi e piccole nazioni europee”
(Lucio Caracciolo, su la Repubblica, del 19
febbraio). Questi caratteri originali possono rappresentare
delle minacce, ma c’è tuttavia “uno
Spirito comune errante per i Paesi dell’Unione”,
alla cui ambiziosa Recherche è stato
chiamato il conclave dei ventisei scrittori. E stavolta
i Graal e i Corani, i regimi economici e i simboli politici,
gli universalismi e gli illuminismi, i protocolli ambientali
e gli strawberry fields beatlesiani hanno fatto
da sub stratum, cedendo il posto a un ensemble di lingue
e di letterature. Che si sono incontrate per discutere
di colei che da sempre va a braccetto con lo Spirito,
ovvero l’identità.
Ci sono tanti modi d’intendere l’identità
e di ragionarvi su, hanno messo in evidenza Lidia Ravera,
Elisabetta Rasy, Christian Raimo, Nadia Fusini, Mario
Fortunato e Maria Ida Gaeta, avvicendandosi nella direzione
dell’orchestra del TransEuropaExpress. Quello
dell’Ottocento era disciplinare e disciplinato,
dice la Rasy, e implicava l’assenza di differenze
fra sé e se stessi; nel Novecento invece l’identità
viene concepita in maniera differente, si prende coscienza
che siamo stranieri persino a noi stessi, e che anche
l’io (singolo, non solo l’Io-Stato) è
una sinuosa costruzione, che sceglie un’identità,
infine. Ma mai perfettamente ivi identificandosi in
pieno. Così anche gli Stati passano a un’identità
sorgente da tante differenze, di scuola pessoiana, insomma.
Questo emerge chiaramente dagli scritti inediti dei
ventisei per il TransEuropaExpress, che raccontano da
una parte, come le migrazioni e gl’influssi culturali
abbiano fatto traballare il senso di nazionalità
e sulla coscienza storica delle loro popolazioni. Ma
dall’altra parte il Paese che ne deriva è
multilinguistico e multiculturale, quindi l’arricchimento
è notevole, sostengono coralmente. In questo
quadro rimane lecito lo scetticismo di un’identità
comune, espresso in sessione inaugurale dall’irlandese
Toíbín con il suo “bisogna prima
vedere chi siamo come individui e dove andiamo”.
Altrettanto lecito pensare all’identità
dell’arcipelago Europa in termini di polemos,
se come dice anche Massimo Cacciari “la forma
della ‘identità’ europea è
agonica nella sua essenza” (la Repubblica,
8 luglio 2004). Il filosofo veneziano evidenzia anche,
concordemente con Jacques Le Goff, come l’identità
sia un processo: il mosaico da vetrata liberty tratteggiato
dai ventisei, va, dunque, continuamente ritoccato. In
questo modo l’identità contrastava, beneficiando
di tutti i Ground Zero europei di cui hanno narrato
in particolare l’austriaco Schindel e lo slovacco
S¹trpka, potrebbe allora divenire positiva, come avalla
la lussemburghese Goedert. O, ancora meglio: un’identità
a cerchi concentrici. Intorno a una e più letterature
che fanno da sponda. Deae ex machina.
“Dai trovatori della Provenza medievale agli
scrittori dissidenti dietro la cortina di ferro la letteratura
ha espresso la sensibilità personale, la vita
individuale della coscienza e la resistenza ai modi
di vivere e di pensare imposti e tirannici”, scrive
il danese Grøndahl. E non solo: “come a
teatro, la lettura obbliga a porre lo sguardo sugli
altri”, e “anche se non sarà mai
un sostituto della vita, aiuterà i lettori a
dare un senso al mondo in cui vivono”, dice la
Goedert. Di difficoltà, è innegabile,
ancora ce ne sono: l’Europa è rimasta una
sorta di Torre di Babele, ove tuttora esistono un gran
numero di piccole isole linguistiche, che costituiscono
delle barriere, o comunque delle sfide. Anche perchè
il mercato delle traduzioni è spesso deficitario
(in molti Paesi le traduzioni degli scrittori stranieri
oscillano tra il due e il sei per cento dei libri pubblicati),
denunciano Coe e la Maraini. La soluzione non risiede
però nella ricerca di una koiné, dice
ancora la Goedert, perché ogni lingua possiede
quell’alchimia di tradizione (gli Sloveni, ad
esempio, hanno mantenuto la lingua con la quale, in
origine, parlavano ai cavalli) e melodia che la rende
unica. La soluzione è una questione di prospettive
capaci di coniugare tutte le facce del multiculturalismo,
e si annida nelle strade d’Europa impregnate della
presenza dell’artista letterato. Da Beckett a
Proust, a Kafka e Musil.
Quell’Europa che viene percepita in maniera così
simile da chi sta ai suoi confini e da chi ne è
fuori: dalle parole della spagnola Montero e dell’iraniano
Abdolah (che vive ora in Olanda) emerge l’idea
di un’Europa quale area ed oasi libera, democratica,
garantista dei diritti, giusta, e dunque quale obiettivo
desiderabilissimo. “Le persone di cultura islamica
hanno sempre pensato all’Europa come un gioiello”,
scrive Abdolah (giungendo infine a formulare l’ipotesi
di un cammello a Roma), e la Montero la dipinge come
una sorta di California di eco steinbeckiana.
E se la soluzione per la tanto dibattuta questione
dell’identità venisse proprio dagli ultimi
a farne parte, i Paesi dell’Est? Il belga Toussaint
suggerisce di prendere ulteriormente le distanze, addirittura
con una “deviazione in Asia”: passare per
la Cina per leggere meglio il greco, così da
raggiungere “l’indispensabile distacco per
re-interrogare una realtà diventata troppo familiare”.
Sembra avere ragione Jeremy Rifkin quando afferma “Il
Sogno europeo, insomma, è il tentativo di creare
una nuova storia” (in Il sogno europeo,
Arnoldo Mondadori, 2004). Con lo scarto tra il pensiero
europeo (“ragionevole”, alla Cartesio) e
quello cinese tracceremo poi le linee di un nuovo canone
europeo, continua Toussaint. Un canone il cui baricentro
sta, paradossalmente, fuori dall’area
dalla Zona Europa, quindi?
“Lo dirò in modo esplicito: la vera Europa
per me è l’Europa che esita. E che, malgrado
le esitazioni, riesce ad agire con efficacia”,
tra la difficoltà delle decisioni, una consapevolezza
a volte “disarmante”, certi dubbi pieni
di scrupoli, ma sempre forte di un’autoironia
critica, scrive il polacco Chwin. L’ungherese
Görgey racconta dell’usanza dei Greci di
lasciare, accanto alle statue degli dei, un piedistallo
vuoto. In attesa del “dio sconosciuto”.
Si apre, così, quello “spazio morale che
alcuni chiamano semplicemente lo spazio della coscienza
europea. E proprio in ciò io identifico il vero
spirito europeo”, dice ancora Chwin, partendo
da una poesia del poeta polacco Herbert in cui dice
“Nike è bellissima nel momento / in cui
esita”.
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