Audrey Tautou
è l'attrice più pagata di Francia, e l'attrice
francese più richiesta del cinema internazionale:
lo dicono i giornali europei, e lo dice anche qualche
dato concreto, ad esempio gli eccezionali risultati
di box office dei due film che ha girato per la regia
del connazionale Jean-Paul Jeunet: Il favoloso mondo
di Amèlie, che l'ha lanciata nel firmamento
delle star, e Una lunga domenica di passioni,
appena uscito in Italia, che in Francia è stato
visto da milioni di spettatori, e che ha ricevuto 12
candidature ai Cèsar, due agli Oscar e una ai
Golden Globe.
Con quel suo aspetto a metà fra l'ingenuo e
il malinconico, la piccolissima Audrey, chiamata così
dalla madre in omaggio alla Hepburn, sembra una bambina,
anche se ha 26 anni e una carriera già ben nutrita
alle spalle, dall'esordio in Sciampiste &
Co. di Tonie Marshall, che le è valso il
César (l'Oscar francese) come migliore attrice
emergente, al successo nei panni di Amèlie, da
L'appartamento spagnolo di Cédric Klapisch
a M'ama non m'ama di Laetitia Colombani. E all'estero
Audrey Tautou ha cominciato a farsi strada non solo
come icona del nuovo cinema francese ma anche come attrice
versatile e ricca di potenzialità.
"Veramente ho girato solo due film per registi
non francesi", precisa subito la Tautou, che è
timida e modesta come Amèlie. "Il primo
è stato Piccoli affari sporchi di Stephen
Frears, il secondo Tu mi ami dell'israeliano
trapiantato negli Stati Uniti Amos Kollek. Mi sembra
poco per definirmi un'attrice internazionale, anche
perché come minimo dovrei saper parlare bene
l'inglese, cosa che invece mi riesce ancora molto difficile".
Quel che Audrey non dice è che è appena
stata scritturata da Ron Howard per apparire accanto
a Tom Hanks nell'adattamento cinematografico del bestseller
di Dan Brown Il Codice da Vinci, dove vestirà
i panni della poliziotta Sophie Neveu. Pare che abbia
battutto in volata, sulla forza della sua interpretazione
in Una lunga domenica di passioni, colleghe
illustri già molto conosciute all'estero come
Juliette Binoche e Sophie Marceau.
"Lavorare al di fuori del mio Paese mi piace,
trovo sempre un'accoglienza calorosa, anche perché
la gente si aspetta, incontrando me, di conoscere la
tenera Amélie", dice Audrey. "In effetti
non sono molto diversa da lei, anche se, come lei, sono
pronta a puntare i piedi se cercano di farmi fare qualcosa
che non sento". Come ad esempio tradire la propria
identità nazionale? "Diciamo che all'estero,
specialmente nei paesi anglosassoni, si aspettano che
io aderisca allo stereotipo femminile francese, che
si può riassumere più o meno così:
molto charmant e sensuale, un po' svampita e possibilmente
di facili costumi. Allora mi arrabbio, perché
mi piace interpretare personaggi forti e determinati,
che vanno contro il mio aspetto fragile".
Quali sono le differenze fra lavorare in un film francese
e uno internazionale? "Il catering!! Sui set francesi
si mangia molto meglio" ride l'attrice. Poi torna
seria: "In realtà direi che inglesi e americani
sono più organizzati ma anche un po' più
rigidi. Le mie esperienze in Francia però sono
particolari: sia Il favoloso mondo di Amèlie
che Una lunga domenica di passioni avevano
un budget degno delle major hollywoodiane: il secondo,
infatti, è stato coprodotto dalla Warner Brothers.
Quindi non ho vissuto quel minimalismo 'europeo' che
caratterizza molti film francesi, e che costringe a
scelte creative improntate al risparmio."
"Anche per quanto riguarda la sensibilità
artistica, non vedo grande differenza fra uno Stephen
Frears e un Jean-Pierre Jeunot: certo, creano mondi
differenti, ma sono entrambi molto attenti ai dettagli
e alla costruzione meticolosa di storie stratificate
in cui ogni personaggio ha importanza e caratteristiche
proprie."
Crede che il prodotto cinema debba beneficiare della
cosiddetta "eccezione culturale", come la
chiamano in Francia? "In Francia il cinema gode
di un occhio di riguardo, questo è vero: non
viene trattato alla stregua di un detersivo. Ma registi
come Jeunet hanno dimostrato che si può fare
cultura in modo molto personale senza per questo diventare
autoreferenziali e snobbare il grande pubblico, a favore
di una ristretta èlite di intellettuali".
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