274 - 26.03.05


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Amèlie nel mondo

Audrey Tautou con Paola Casella



Audrey Tautou è l'attrice più pagata di Francia, e l'attrice francese più richiesta del cinema internazionale: lo dicono i giornali europei, e lo dice anche qualche dato concreto, ad esempio gli eccezionali risultati di box office dei due film che ha girato per la regia del connazionale Jean-Paul Jeunet: Il favoloso mondo di Amèlie, che l'ha lanciata nel firmamento delle star, e Una lunga domenica di passioni, appena uscito in Italia, che in Francia è stato visto da milioni di spettatori, e che ha ricevuto 12 candidature ai Cèsar, due agli Oscar e una ai Golden Globe.

Con quel suo aspetto a metà fra l'ingenuo e il malinconico, la piccolissima Audrey, chiamata così dalla madre in omaggio alla Hepburn, sembra una bambina, anche se ha 26 anni e una carriera già ben nutrita alle spalle, dall'esordio in Sciampiste & Co. di Tonie Marshall, che le è valso il César (l'Oscar francese) come migliore attrice emergente, al successo nei panni di Amèlie, da L'appartamento spagnolo di Cédric Klapisch a M'ama non m'ama di Laetitia Colombani. E all'estero Audrey Tautou ha cominciato a farsi strada non solo come icona del nuovo cinema francese ma anche come attrice versatile e ricca di potenzialità.

"Veramente ho girato solo due film per registi non francesi", precisa subito la Tautou, che è timida e modesta come Amèlie. "Il primo è stato Piccoli affari sporchi di Stephen Frears, il secondo Tu mi ami dell'israeliano trapiantato negli Stati Uniti Amos Kollek. Mi sembra poco per definirmi un'attrice internazionale, anche perché come minimo dovrei saper parlare bene l'inglese, cosa che invece mi riesce ancora molto difficile".

Quel che Audrey non dice è che è appena stata scritturata da Ron Howard per apparire accanto a Tom Hanks nell'adattamento cinematografico del bestseller di Dan Brown Il Codice da Vinci, dove vestirà i panni della poliziotta Sophie Neveu. Pare che abbia battutto in volata, sulla forza della sua interpretazione in Una lunga domenica di passioni, colleghe illustri già molto conosciute all'estero come Juliette Binoche e Sophie Marceau.

"Lavorare al di fuori del mio Paese mi piace, trovo sempre un'accoglienza calorosa, anche perché la gente si aspetta, incontrando me, di conoscere la tenera Amélie", dice Audrey. "In effetti non sono molto diversa da lei, anche se, come lei, sono pronta a puntare i piedi se cercano di farmi fare qualcosa che non sento". Come ad esempio tradire la propria identità nazionale? "Diciamo che all'estero, specialmente nei paesi anglosassoni, si aspettano che io aderisca allo stereotipo femminile francese, che si può riassumere più o meno così: molto charmant e sensuale, un po' svampita e possibilmente di facili costumi. Allora mi arrabbio, perché mi piace interpretare personaggi forti e determinati, che vanno contro il mio aspetto fragile".

Quali sono le differenze fra lavorare in un film francese e uno internazionale? "Il catering!! Sui set francesi si mangia molto meglio" ride l'attrice. Poi torna seria: "In realtà direi che inglesi e americani sono più organizzati ma anche un po' più rigidi. Le mie esperienze in Francia però sono particolari: sia Il favoloso mondo di Amèlie che Una lunga domenica di passioni avevano un budget degno delle major hollywoodiane: il secondo, infatti, è stato coprodotto dalla Warner Brothers. Quindi non ho vissuto quel minimalismo 'europeo' che caratterizza molti film francesi, e che costringe a scelte creative improntate al risparmio."

"Anche per quanto riguarda la sensibilità artistica, non vedo grande differenza fra uno Stephen Frears e un Jean-Pierre Jeunot: certo, creano mondi differenti, ma sono entrambi molto attenti ai dettagli e alla costruzione meticolosa di storie stratificate in cui ogni personaggio ha importanza e caratteristiche proprie."

Crede che il prodotto cinema debba beneficiare della cosiddetta "eccezione culturale", come la chiamano in Francia? "In Francia il cinema gode di un occhio di riguardo, questo è vero: non viene trattato alla stregua di un detersivo. Ma registi come Jeunet hanno dimostrato che si può fare cultura in modo molto personale senza per questo diventare autoreferenziali e snobbare il grande pubblico, a favore di una ristretta èlite di intellettuali".

 

 

 

 

 

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