E’
un universo in equilibrio quello di Mario Giacomelli,
in bilico tra realtà e astrazione. Un’astrazione
reale, appunto. Nella sua opera, nell’evoluzione
della sua opera, il referente esterno non si annulla
mai nell’assoluto di una forma interiore. La realtà
è ancora lì, si vede, si tocca. E si vede
e si tocca grazie proprio all’intervento del soggetto
che ne mette in risalto, con la sua sovradeterminazione
formale, un aspetto particolare, una sua idea; un’idea
che è l’incontro stesso dell’oggetto
e il soggetto in un quid terzo che si materializza
nella foto.
Qui caso e controllo, propri del mezzo, permettono
di cristallizzare il flusso di luce e di ombre in un
equilibrio che ha del miracoloso: dentro e fuori il
tempo, fisico e metafisico, idea e cosa. La terra e
la carne si incontrano in una sofferenza che è
propria dell’una e dell’altra. Nelle rughe
di questa e di quella si coglie il dolore fatale di
una necessità universale meccanica e indifferente,
ma anche, allo stesso tempo, un senso di profonda compassione
e umanità. (“Le rughe della terra come
le rughe della pelle mi insegnano delle cose che non
sapevo”).
I bianchi e neri del fotografo marchigiano, a cinque
anni dalla sua scomparsa, sono in mostra alla Biblioteca
nazionale di Francia che ha voluto rendere omaggio a
Giacomelli con un’esposizione dal titolo di Métamorphoses
(Metamorfosi), antologica di 165 scatti, a Parigi fino
al 30 aprile, che ben mette in risalto l’omogeneità
e la continuità di una ricerca durata cinquant’anni.
Un’esperienza artistica peculiare, un percorso
singolare, quello del maestro di Senigallia, di un isolato
che si è sempre considerato un dilettante, un
“fotografo della domenica”. Dal suo paese
e dalle sue terre si è sempre mosso poco e lì,
per tutta la vita, ha cercato e trovato l’ispirazione
per il suo mestiere appartato rispetto al milieu
fotografico italiano. Un modo di vivere il proprio lavoro
che ricorda l’esperienza di un altro grande marchigiano,
Giacomo Leopardi, la sensibilità del quale risuona
nella fotografia di Giacomelli non solo indirettamente.
Intere serie di scatti, presenti anche qui a Parigi,
sono infatti ispirate dalle poesie del recanatese. Come
L’infinito. O come A Silvia,
il senso della quale è stato reso con rappresentazioni
di finestre senza infissi o murate, crepate o sformate,
che nell’icasticità dell’esposizione
e dell’inquadratura fanno percepire la presenza
di un’assenza, della morte. “Sonavan le
quiete/ stanze, e le vie dintorno,/ al tuo perpetuo
canto”, scriveva Leopardi. “Sonavan”,
appunto, come la vita passata e le antiche speranze
risuonan nella parola poetica e nel segno fotografico
dei due marchigiani.
Nella serie Presa di coscienza sulla natura
(1954-2000), fotografie che solo per approssimazione
estrema potremmo chiamare “paesaggi”, c’è
un’immagine in particolare che spiega bene la
vicinanza dei due, tematicamente e filosoficamente.
Una luna bassa che, sospesa tra cielo e terra, rischiara
le colline arate marchigiane. “Dolce e chiara
è la notte e senza vento, / e queta sopra i tetti
e in mezzo agli orti / posa la luna, e di lontan rivela
/ serena ogni montagna”. Chiarità e serenità,
rese da Leopardi con una sintassi piana e un ritmo lento,
diventano in Giacomelli una composizione di estremo
rigore formale, con una fissità senza tempo che
inquieta e con una luce “teatrale” che muta
la Natura in un palcoscenico vuoto e indifferente alle
“umane cose”.
Non solo Leopardi però. Sono molti i poeti che
Giacomelli ha amato e con i quali ha virtualmente lavorato.
Serie di foto sono costruite intorno a Eugenio Montale
(Felicità raggiunta, si cammina, 1986-1988),
a Mario Luzi (La notte lava la mente, 1994-1995),
all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master
(Caroline Branson, 1971-1973), a Emily Dickinson (Io
sono nessuno, 1992-1994), a Sergio Corazzini (Bando,
1997-1999), fino a Jorge Luis Borges (La mia vita
intera, 2000).
I curatori dell’esposizione hanno presentato
parte di questi lavori, insieme a quelli più
celebri come Scanno (1957-1959), Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi (1954-1983), Paesaggi
(1954-2000), Presa di coscienza della natura
(1954-2000), Lourdes (1957), Io non ho mani che mi accarezzino
il volto o I pretini (1962-1963), tutte serie
sulle quali Giacomelli ha lavorato tutta la vita, su
cui è continuamente tornato per strutturare le
foto in narrazioni. “Per me non è importante
la foto singola - scriveva lo stesso autore - ma la
serie, il racconto”.
In tutti gli scatti, come dicevamo, la realtà
viene trasformata in forma astratta, anche se mai completamente.
Anche nei primi lavori, quando il riferimento al dato
reale è più evidente, come nel caso dei
contadini de La buona terra (1964-1966), o
nei paesani di Scanno, l’immagine di Giacomelli
non è mai realistica, ma del reale è semmai
la metamorfosi, come recita giustamente il titolo della
mostra. Un reale che si metamorfosa in un’idea
soggettiva. Un’idea soggettiva che si metamorfosa
in un reale.
“Io voglio entrare nelle cose. Credo all’astrazione
nella misura in cui mi permette di avvicinarmi un po’
più al reale”. Infatti quello del marchigiano
non sarà mai un formalismo freddo. Dalla realtà
si parte e, dopo la mediazione dell’idea e della
composizione formale, a quella si torna con una partecipazione
umana che emerge soprattutto nella seria di Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi, scatti presi
in un ospizio, ritratti di corpi sofferenti da cui emergono
occhi di sbigottita meraviglia. “Più che
quello che avevo davanti volevo rendere quello che avevo
dentro di me”. Questi corpi segnati dal tempo
vengono ripresi in inquadrature che ricordano Mantegna
e con un’intensità materiale e carnale
che ricorda i lavori di Burri.
Con il procedere della ricerca il processo di astrazione
diviene sempre più estremo e la composizione
prende un posto sempre maggiore. La foto diventa un
campo su cui si organizzano tracce e spazi, che continuano,
tuttavia, a mantenere una loro riconoscibilità
materiale, tra informe che diventa forma – come
Nella sezione dell’albero (1999) da cui
emergono profili umani – e la forma diventa informe.
“Quello che non si comprende è che non
sono io che faccio le immagini, sono le immagini che
mi scelgono”.
La mostra di Parigi dà spazio anche al Giacomelli
più incline alla leggerezza e all’assurdo.
Lo si vede nella famosa serie de I pretini che giocano
spensierati, con una leggerezza accentuata dalla mancanza
di sfondo e dal parere i loro giochi sospesi in aria.
Lo si vede, il gusto dell’assurdo, nelle ultime
serie, I miei aiutanti di lavoro nel 2000 e I miei
compagni di poesia nel 2000, in cui il maestro
marchigiano mette in scena animali di pezza, manichini
e trivialità varie. Un teatro dell’immaginario
che ben corona l’universo coerente e riconoscibile
di un artista che dalla “periferia”, la
campagna marchigiana, ha saputo dare alla fotografia
una dignità artistica nuova.
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