Maia
Borelli, Nicola Savarese
Te@tri nella rete
Carocci editore, 2004
pp. 312, euro 20.00
Il teatro, nella sua più essenziale definizione,
è un’arte immediata (ovvero senza filtri
tra attore che si esibisce e spettatore che guarda)
ed esclusiva (ovvero tradizionalmente destinata a un
pubblico limitato). È fatta di persone in carne
e ossa, di scambio emozionale, di qui e ora. Com’è
possibile, allora, che oggi sembri cedere anch’essa
alle lusinghe delle tecnologie globali del computer
e di Internet, aprendosi all’ibridazione con i
nuovi media, accogliendo avatar virtuali e modalità
di rappresentazione in pixel? Eppure il fatto che questo
insolito incontro sia in corso e stia dando i suoi pur
originali e discontinui frutti non può essere
messo in discussione.
Te@tri nella rete, di Nicola Savarese e Maia
Borelli, è una ricerca sulle esperienze di cyberteatro
in atto nonché un tentativo di rispondere ai
molti interrogativi che circondano il curioso rapporto
tra palcoscenico e desktop. Il teatro, spiegano gli
autori, versa in uno stato di profonda crisi: non attira
più come una volta, i buoni attori sono diventati
più unici che rari, così come i buoni
spettatori, sparsi tra i più che si siedono in
platea solo per vedere dal vivo i divi della televisione
e del cinema o le loro più modeste imitazioni.
Per eludere tale momento di empasse “alcuni teatranti
realizzano spettacoli sempre più mediatici, simili
ai concerti rock, con grandi amplificazioni, radiomicrofoni
ed effetti speciali d’ogni genere. Altri, interessati
alle sfide e ai ‘prodigi della tecnica’,
usano direttamente le più avanzate e costose
tecnologie ed entrano in Internet: mettendo così
in crisi l’idea di ‘media’, oltre
che quella di teatro, veleggiano verso i lidi della
fusion”.
Del resto, “i teatri e le macchine” costituiscono
un tema antico della storia delle arti della rappresentazione,
una sorta di filo rosso che l’attraversa tutta,
dall’antico stratagemma del deus ex machina alle
tecnoarti dello spettacolo esplose tra Ottocento e Novecento
grazie alle intuizioni di movimenti d’avanguardia
e singoli sovvertitori. Ed è su questo aspetto
che particolarmente si concentrano, nel terzo e quarto
capitolo, Savarese e la Borelli, dopo una doverosa ed
esaustiva introduzione che fornisce al lettore una serie
di informazioni preliminari sulle tecnologie digitali
e sulle applicazioni che oggi consentono a chiunque
di utilizzare il Pc pur senza conoscerne a fondo il
linguaggio, nonché sulle ricerche informatiche
che nell’ultimo secolo hanno condotto a nuove
modalità di scrittura e creazione di ipertesti
(con un’interessante incursione nel settore in
ascesa dei videogames e un’analisi della progressiva
diffusione di un prodotto offline come i Dvd, che promette
la formazione di una “mediateca teatrale”
comprensiva delle fonti visive della storia del teatro,
sia a scopo didattico che di studio).
È dalla fine degli anni Cinquanta che gli artisti
cercano di infrangere la frontalità imposta agli
spettatori, costretti ad una visione monoprospettica
dalla netta opposizione scena/platea, quadro/osservatore,
per offrire loro la possibilità di scegliere,
attraverso la moltiplicazione di punti di emissione
e ricezione, un proprio punto di vista e di partecipare,
non soltanto di assistere, al momento demiurgico della
rappresentazione. Il teatro di strada è un esempio
emblematico di tale tentativo di aprire lo spazio teatrale
per inglobarvi lo spettatore. Oggi i nuovi media hanno
raccolto questa eredità dell’happening,
e propongono agli artisti come modello di ambiente creativo
lo spazio aperto della chat, luogo virtuale all'interno
del quale la modalità dell'intervento diretto
può svilupparsi all’ennesima potenza. La
partecipazione/improvvisazione diventa elemento fondamentale
della rappresentazione teatrale. Non solo: artisti e
spettatori, significativamente, si trovano ad avere
a disposizione gli stessi identici mezzi di espressione
- la tastiera e un linguaggio di simboli comuni - annullando
così la distanza reciproca.
A questo proposito, Savarese e la Borelli citano tutta
una serie di casi significativi. Tra questi, il Desktop
Theatre di Adriene Jenik e Lisa Brenneis che nel 1997
allestirono per il Digital Storytelling Festival "Waiting
for Godot.com", in cui il testo era quello di Beckett,
ma il palcoscenico una chat-room visibile in due dimensioni
occupata da "avatar", icone grafiche, a rappresentare
ogni partecipante ma anche i due protagonisti dell’opera,
Didi e Gogo. Gli altri utenti, ignari di far parte di
un evento strutturato in forma teatrale, in quell’occasione
hanno interagito con il testo proponendosi come personaggi
interni al dramma, in alcuni casi captando alla perfezione
lo spirito dell'operazione.
Spazio particolare, poi, è dedicato all’esperienza
italiana del performer-artista Giacomo Verde, fondatore
nel 1998 del gruppo tecnoteatrale Zonegemma con il quale
ha presentato Storie Mandaliche e Webcam Theatre.
Storie Mandaliche si fruisce in uno spazio tradizionale
alla presenza di un cybernarratore “che dispone,
al posto del telo disegnato da sfogliare, delle immagini
in video che può trasformare al ritmo del suo
racconto utilizzando un mouse”. Vengono sfruttate
le possibilità ipertestuali del programma cosicché
ogni sera uno spettatore decide da quale storia iniziare
la performance il cui svolgimento successivo seguirà
di volta in volta l’umore della platea. “La
tecnologia digitale e le possibilità interattive
degli strumenti collegati al computer rendono il quadro
non più un quadro ma un ambiente interattivo
che risponderà agli interattori in maniera personalizzata”.
Il Webcam Theatre, invece, ha inaugurato la
propria attività con la performance "Connessioni
remote", andata in scena nel maggio 2001 al Museo
Pecci di Prato e sul sito "www.webcamtheatre.org",
attraverso il quale era anche possibile avere accesso
ad una chat sulla quale lasciare i propri messaggi e
commenti in tempo reale. L'artista-attore si trovava
fisicamente all'interno di una sala del Museo, di fronte
ad un pubblico reale che ne osservava l'azione dal vivo,
mentre diverse web-cam registravano e rimandavano il
segnale ad utenti collegati al proprio Pc. La stessa
interfaccia grafica del sito veniva anche proiettata
nella sala. La visione dello spettacolo risultava quindi
molteplice e non univoca, per la diversità di
punti di vista fra spettatori in sala e a casa. Anche
i punti di emissione dell'opera d'arte ne risultavano
moltiplicati: al centro si trovava il performer, che
innescava l'azione di un teleracconto in dieci piccole
video-azioni, attraverso l'interazione della narrazione
con immagini elettroniche generate in tempo reale dal
computer - il secondo "attore"- visualizzate
sia sullo schermo del Pc che sullo scenario proiettato
in sala. A questo si aggiungeva il fatto che lo spettatore
in sala leggeva accanto alle immagini le linee di testo
scritte dagli utenti invisibili che, attraverso la chat,
interagivano in diretta con la sala e il narratore,
intervenendo quindi sulla creazione teatrale da un punto
di vista ancora diverso.
Altro versante della sperimentazione riguarda poi l’utilizzo
di avatar virtuali al posto di attori in carne ed ossa,
possibilità offerta ora dalle nuove tecnologie
ma già vagheggiata nel Novecento dal teatro futurista,
che proponeva una personificazione dello spazio , o
da utopie di registi geniali come Gordon Craig, che
teorizzavano l'avvento di un attore-supermarionetta,
una nuova figura di artista capace di sottrarsi “alle
emozioni viscerali e alla squilibrata soggettività
“della carne e del sangue”, viziosa consuetudine
dell’attore di teatro ottocentesco”, non
per forza inanimata ma che comunque andasse oltre la
propria natura emozionale per trasformarsi in strumento
di armonizzazione capace di rispondere alla volontà
del regista proprio come illuminazione e congegni di
scena. Un fantasma di dispositivo meccanico che pilotasse
dall’interno gli attori, che una volta evocato
si insinuò come un tarlo nell’immaginario
teatrale. E che ancora oggi lo tormenta. Si tratta di
un traguardo raggiungibile? La tecnologia digitale può
salvare e sublimare il teatro? Gli autori di Te@tri
nella rete sembrano dubitarne. Perché “la
macchina che riporta la traccia esatta del nostro encefalo,
per quanto proiettata ai quattro angoli del globo, non
riuscirà a dare la misura dell’abisso che
esso racchiude”. Del resto lo slogan di Nicola
Savarese, in chiosa all’introduzione del volume,
parla chiaro. Un computer è un mezzo. Tu
sei molto di più dell’altra metà.
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