Da qualche
anno gli operatori dell’arte contemporanea volgono
lo sguardo, con attenzione crescente, alla produzione
artistica in Medio Oriente e nel mondo arabo, al suo
contesto socio-politico e alle eventuali tendenze emergenti.
Nella geopolitica offerta dalle grandi manifestazioni
espositive, dalla Documenta alle Biennali ormai disseminate
un po’ dappertutto (da Dakar a Johannesburg, da
Praga a San Paolo), i paesi che si affacciano sul bacino
orientale del Mediterraneo sembravano infatti mancare
dalla mappa. Del resto gran parte degli studi post-coloniali
(introdotti da qualche anno in Italia grazie a Meltemi)
fanno riferimento soprattutto a due grandi aree geografiche:
quella africana, dal Ruanda al Sud Africa, preoccupata
dalle ricadute collettive causate dalla diaspora e dai
problemi di rappresentazione identitaria e sociale,
spaziando dai testi di Fanon a quelli più recenti
di A. Mbembe.
Seconda area, quella del continente indiano, in cui
i subaltern studies – da R. Guha a G.
Ch. Spivak - hanno rielaborato il concetto gramsciano
di classe subalterna per dare corpo a nuove soggettività
e contrastare così l’autorità della
vulgata storica dominante. Un programma politico che,
se si rivolge in prima istanza al Sud-Est asiatico,
ha finito per coinvolgere più in generale i numerosi
Sud del mondo.
Un’ulteriore conferma della marginalità
in cui è stata relegata finora l’area medio-orientale
– frontiera porosa dell’Europa – proviene
dalle tendenze del mercato, di recente apertosi verso
l’Asia e soprattutto la Cina, e ancora dalle cinque
“piattaforme” della penultima Documenta
(2002) diretta da Okwui Enzewor, costituita dalla stessa
mostra e da quattro convegni che la precedono e che
spaziano dal futuro della democrazia in America Latina
o in Sud Africa al fenomeno della creolizzazione. Per
inciso, la loro pubblicazione costituisce la sintesi
più completa e aggiornata dell’incontro
fra studi post-coloniali e pratiche artistiche contemporanee,
forse l’unica prospettiva critica capace di articolare
la complessità e l’incertezza generate
dalla globalizzazione.
Ora, Catherine David, già curatrice della Documenta
del 1997, promuove da qualche anno con grande energia
alcune attività – mostre, pubblicazioni,
conferenze - sulle “rappresentazioni arabe contemporanee”,
con un’attenzione particolare al Libano e alla
città di Beirut. Tamass, una serie di
esposizioni che ha finora toccato Barcellona e Rotterdam,
è stata ospitata anche all’Arsenale durante
l’ultima biennale veneziana (2003), per quanto
un allestimento degli spazi caotico e magmatico nonché
un succedersi di mostre fra loro diversissime senza
soluzione di continuità ne abbia fatto piuttosto
un appuntamento mancato. Pochi infatti sono gli artisti
libanesi che hanno raggiunto una fama internazionale;
potremmo ricordare il caso di Mona Hatoum, sintomatico
in quanto la sua formazione e la sua attività
si svolgono interamente in Inghilterra. Per quanto riguarda
la nuova generazione, quella nata durante gli anni Sessanta
e che ha vissuto in piena consapevolezza i quindici
anni di guerra civile (1975-1990), il caso più
interessante ci sembra essere quello dell’Atlas
Group.
A partire dal ’91 la città di Beirut -
sette volte distrutta e sette volte ricostruita secondo
la leggenda – ha mutato completamente volto, nel
tentativo di cancellare dalla sua superficie le tracce
dei bombardamenti: 15.000 immobili costruiti in soli
cinque anni e 20 mall di tipo americano, un campus universitario
e uno stadio da 65.000 posti. E ancora complessi residenziali
in stile post-moderno, sospesi fra monumentalità
neoclassica e architettura locale. La ricostruzione
del centro storico è stata affidata a un’unica
società immobiliare, la Solidere, che non ha
provato alcuno scrupolo a utilizzare come fondamenta
i reperti archeologici venuti alla luce durante gli
scavi, fra cui un villaggio neolitico, un portico romano,
un suk medievale e un porto fenicio.
Uno scrittore libanese, Albert Naccache, ha parlato
giustamente di “memoricidio”. Tuttavia questo
progetto, in cui è iscritto certo il suo stesso
fallimento, non ha scalfito le divisioni sociali: l’ovest
musulmano e l’est cristiano, la dialettica centro/periferia,
l’impossibilità di celebrare matrimoni
misti, ecc. Beirut resta una città in cui si
succedono diversi spazi confessionali e in cui il cittadino
è marcato dall’appartenenza ad una comunità
etnico-religiosa specifica.
Ogni intervento artistico è dunque forzatamente
un grido di protesta politica, teso a costituire uno
spazio pubblico che sia innervato da quella
memoria traumatica che tesse i luoghi quanto gli individui.
Una latenza da rappresentare mediante la costituzione
di un archivio visivo che documenti gli anni della guerra
civile: ecco in sintesi il progetto dell’Atlas
group. Forte delle sue due sedi a Beirut a New York
e fondato da Walid Raad, che a dire il vero ne è
in l’unico componente, l’Atlas group è
in realtà il nome di un collettivo che non esiste.
Nella sua pratica artistica Raad è consapevole
della difficoltà di separare i fatti dalla finzione,
il documento storico dalla ricostruzione, la memoria
dalla narrazione, il discorso sulla storia
dal discorso nella storia. Allo stesso modo
è affascinato dalle operazioni che portano alla
scrittura della storia, per quanto, a differenza di
M. de Certeau (con cui sembra condividere alcune posizioni
di fondo), non crede possibile iscriverla “in
un regime di sapere verificabile e dunque potenzialmente
universale”. Per questa ragione crea un’istituzione
o una figura fittizia (come quella del Dr. Fadl Fakhouri):
all’artista manca infatti l’autorità
e le credenziali per ergersi ad agente storico.
Le installazioni di Raad combinano senza distinzione
alcuna documenti originali e manipolazioni artistiche,
e scelgono di volta in volta il medium più appropriato:
video e fotografia, interviste e letture di testi in
più lingue la cui traduzione è volutamente
imprecisa. Lo spettatore resta spiazzato e non gli rimane
che chiedersi se quello che vede sia vero o falso, una
domanda che vale tanto davanti al lavoro di Raad che,
di rimbalzo, ad ogni documento storico. Le riprese video
sulla detenzione degli ostaggi americani in Libano (I
Only Wish That I Could Weep, 2001); un gruppo di
storici-scommettitori riuniti in un galoppatoio, alla
vana ricerca dell’unico scatto che mostri il momento
esatto in cui il cavallo taglia il traguardo (The
Missing Libanese Wars, 1996); un collage fotografico
sulle 245 macchine-bomba esplose nei centri urbani libanesi
(My Neck Is Thinner Than a Hair, 1999-).
In definitiva, l’operazione dell’Atlas
group consiste nel combinare sottilmente l’aspetto
performativo di ogni atto storico con le dinamiche dell’inconscio
e in particolare con l’isteria. Nelle parole dell’artista:
“Alla stessa maniera dei sintomi isterici, gli
eventi descritti non fanno riferimento ad alcuna memoria
di avvenimenti reali quanto a delle fantasie (mie e
altrui) costituite a partire da diversi ricordi”.
Del resto l’inconscio è strutturato come
le rovine archeologiche di una città e i suoi
strati richiamano quelli della psiche, così come
la natura della nevrosi è tale da scompaginare
ogni successione cronologica degli avvenimenti. Ad esser
colpito al cuore è il sapere storico, soprattutto
davanti ad un evento traumatico collettivo come la guerra.
La somatizzazione isterica diventa dunque un efficace
strumento, artistico quanto politico, atto a rappresentare
l’esperienza traumatica e riattivare il potenziale
- dinamico e sovversivo - della memoria e dell’inconscio
collettivi. Un lavoro indispensabile per scrivere una
storia senza obliterazioni e per riappropriarsi dello
spazio pubblico - una lezione per la vecchia Europa?
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