273 - 12.03.05


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Pratiche artistiche a Beirut
Riccardo Venturi



Da qualche anno gli operatori dell’arte contemporanea volgono lo sguardo, con attenzione crescente, alla produzione artistica in Medio Oriente e nel mondo arabo, al suo contesto socio-politico e alle eventuali tendenze emergenti. Nella geopolitica offerta dalle grandi manifestazioni espositive, dalla Documenta alle Biennali ormai disseminate un po’ dappertutto (da Dakar a Johannesburg, da Praga a San Paolo), i paesi che si affacciano sul bacino orientale del Mediterraneo sembravano infatti mancare dalla mappa. Del resto gran parte degli studi post-coloniali (introdotti da qualche anno in Italia grazie a Meltemi) fanno riferimento soprattutto a due grandi aree geografiche: quella africana, dal Ruanda al Sud Africa, preoccupata dalle ricadute collettive causate dalla diaspora e dai problemi di rappresentazione identitaria e sociale, spaziando dai testi di Fanon a quelli più recenti di A. Mbembe.
Seconda area, quella del continente indiano, in cui i subaltern studies – da R. Guha a G. Ch. Spivak - hanno rielaborato il concetto gramsciano di classe subalterna per dare corpo a nuove soggettività e contrastare così l’autorità della vulgata storica dominante. Un programma politico che, se si rivolge in prima istanza al Sud-Est asiatico, ha finito per coinvolgere più in generale i numerosi Sud del mondo.

Un’ulteriore conferma della marginalità in cui è stata relegata finora l’area medio-orientale – frontiera porosa dell’Europa – proviene dalle tendenze del mercato, di recente apertosi verso l’Asia e soprattutto la Cina, e ancora dalle cinque “piattaforme” della penultima Documenta (2002) diretta da Okwui Enzewor, costituita dalla stessa mostra e da quattro convegni che la precedono e che spaziano dal futuro della democrazia in America Latina o in Sud Africa al fenomeno della creolizzazione. Per inciso, la loro pubblicazione costituisce la sintesi più completa e aggiornata dell’incontro fra studi post-coloniali e pratiche artistiche contemporanee, forse l’unica prospettiva critica capace di articolare la complessità e l’incertezza generate dalla globalizzazione.

Ora, Catherine David, già curatrice della Documenta del 1997, promuove da qualche anno con grande energia alcune attività – mostre, pubblicazioni, conferenze - sulle “rappresentazioni arabe contemporanee”, con un’attenzione particolare al Libano e alla città di Beirut. Tamass, una serie di esposizioni che ha finora toccato Barcellona e Rotterdam, è stata ospitata anche all’Arsenale durante l’ultima biennale veneziana (2003), per quanto un allestimento degli spazi caotico e magmatico nonché un succedersi di mostre fra loro diversissime senza soluzione di continuità ne abbia fatto piuttosto un appuntamento mancato. Pochi infatti sono gli artisti libanesi che hanno raggiunto una fama internazionale; potremmo ricordare il caso di Mona Hatoum, sintomatico in quanto la sua formazione e la sua attività si svolgono interamente in Inghilterra. Per quanto riguarda la nuova generazione, quella nata durante gli anni Sessanta e che ha vissuto in piena consapevolezza i quindici anni di guerra civile (1975-1990), il caso più interessante ci sembra essere quello dell’Atlas Group.

A partire dal ’91 la città di Beirut - sette volte distrutta e sette volte ricostruita secondo la leggenda – ha mutato completamente volto, nel tentativo di cancellare dalla sua superficie le tracce dei bombardamenti: 15.000 immobili costruiti in soli cinque anni e 20 mall di tipo americano, un campus universitario e uno stadio da 65.000 posti. E ancora complessi residenziali in stile post-moderno, sospesi fra monumentalità neoclassica e architettura locale. La ricostruzione del centro storico è stata affidata a un’unica società immobiliare, la Solidere, che non ha provato alcuno scrupolo a utilizzare come fondamenta i reperti archeologici venuti alla luce durante gli scavi, fra cui un villaggio neolitico, un portico romano, un suk medievale e un porto fenicio.

Uno scrittore libanese, Albert Naccache, ha parlato giustamente di “memoricidio”. Tuttavia questo progetto, in cui è iscritto certo il suo stesso fallimento, non ha scalfito le divisioni sociali: l’ovest musulmano e l’est cristiano, la dialettica centro/periferia, l’impossibilità di celebrare matrimoni misti, ecc. Beirut resta una città in cui si succedono diversi spazi confessionali e in cui il cittadino è marcato dall’appartenenza ad una comunità etnico-religiosa specifica.

Ogni intervento artistico è dunque forzatamente un grido di protesta politica, teso a costituire uno spazio pubblico che sia innervato da quella memoria traumatica che tesse i luoghi quanto gli individui. Una latenza da rappresentare mediante la costituzione di un archivio visivo che documenti gli anni della guerra civile: ecco in sintesi il progetto dell’Atlas group. Forte delle sue due sedi a Beirut a New York e fondato da Walid Raad, che a dire il vero ne è in l’unico componente, l’Atlas group è in realtà il nome di un collettivo che non esiste. Nella sua pratica artistica Raad è consapevole della difficoltà di separare i fatti dalla finzione, il documento storico dalla ricostruzione, la memoria dalla narrazione, il discorso sulla storia dal discorso nella storia. Allo stesso modo è affascinato dalle operazioni che portano alla scrittura della storia, per quanto, a differenza di M. de Certeau (con cui sembra condividere alcune posizioni di fondo), non crede possibile iscriverla “in un regime di sapere verificabile e dunque potenzialmente universale”. Per questa ragione crea un’istituzione o una figura fittizia (come quella del Dr. Fadl Fakhouri): all’artista manca infatti l’autorità e le credenziali per ergersi ad agente storico.

Le installazioni di Raad combinano senza distinzione alcuna documenti originali e manipolazioni artistiche, e scelgono di volta in volta il medium più appropriato: video e fotografia, interviste e letture di testi in più lingue la cui traduzione è volutamente imprecisa. Lo spettatore resta spiazzato e non gli rimane che chiedersi se quello che vede sia vero o falso, una domanda che vale tanto davanti al lavoro di Raad che, di rimbalzo, ad ogni documento storico. Le riprese video sulla detenzione degli ostaggi americani in Libano (I Only Wish That I Could Weep, 2001); un gruppo di storici-scommettitori riuniti in un galoppatoio, alla vana ricerca dell’unico scatto che mostri il momento esatto in cui il cavallo taglia il traguardo (The Missing Libanese Wars, 1996); un collage fotografico sulle 245 macchine-bomba esplose nei centri urbani libanesi (My Neck Is Thinner Than a Hair, 1999-).

In definitiva, l’operazione dell’Atlas group consiste nel combinare sottilmente l’aspetto performativo di ogni atto storico con le dinamiche dell’inconscio e in particolare con l’isteria. Nelle parole dell’artista: “Alla stessa maniera dei sintomi isterici, gli eventi descritti non fanno riferimento ad alcuna memoria di avvenimenti reali quanto a delle fantasie (mie e altrui) costituite a partire da diversi ricordi”. Del resto l’inconscio è strutturato come le rovine archeologiche di una città e i suoi strati richiamano quelli della psiche, così come la natura della nevrosi è tale da scompaginare ogni successione cronologica degli avvenimenti. Ad esser colpito al cuore è il sapere storico, soprattutto davanti ad un evento traumatico collettivo come la guerra. La somatizzazione isterica diventa dunque un efficace strumento, artistico quanto politico, atto a rappresentare l’esperienza traumatica e riattivare il potenziale - dinamico e sovversivo - della memoria e dell’inconscio collettivi. Un lavoro indispensabile per scrivere una storia senza obliterazioni e per riappropriarsi dello spazio pubblico - una lezione per la vecchia Europa?

 

 

 

 

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