Sul finire
del XVIII secolo l’Inghilterra aveva già
inventato la moderna società dei consumi e del
tempo libero. A Londra – Leicester Square, 10
gennaio 1792 – era nato lo show biz dei
“Panorami” ideati da Robert Barker. Il più
celebre panorama dell’inventore irlandese rappresentava
la città di Londra e poteva essere contemplato
dall’alto, come se si fosse a bordo di una mongolfiera.
Nel 1799, un altro panorama presentava agli spettatori
inglesi la scena della vittoria di lord Nelson sulla
flotta francese a Abukir: re Giorgio III si degnò
di visitare quel documentario in grandezza naturale.
Ben presto, i “quadri senza cornice”, dapprima
semicircolari, poi circolari, furono imitati a Parigi
e a Berlino e attrassero un vasto pubblico. In entrambe
le città, artisti di prim’ordine e pittori-architetti
come Pierre-François Léonard Fontaine
o Karl Friedrich Schinkel lavorarono al disegno di quelle
immense rappresentazioni, vincolate a sottili regole
ottiche. A Parigi, è l’americano Robert
Fulton a creare, nel 1799, il primo teatro circolare
per panorama, al Jardin des Capucines, subito seguito
da un secondo per il suo enorme successo. Fino al 1811
la principale attrazione rimase la rappresentazione
delle vittorie di Bonaparte: La rada di Tolone nel
1793, Marengo, Tilsit, Wagram.
Quei panorami di battaglie amplificavano e portavano
a una sorta d’iperrealismo il genere accademico
della “pittura di storia”, rivolta al più
ristretto pubblico dei Salon ufficiali, e all’epoca
rappresentata da quadri monumentali come L’incoronazione
di Napoleone di David e Gli appestati di Giaffa del
suo allievo Gros.
L’altro tema privilegiato dei panorami, quello
che in principio aveva assicurato il trionfo dell’invenzione
di Barker a Londra – e che a Parigi avrebbe favorito
il lancio del diorama di Daguerre – riprendeva
un altro genere nobile dell’arte accademica, sia
pure meno elevato rispetto a quello della pittura di
storia, il paesaggio urbano, che tuttavia si accostava
ai dipinti storici nella rappresentazione del più
glorioso sito storico: Roma.
Al nuovo pubblico democratico, i panorami di Roma e
di Londra, le due città depositarie della storia,
accordavano a poco prezzo due rari privilegi,
sino ad allora riservati alla sola élite
colta: il “Grand Tour” in Italia, con l’obbligo
di una lunga permanenza a Roma, e il “Viaggio
in Grecia e nella Turchia ottomana”, con un soggiorno
nell’antica Bisanzio. Era il presagio degli hotel
di Las Vegas, che ricreano, come “cloni”
su un playground rutilante in pieno deserto del Nevada,
i monumenti celeberrimi dell’antichità,
soprattutto il Palazzo dei Cesari: ai turisti democratici,
di un’unica veduta contemporanea e simultaneamente,
la totalità dei testimoni illustri di millenni
di storia, mentre prima i viaggiatori eruditi che desideravano
vederli e studiarli erano costretti a lunghe e difficoltose
peregrinazioni in ogni parte del mondo.
I magnifici “paesaggi urbani”, disegni
o dipinti, raffiguranti Roma nei suoi molteplici aspetti
– opere tutte di artisti di prim’ordine,
riunite da Cesare de Seta, storico del “Grand
Tour”, per la mostra Imago Urbis Romae
– appartengono all’importante e augusto
genere accademico della pittura di paesaggio. Il soggetto
di Roma elevava queste opere alla “pittura di
storia”. Come clientela avevano, oltre a quella
dei principi italiani che le sceglievano per adornare
i loro palazzi, i nobili stranieri del “Grand
Tour”, che desideravano riportare con sé
i preziosi ricordi del soggiorno romano e le belle vestigia
della grande arte dei pittori, insieme agli antiques
e alle collezioni di calchi in stucco di monete, medaglie
e pietre lavorate a intaglio dell’epoca imperiale,
in cui Roma era specializzata. Alle opere d’arte,
sovente acquistate e portate a casa dai viaggiatori
che avevano soggiornato nell’Urbe, corrispondeva,
nel genere letterario del “racconto di viaggio
in Italia”, il pezzo di bravura della descrizione
di Roma. Tali descrizioni, sempre più frequenti
a partire dalla fine del XVI secolo, e per lo più
copie l’una dell’altra con poche varianti,
servivano da guida sommaria ai viaggiatori. La maggior
parte dei loro autori si limitava a elencare chiese,
palazzi, monumenti, opere d’arte da vedere a ogni
costo; solamente i più raffinati descrivevano,
per sommi capi e con dovizia d’iperboli ammirative,
i pezzi più celebri delle collezioni o delle
chiese che a Roma si visitavano come musei.
È stato scritto che il genio sta nell’inventare
un luogo comune. Il genio di Roma sta nell’aver
inventato non un luogo comune, bensì un intero
sistema di luoghi comuni, frequentati nei secoli senza
che la loro suggestione si esaurisse. Il genere odeporico
non supera i limiti consueti, fuorché in tre
rari capolavori affatto originali: il Journal
de voyage di Montaigne (pubblicato nel XVIII
secolo), la continuazione delle lettere romane, nel
1740, indirizzate agli amici di Digione dal presidente
de Brosses (pubblicate nel 1798) e la celebre guida
in forma di epistole del calvinista François-Maximilien
Misson (prima edizione La Haye, 1702), che nel secolo
dei Lumi continua ad avere successo; l’autore
non cela l’ironia verso i “luoghi comuni”
dell’elogio di Roma, ripetuti dalla tradizione
cattolica, ed esercita una critica affilata prendendo
di mira i rituali e le credenze superstiziose incoraggiate
dal clero romano, che mischia il culto delle reliquie
all’ammirazione per le opere d’arte.
Né la banalità in cui facilmente cadono
i luoghi comuni dell’ammirazione ingenua, né
lo spirito ironico e critico dei Lumi, connotano il
genere pittorico del paesaggio urbano, che fiorisce
dal XVI al XIX secolo: la Roma dei pittori ha anch’essa
come presupposto un sistema di luoghi comuni, che non
scade nell’arida ripetitività dei viaggiatori
(scrittori dilettanti nella maggior parte dei casi),
ma che neppure permette di accedere alla polemica pre-“filosofica”
di una guida del calibro di Misson. La percezione poetica
di Roma – quella delle rovine così come
quella della sua morfologia moderna di capitale religiosa
della civiltà – trova la sua espressione
più profonda e compiuta nella pittura di paesaggio.
Le folle simpatetiche delle capitali europee, accorse
a divorare con gli occhi i panorami di Roma nel XIX
secolo, e le loro seguaci nel XX secolo, infinitamente
più numerose, che si commuovevano di fronte allo
spettacolo della Roma cinematografica dei “peplum”
di Hollywood o di Cinecittà, si accontentarono,
come per lo più i viaggiatori dei tre secoli
precedenti, di luoghi comuni, che confortavano la loro
ammirazione dispensando certezze. La grande festa dei
paesaggisti, prodighi di disegni, incisioni e dipinti
che rappresentavano, con genio o talento, le rovine
della Roma antica e i monumenti della Roma papale, è
rimasta uno spettacolo riservato agli stessi pittori,
e a un pubblico ristretto d’intenditori: quasi
tutti i viaggiatori che allora acquistarono quei paesaggi,
li videro unicamente secondo le convenzioni della topica
del racconto di viaggio. Soltanto oggi, in una mostra
quale Imago Urbis Romae, è possibile
apprezzare come i pittori, attenti poeti, siano riusciti
a dar vita e sostanza all’esperienza di Roma meglio
degli autori dei racconti di viaggio, mostrandosi quanto
meno all’altezza di un presidente de Brosses e
del suo emulo Stendhal.
Scialbi o brillanti, banali o personali, i racconti
e le immagini di Roma attingono più o meno profondamente
all’ineusaribile mito dell’Urbe o restano
alla sua superficie. Radice primaria dell’identità
europea, quel mito, come ogni mito fondamentale, è
carico di contraddizioni; comporta almeno due versanti,
che si contrappongono senza mediazioni: uno politico
e militare, l’altro religioso e poetico. Roma
è stata a un tempo il testimone sopravvissuto
di un grande Impero universale, l’archetipo di
un potere temporale vigoroso e unificatore che ha colmato
di nostalgia innumerevoli avventure di condottieri moderni,
e il sacro capo di una chiesa universale che avrebbe
imposto, in virtù della supremazia spirituale,
a un’Europa lacerata dalle divisioni e ai suoi
innumerevoli stati secolari, l’unità di
fede e di speranze di una “Repubblica cristiana”.
Proprio la Roma pontificale diventerà nel Rinascimento
l’accademia delle arti, delle lettere e dei costumi
civili per eccellenza, attraverso il pacifico esercizio
del prestigio e dell’influenza sulle nazioni:
Gerusalemme occidentale della fede cristiana, ma anche
città-museo-biblioteca comune a tutta l’Europa,
depositaria dei capolavori di artisti, poeti e saggi
dell’antichità pagana, rinati cristiani
sotto l’influsso dei papi, principi supremi di
una “Repubblica delle lettere”.
Che cosa sarebbero, nella buona e nella cattiva sorte,
senza Roma e lo straordinario corno dell’abbondanza
del suo mito, l’Europa che ci è tramandata
dalla storia e quella ch’essa s’impegna
oggi stesso a definire davanti ai nostri occhi? Perfino
nella nostra epoca di amnesie, i trattati fondamentali
che hanno dato corpo economico, giuridico e politico
a una Repubblica europea ancora in gestazione sono stati
firmati solennemente, sulla base del consenso unanime
delle nazioni contraenti, in Campidoglio a Roma. Il
21 aprile, dies natalis della fondazione della
Roma antica, dovrebbe essere una festa celebrata annualmente
da tutti gli europei, così come gli anni santi
ogni quarto di secolo sono celebrati da tutti i cattolici
del mondo, la cui sede rimane nella Roma moderna.
Roma è stata apertamente, e tale segretamente
resta, la città-orologio dell’Europa, addirittura
del cosmo. Quell’autorità immemorabile
e invisibile sulla misura e sui ritmi del tempo vissuto
impone innanzitutto il rispetto che qualsiasi grande
mediazione fra il cielo e la terra ispira. Se è
vero che la cronologia non è un’invenzione
romana, Roma le ha tuttavia impresso il suo sigillo
ineludibile: in due occasioni, nel 46 a.C. e nel 1582,
ha fissato, per se stessa e per l’universo, l’ora
e il calendario. Giulio Cesare decreta nel 46 a.C.,
basandosi sui lavori dell’astronomo alessandrino
Sosigene, l’inizio e la durata dell’anno
per i quindici secoli a venire. Papa Gregorio XIII stabilisce
nel 1582 il calendario “nuovo stile” che
tuttora ci regola, basandosi sui calcoli di Cristoforo
Clavio, matematico gesuita del Collegio romano.
Se l’eccesso di memoria già minava i fondamenti
della Roma antica, il rimedio a quell’eccesso
– l’organizzazione cronologica e topografica
della memoria, la sua normazione e amministrazione –
diventò ben presto un principio di coesione civica
e di convergenza religiosa. Nella trama del calendario
giuliano, sullo sfondo dei dies festi o infesti
che lo ritmano – alcuni dei quali sono fin dall’antichità
anniversari storici, come la fondazione dell’Urbe,
la battaglia dell’Allia o la morte di Cesare –
la ricerca e la narrazione storiche, l’indagine
direttamente filologica e archeologica hanno fatto vivere
e palpitare di feste, dai primi secoli della nostra
era e per tutti i cittadini dell’Impero, l’astratta
cornice temporale fissata dagli astronomi e dai loro
calcoli.
In quella stessa trama, ma insinuandosi nelle rovine
dell’Impero e nel vuoto dei suoi anniversari,
la chiesa romana a poco a poco ha disegnato l’anno
cristiano, ammirevole organismo mnemotecnico che mantiene
perennemente attuale, nella sequenza delle feste, la
vita di e la commemorazione degli apostoli, dei martiri
e dei santi.
L’immaginazione poetica, aggiungendosi alla commozione
religiosa, impresse un ulteriore impulso a quella sistemazione
ritmica del tempo collettivo; la metrica di Virgilio,
di Orazio e di Ovidio, e in seguito la scansione degli
inni liturgici del breviario romano, ricongiunsero quegli
eterni ritorni alle strutture profonde e attive della
lingua latina.
È Roma a inventare la nozione di saeculum,
periodo di cent’anni allo scadere del quale la
Città eterna si sgrava, attraverso una speciale
funzione offerta agli dei, del fardello delle colpe
accumulate al loro cospetto, trovando una nuova vitalità.
E sempre da Roma trae origine la nozione di “millennio”,
il millenarium saeculum che l’imperatore
Filippo l’Arabo celebrò nel 248, quando
presiedette il centenario dei giochi destinati a rinnovare,
stavolta per mille anni, il patto eterno stabilito fra
Roma e gli dei.
Proprio l’Urbe s’impegnò a dominare
il tempo, tramutandolo in pietra nello spazio modellato
dall’architettura, l’arte romana per eccellenza.
Nei templi, nei monumenti commemorativi, nelle iscrizioni,
nelle statue, negli elenchi consolari e nella Forma
Urbis scolpiti nel marmo, Roma divenne ben presto
il teatro di una memoria visiva, sintesi dell’architettura
politica e giuridica che via via si era data, e che
aveva esteso al mondo con le armi.
All’interno del teatro imperiale spesso devastato,
ma mai cancellato, nacque Roma la Santa, ossia la Roma
cristiana. Per scavi e successive sovrapposizioni, questa
eresse le proprie chiese e basiliche, e sancì
il proprio itinerario di pellegrinaggio, assecondando
la nuova configurazione topografica che andava sostituendosi
a quella che l’aveva preceduta, e che non intendeva
rinunciare né ai mirabilia della Roma imperiale
defunta, né alle componenti, tutt’altro
che minori, del suo incomparabile sito naturale e della
sua segreta attrattiva.
Città-orologio indicatrice dell’ora dell’Europa
latina, l’“Isola sonora” di Rabelais
sarà divenuta, nel corso del suo secondo millennio
di vita, la città-palinsesto il cui mistero concentra,
portandole incessantemente alla luce, le emozioni e
la meditazione d’innumerevoli pellegrini. I viaggiatori
accorsi da ogni parte del continente devono dunque aver
provato, come sovente hanno scritto con le varianti
che rappresentano oggi gli archivi dello spirito europeo,
lo stesso sentimento che il giovane erudito francese
Jean-Jacques Bouchard affidava alle proprie memorie,
nel 1631: “Al cospetto di quella Roma grande e
magnifica, fui colto in principio da un vago orrore
religioso e devoto, pensando a tutte le belle e auguste
cose che un tempo si fecero in quel luogo. Ma poi mi
sentii a un tratto invaso dall’agio e dalla tenerezza,
come se davvero stessi rimirando la mia città
natale. Si può dire che Roma sia a tal punto
la patria comune, che gli stranieri vi si trovano altrettanto
bene che a casa propria, e ancor meglio, meglio dei
romani stessi”.
Ma la catena dei monumenti e degli avvenimenti, che
fanno meritare a Roma il nome di Città eterna,
fu in più occasioni interrotta. La patria comune
degli europei conobbe il saccheggio e la sconfitta;
i cataclismi che si abbatterono sulla città suggestionarono
il mondo e la sua immaginazione. E il tessuto della
Forma Urbis, degli anniversari, dei giubilei
rigeneratori e salvifici, fu lacerato dalle catastrofi
che assunsero, nell’immaginario collettivo, le
proporzioni di un’Apocalisse.
l contrasto è davvero sorprendente: Roma aeterna,
ogniqualvolta venne colpita dalla folgore e fu spogliata
della potenza imperiale, apparve più vuota e
miserabile di ogni altra città: Roma vidua.
La città per eccellenza, Urbs e Civitas,
a un tempo rinnovata Troia, novella Atene e Gerusalemme,
erede di tutte le città, è così
potuta apparire, con il suo campo di rovine, come una
nuova Babilonia, più deserta e maledetta del
suo modello biblico. Nei secoli oscuri, Roma diminuita,
e quasi tornata alla condizione di villaggio, non riesce
più ad aggregare l’Europa, se non nella
vasta angoscia di avere definitivamente smarrito il
proprio centro, le proprie fondamenta e i propri cardini.
Parigi avrebbe conosciuto la stessa sorte nel 1940,
suscitando le medesime paure. New York e la Repubblica
imperiale americana, che si credevano inaccesibili a
una simile aggressione, hanno anch’esse conosciuto,
l’11 settembre 2001, l’orrore della scoperta
improvvisa delle rovine e delle migliaia di morti nel
loro centro.
Non esiste al mondo un’altra città il
cui centro storico sembri scavato, come dalla caduta
di un’immensa meteora, la cui ferita, più
volte riaperta, paia non essersi mai rimarginata.
Il sacco di Roma di Alarico nel 410 ha distrutto la
fede pagana in Roma aeterna, pietra miliare
dell’impero dei Cesari. E il sacco di Roma dei
lanzichenecchi del connestabile dei Borboni nel 1527,
ha segnato la fine della Roma instaurata, i
cui papi, da Martino V, avevano aspirato a rappresentare
la pietra miliare, finalmente immutabile, della Respublica
christiana. A mille anni di distanza, crollo dopo
crollo hanno confermato l’altra vocazione di caput
mundi: quella di un caput mortuum, cranio
e ossa, sepolcro, vanità delle vanità
che annulla l’impresa del calendario scolpito
nei monumenti, e delle iscrizioni sul marmo che aspirerebbero
a sconfiggere l’unico impero in grado di vincere
sempre: l’impero del tempo.
Dalla Civitate Dei di sant’Agostino,
la letteratura europea non ha cessato di ribadire all’unisono,
come il coro di una tragedia, la grande e oscura antitesi
fra l’eterna maestà di Roma e il suo assoggettamento
al tempo distruttore.
Il testo che segue è tratto dal catalogo
della mostra “Imago Urbis Romae” (Electa)
curata da Cesare de Seta.
Imago Urbis Romae.
L’immagine di Roma in età moderna
Roma, Musei Capitolini
dall’11 febbraio al 15 maggio 2005-02-10
info 0639967800
www.museicapitolini.it
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