Il testo
che segue è estratto da “Lo sguardo del
pittore sull’architetto”, tratto dal catalogo
della mostra “Imago Urbis Romae” (Electa)
curata da Cesare de Seta.
Questa mostra di dipinti che evocano i monumenti di
una Roma reale o immaginaria è una bella occasione:
incita a riflettere sulle questioni che prendono forma
laddove due arti si approssimano e talvolta gareggiano,
ma anche, talaltra, si articolano e, se così
posso dire, si coadiuvano. Posso, da parte mia, rispondere
a questa incitazione? In maniera non sufficiente, in
mancanza di un sapere sufficiente.
E tuttavia non posso che accettare l’invito di
Cesare de Seta, poiché perfino un oscuro amatore
può credersi capace di svolgere in quelle regioni,
nel complesso poco esplorate tra l’architettura
e la pittura, un’indagine in grado di suscitare
l’interesse degli storici e di altri testimoni
della creazione artistica. Azzarderò dunque poche
osservazioni, insieme alla suggestione di una chiave
interpretativa, una fra molte, comprensibilmente, dei
dipinti nei quali appaiono monumenti o città;
ritratti che spesso, se non puntualmente, fanno dell’architettura
meno l’oggetto di una rappresentazione fondata
che quello di una rêverie: propriamente,
rêverie del pittore.
La chiave? Ma ancora prima la constatazione: la pittura
non è ricettiva dello spazio, in ogni caso non
lo è quando si vuole figurativa.
Come le posizioni relative dei continenti che noi distinguiamo
sul nostro pianeta sono correttamente preservate su
una sfera, ma non possono esserlo fedelmente sulle carte
piatte, dove in alto e in basso subiscono le dilatazioni
che fanno sognare i bambini, così ciò
che avviene nello spazio delle nostre vite ordinarie,
laddove l’azione e il sogno si alleano o si smontano
reciprocamente, non può essere autenticamente
rivissuto sulla mera superficie in cui, irrimediabilmente,
consiste il quadro: su questo rettangolo dalla superficie
minima che l’Occidente non ha, ciò malgrado,
cessato di mantenere al centro della propria riflessione,
attraverso ogni meditazione sulla realtà e la
vita.
Perché avviene questo? Perché una tecnica,
e un’arte, che sanno evocare la realtà
umana e le cose con la suggestione di una profondità
a volte del tutto convincente, in una luce vera, non
sarebbero poi in grado di riconoscere e ricreare quello
che è e implica lo spazio? Non è forse
innegabile che il pittore possa consegnare ad altri
sguardi, e perfino con precisione, quel che lo sguardo
percepisce?
Certamente, ma poiché appunto dallo sguardo
dipende la sua opera, questa sarà tributaria
del punto di vista in cui lo sguardo si è collocato,
il che fa sì che le percezioni di cui il pittore
potrà nutrirsi siano solamente alcune fra le
molte possibili, e per di più con una totale
incapacità di cogliere aspetti non di meno fondamentali
della nostra esperienza dello spazio. Per esempio: in
virtù delle correzioni che gli vengono insegnate
dalla geometria, il pittore disegnatore può prendere
coscienza delle grandezze, farvi apparire le proporzioni,
e tuttavia, immobilizzato com’è davanti
alla sua tela, non può immergersi compiutamente
nelle profondità spaziali in cui consistono il
camminare, lo spostarsi, il salire, scendere e volgersi
verso questo o quel punto dell’orizzonte.
Eppure questi atti, per noi così spontanei e
tanto più immediati del pensiero e perfino delle
parole, sono tutto ciò per cui lo spazio può
diventare un luogo di esistenza, necessaria condizione
dell’intimità. Il pittore, persona immobile,
rimane estraneo a questa intimità, nel seno della
quale i nostri desideri divengono coscienti, incontrando
nello stesso momento quei limiti che soli permettono
la riflessione su ciò che la realtà è:
al pittore non è consentito penetrare lo spazio
più di quanto alle carte che appiattiscono la
terra e ne distendono i poli sia consentito mostrarne
i cammini che invece seguono i navigatori.
In altre parole: l’essere del piano, la sua intrinseca
struttura di piano, impedisce al pittore di apprendere
veramente e di comprendere a fondo le asserzioni, gli
insegnamenti dello spazio; ed è quindi nel modo
il più specifico che l’architettura è
consapevole, per parte sua, dell’impegno totale
dell’essere che nel mondo parla, delle opere che
essa immagina siano aperte senza restrizioni al nostro
modo di muoverci, di voltarci, di portare lo sguardo
qui o là. Tutti i gesti del corpo vivente e desiderante
mantengono lo spirito ancorato al tempo come esso è
vissuto, alle scelte come vanno operate, in una parola
alla finitezza, ossia al reale: ne consegue che a buon
diritto l’arte del costruire è per molti
di noi la maggiore, nonostante il rispetto che portiamo
ai pittori. L’arte più importante, quella
che permette di passare dalla frequentazione delle forme
a un’autentica esperienza filosofica o morale,
mentre la pittura, che può soltanto pensare la
finitezza, pensarla e non raggiungerla direttamente
per imparare così ad amarla, la pittura, dal
canto suo, è votata a tutte le paure, a tutti
i fantasmi, a tutte le rêverie. O rinuncerà
a rappresentare e dirà solamente il bisogno e
il desiderio di essere al mondo, diventando l’arte
invaghita della sola presenza, della sua epifania, che
perfino l’Europa conobbe, dal Pantocrator bizantino
alle apparizioni suscitate dalla tela di Giacometti,
o rimarrà fedele all’ambizione di rappresentare,
alla mimesi che l’Occidente ha scelto, ma per
ritrovarsi allora imprigionata entro un groviglio di
contraddizioni.
E tuttavia, che ricchezza, quella frenesia dello sguardo
ricolmo del proprio stesso desiderio, e, fatalmente,
quale eccesso di immaginazioni, di speculazioni, di
rivolte, che spiegano come i quadri che nascono da una
mancanza siano divenuti nelle nostre tarde civiltà
quel che ci turba ma che non di meno più di ogni
altra cosa ci affascina!
L’impedimento a coincidere, nella propria ricerca
di artista, con la finitezza essenziale dell’esistenza,
di conseguenza non più amarla ma sognare di liberarsene,
equivale a comprendere la pratica del mondo attraverso
la rete dei nessi concettuali che nulla hanno a che
vedere con le cose, e a limitarsi a coglierne l’aspetto
esteriore, dimorando nell’atemporale – quale
occasione per il desiderio!
E, poiché i concetti declinano gli aspetti della
realtà, ne modulano l’apparenza, il pittore
potrà ricorrere a essi per cambiare la figura
di ciò che è, per renderla capace di accogliere
la sua nostalgia, insomma per sognare: e questo è
parlare, quel che all’architetto non è
consentito, ed essere perfettamente in grado di esprimere
l’inquietudine, le speranze, i dolori sordi, le
gioie brevi della vita – quale apporto! Il pittore
che non ha l’attitudine a fondare, a differenza
del costruttore di edifici, ha quella a concepire le
immagini, a tenere discorsi e, per farlo, a stabilirsi
nel campo dell’immaginario che, per quanto sia
chimerico, circoscrive l’azione di ciascuno di
noi e spesso addirittura la determina, l’accompagna
nella sua erranza, la incoraggia o la rende incerta.
Imago Urbis Romae.
L’immagine di Roma in età moderna
Roma, Musei Capitolini
dall’11 febbraio al 15 maggio 2005-02-10
info 0639967800
www.museicapitolini.it
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