271 - 12.02.05


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“Vi racconto l’ombra
lunga del passato”
Giulio Giorello
con Massimiliano Panarari


Giulio Giorello, uno dei principali (e più noti a livello internazionale) filosofi italiani della scienza, fedele alla propria vocazione di “eretico” della cultura italiana si cimenta con un ambito apparentemente lontano dalla sua amata epistemologia.
In Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Raffaello Cortina), l’autore – che è, tra le altre cose, ordinario di Filosofia della scienza all’università di Milano, presidente della Società italiana di logica e filosofia delle scienze e direttore della collana “Scienza e Idee” di Cortina editore – rivela per l’ennesima volta quei tratti di ecletticità ed estrosità che lo rendono uno dei protagonisti più originali della nostra cultura, oltre che un amante delle contaminazioni tra i generi. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Prof. Giorello, com’è che un filosofo della scienza decide di consacrare un libro proprio ai miti, espressione per eccellenza di quanto si considera comunemente irrazionale?

Le potrei rispondere, di primo acchito, per il fatto che, nella vita, ogni tanto si ha voglia di cambiare, e dopo tanti volumi specialistici di epistemologia sentivo che era giunto finalmente il momento. Più seriamente, ritengo che la dimensione scientifica non escluda le altre, e certamente non quella mitica, che l’ha preceduta. La razionalità filosofica non ha eliminato l’esigenza di queste figure mitiche che definiscono il nostro essere nel mondo ed esprimono un bisogno e delle aspirazioni insopprimibili dell’umanità. Ho cercato di individuare alcuni di questi archetipi – principalmente Prometeo, Ulisse e l’antichissima saga di Gilgameš, nonché talune loro reincarnazioni come Frankenstein – e di leggerli attraverso gli autori moderni che ne parlano, da Percy Bysshe Shelley alla moglie Mary Wollstonecraft Godwin, dal mio amatissimo James Joyce a Ezra Pound (tanto profondamente debitore di Dante e della tradizione letteraria italiana) per capire cos’hanno tuttora da dire alla contemporaneità.

Colpisce molto vedere come i testi moderni che rileggono i miti si intreccino con la scienza…

È precisamente questo il punto. I miti non sono, banalmente e semplicisticamente, la proiezione dell’“ombra lunga del passato”, ma ci obbligano sempre a confrontarci col futuro, e ci portano a riflettere su un fatto: la scienza e la tecnica stanno esorcizzando veramente il timore della morte e riescono effettivamente a combattere quella che ne è una delle manifestazioni essenziali, la malattia? Citerò soltanto alcuni esempi tra i tanti. Le civiltà mesopotamiche (creatrici dell’epica del semidio Gilgameš, la figura più incredibile della mitologia, un mix davvero inusuale, per due parti divinità e per la parte restante uomo) si rivelano, a loro modo, di una laicità straordinaria, lucida e sconsolata, e il loro eroe, in definitiva, va alla ricerca del segreto della vita; una chiave di lettura per la cui elaborazione devo molto a Giovanni Pettinato, impegnato in uno straordinario lavoro di ricostruzione filologica dei testi di quell’antichissima e lontana – solo temporalmente, beninteso – epoca.
La rivoluzione scientifica newtoniana percorre, insieme all’agnosticismo e all’ateismo, tutto il Prometeo liberato di Shelley, mentre il padre dell’evoluzionismo, Charles Darwin, fa capolino a più riprese in uno dei momenti centrali – il dialogo tra Leopold Bloom e Stephen Daedalus (il quale ha anche proclamato la “fine della metafisica” in mezzo alle prostitute di Mecklenburgh Street a Dublino) – in quella vetta assoluta del romanzo novecentesco che è l’Ulysses di Joyce.

E poi c’è Pound, un altro indefesso nemico delle metafisiche…

Già, un poeta attualissimo, soprattutto di questi tempi, nonché un personaggio che ha combattuto l’imperialismo americano, anche quando si è ammantato di nobili fini, per tutta la sua esistenza e che vale, al riguardo, assai più di dieci tomi di teoria politica messi insieme. Pound avvertiva la crisi di civiltà, invitandoci a “rimettere gli dei nella nostra mente” e, all’epoca, di fronte alla minaccia della guerra nucleare, si interrogava se gli uomini fossero all’altezza del progresso tecnico-scientifico e dei suoi doni, rispondendo di no. Tutte considerazioni che valgono perfettamente ai giorni nostri, mentre siamo ossessionati dal pericolo di una guerra biochimica. In poche parole, un uomo portatore di una straordinaria esperienza di liberazione, che sapeva condensare in sentenze fulminanti come: “Preferisco Disney a qualunque metafisica”. Una frase che sottoscriverei in pieno, permettendomi di sottolineare l’autentico valore gnoseologico dei fumetti. Una strip quale Topolino e la Banda Tubi, risalente agli anni ’30, ha la capacità di raccontare una fase storica (nella fattispecie, l’America di Roosevelt) in maniera ineguagliabile. Oggi, invece, ci tocca fare i conti con le due ultime, intollerabili, versioni della metafisica e del piagnisteo contemporaneo: il politically correct e il pensiero debole, che fiaccano la creatività del pensiero e lo conducono in un vicolo cieco.

Insieme all’epistemologia, il suo percorso è costellato di “bizzarrie” ed “eresie” di grande interesse: lo studio del ribellismo e, in particolare, del libertarismo, del protestantesimo radicale e della “rivoluzione puritana” di Oliver Cromwell (unito a un grande amore per l’Irlanda e le sue lotte di libertà) quali esperienze cui rifarsi per dare la “sveglia” alla sinistra italiana; Fuori orario di Rai 3 a fine anni ’80; e lo spettacolo teatrale I Cercatori. Dialoghi immaginari tra Socrate e Einstein, Jefferson e Machiavelli, Beckett e Kierkegaard, recitato da Giancarlo Dettori e Massimo Popolizio e tratto da un libro di Daniel J. Boorstin, di cui lei è coautore e che sta girando proprio in queste settimane. Qual è il legame tra queste esperienze?

Direi che il trait d’union risponde al nome di curiosità. Al riguardo, penso che ci possa essere una televisione intelligente, come quella che ha fatto una persona eccezionalmente brillante quale Enrico Grezzi, l’inventore insieme a Marco Giusti di Fuori orario, col quale ancora adesso ci telefoniamo di tanto in tanto alle 3 di notte per segnalarci qualche film. Ho amato Popper (pur essendo stato io allievo di un grande marxista quale Ludovico Geymonat, avventura intellettuale di cui, sia chiaro, non rinnego alcunché), ma mi stupisco ancor oggi di come la sua fama intellettuale nel nostro paese derivi fondamentalmente dal testo sulla “tv cattiva maestra”, anziché dalle sue opere maggiori. Di Popper penso si debba rivendicare il carattere di maestro di libertà – “si ha sempre il diritto di resistere a qualunque potere”, diceva – anche quando, divenuto baronetto, finì con l’essere identificato (peraltro non correttamente…) con l’establishment. I suoi due allievi più capaci – anche perché seguirono fino in fondo la sua lezione di contestazione dell’autorità – furono, non a caso, quelli più severi e meno indulgenti con lui, vale a dire Imre Lakatos e Paul Feyerabend, protagonisti nel 1973 di un dialogo sulla scienza e la filosofia che costituisce una delle pagine più intense e feconde della storia delle idee del ventesimo secolo.

 

 

 


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