Giulio Giorello,
uno dei principali (e più noti a livello internazionale)
filosofi italiani della scienza, fedele alla propria
vocazione di “eretico” della cultura italiana
si cimenta con un ambito apparentemente lontano dalla
sua amata epistemologia.
In Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure
del mito (Raffaello Cortina), l’autore –
che è, tra le altre cose, ordinario di Filosofia
della scienza all’università di Milano,
presidente della Società italiana di logica e
filosofia delle scienze e direttore della collana “Scienza
e Idee” di Cortina editore – rivela per
l’ennesima volta quei tratti di ecletticità
ed estrosità che lo rendono uno dei protagonisti
più originali della nostra cultura, oltre che
un amante delle contaminazioni tra i generi. Gli abbiamo
rivolto alcune domande.
Prof. Giorello, com’è che un filosofo
della scienza decide di consacrare un libro proprio
ai miti, espressione per eccellenza di quanto si considera
comunemente irrazionale?
Le potrei rispondere, di primo acchito, per il fatto
che, nella vita, ogni tanto si ha voglia di cambiare,
e dopo tanti volumi specialistici di epistemologia sentivo
che era giunto finalmente il momento. Più seriamente,
ritengo che la dimensione scientifica non escluda le
altre, e certamente non quella mitica, che l’ha
preceduta. La razionalità filosofica non ha eliminato
l’esigenza di queste figure mitiche che definiscono
il nostro essere nel mondo ed esprimono un bisogno e
delle aspirazioni insopprimibili dell’umanità.
Ho cercato di individuare alcuni di questi archetipi
– principalmente Prometeo, Ulisse e l’antichissima
saga di Gilgameš, nonché talune loro reincarnazioni
come Frankenstein – e di leggerli attraverso gli
autori moderni che ne parlano, da Percy Bysshe Shelley
alla moglie Mary Wollstonecraft Godwin, dal mio amatissimo
James Joyce a Ezra Pound (tanto profondamente debitore
di Dante e della tradizione letteraria italiana) per
capire cos’hanno tuttora da dire alla contemporaneità.
Colpisce molto vedere come i testi moderni che rileggono
i miti si intreccino con la scienza…
È precisamente questo il punto. I miti non sono,
banalmente e semplicisticamente, la proiezione dell’“ombra
lunga del passato”, ma ci obbligano sempre a confrontarci
col futuro, e ci portano a riflettere su un fatto: la
scienza e la tecnica stanno esorcizzando veramente il
timore della morte e riescono effettivamente a combattere
quella che ne è una delle manifestazioni essenziali,
la malattia? Citerò soltanto alcuni esempi tra
i tanti. Le civiltà mesopotamiche (creatrici
dell’epica del semidio Gilgameš, la figura
più incredibile della mitologia, un mix davvero
inusuale, per due parti divinità e per la parte
restante uomo) si rivelano, a loro modo, di una laicità
straordinaria, lucida e sconsolata, e il loro eroe,
in definitiva, va alla ricerca del segreto della vita;
una chiave di lettura per la cui elaborazione devo molto
a Giovanni Pettinato, impegnato in uno straordinario
lavoro di ricostruzione filologica dei testi di quell’antichissima
e lontana – solo temporalmente, beninteso –
epoca.
La rivoluzione scientifica newtoniana percorre, insieme
all’agnosticismo e all’ateismo, tutto il
Prometeo liberato di Shelley, mentre il padre
dell’evoluzionismo, Charles Darwin, fa capolino
a più riprese in uno dei momenti centrali –
il dialogo tra Leopold Bloom e Stephen Daedalus (il
quale ha anche proclamato la “fine della metafisica”
in mezzo alle prostitute di Mecklenburgh Street a Dublino)
– in quella vetta assoluta del romanzo novecentesco
che è l’Ulysses di Joyce.
E poi c’è Pound, un altro indefesso
nemico delle metafisiche…
Già, un poeta attualissimo, soprattutto di questi
tempi, nonché un personaggio che ha combattuto
l’imperialismo americano, anche quando si è
ammantato di nobili fini, per tutta la sua esistenza
e che vale, al riguardo, assai più di dieci tomi
di teoria politica messi insieme. Pound avvertiva la
crisi di civiltà, invitandoci a “rimettere
gli dei nella nostra mente” e, all’epoca,
di fronte alla minaccia della guerra nucleare, si interrogava
se gli uomini fossero all’altezza del progresso
tecnico-scientifico e dei suoi doni, rispondendo di
no. Tutte considerazioni che valgono perfettamente ai
giorni nostri, mentre siamo ossessionati dal pericolo
di una guerra biochimica. In poche parole, un uomo portatore
di una straordinaria esperienza di liberazione, che
sapeva condensare in sentenze fulminanti come: “Preferisco
Disney a qualunque metafisica”. Una frase che
sottoscriverei in pieno, permettendomi di sottolineare
l’autentico valore gnoseologico dei fumetti. Una
strip quale Topolino e la Banda Tubi, risalente
agli anni ’30, ha la capacità di raccontare
una fase storica (nella fattispecie, l’America
di Roosevelt) in maniera ineguagliabile. Oggi, invece,
ci tocca fare i conti con le due ultime, intollerabili,
versioni della metafisica e del piagnisteo contemporaneo:
il politically correct e il pensiero debole,
che fiaccano la creatività del pensiero e lo
conducono in un vicolo cieco.
Insieme all’epistemologia, il suo percorso
è costellato di “bizzarrie” ed “eresie”
di grande interesse: lo studio del ribellismo e, in
particolare, del libertarismo, del protestantesimo radicale
e della “rivoluzione puritana” di Oliver
Cromwell (unito a un grande amore per l’Irlanda
e le sue lotte di libertà) quali esperienze cui
rifarsi per dare la “sveglia” alla sinistra
italiana; Fuori orario di Rai 3 a fine anni
’80; e lo spettacolo teatrale I Cercatori.
Dialoghi immaginari tra Socrate e Einstein, Jefferson
e Machiavelli, Beckett e Kierkegaard, recitato
da Giancarlo Dettori e Massimo Popolizio e tratto da
un libro di Daniel J. Boorstin, di cui lei è
coautore e che sta girando proprio in queste settimane.
Qual è il legame tra queste esperienze?
Direi che il trait d’union risponde
al nome di curiosità. Al riguardo, penso che
ci possa essere una televisione intelligente, come quella
che ha fatto una persona eccezionalmente brillante quale
Enrico Grezzi, l’inventore insieme a Marco Giusti
di Fuori orario, col quale ancora adesso ci
telefoniamo di tanto in tanto alle 3 di notte per segnalarci
qualche film. Ho amato Popper (pur essendo stato io
allievo di un grande marxista quale Ludovico Geymonat,
avventura intellettuale di cui, sia chiaro, non rinnego
alcunché), ma mi stupisco ancor oggi di come
la sua fama intellettuale nel nostro paese derivi fondamentalmente
dal testo sulla “tv cattiva maestra”, anziché
dalle sue opere maggiori. Di Popper penso si debba rivendicare
il carattere di maestro di libertà – “si
ha sempre il diritto di resistere a qualunque potere”,
diceva – anche quando, divenuto baronetto, finì
con l’essere identificato (peraltro non correttamente…)
con l’establishment. I suoi due allievi
più capaci – anche perché seguirono
fino in fondo la sua lezione di contestazione dell’autorità
– furono, non a caso, quelli più severi
e meno indulgenti con lui, vale a dire Imre Lakatos
e Paul Feyerabend, protagonisti nel 1973 di un dialogo
sulla scienza e la filosofia che costituisce una delle
pagine più intense e feconde della storia delle
idee del ventesimo secolo.
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