“Lisbonne
est abîmée, et l’on danse à
Paris”: questo il passaggio più celebre
del poema che Voltaire scrisse tempestivamente sul terremoto
che rase al suolo Lisbona il 1 novembre 1755. Le rovine
della città diventano metaforicamente quelle
del migliore dei mondi possibili, contro il cui ottimismo
Voltaire postula l’insensatezza della catastrofe
naturale e l’esistenza del male nel mondo. Un
punto su cui Rousseau non è d’accordo,
fedele alla provvidenza universale e propenso a gettare
le responsabilità sull’uomo piuttosto che
su Dio. Imperturbabile invece il giovane Kant, cui non
importa altro che osservare scientificamente i fenomeni
orogenetici e la loro correlazione al fine di formulare
una legge di propagazione dei terremoti e di calcolare
l’intervallo tra quiete e conflagrazione.
Tuttavia il pedante rigore del suo argomentare è
poca cosa davanti allo spietato raziocinio con cui sostiene
la necessità del terremoto nonché una
sorta di economia naturale della catastrofe dove i fenomeni
positivi e negativi si compensano. “E di fronte
all’evidenza di tanta utilità basterà
il danno prodotto al genere umano dalle saltuarie sventure
che comporta per esimerci dalla gratitudine che dobbiamo
alla Provvidenza per tutto ciò che ha disposto?”
(citiamo dall’utile e dettagliata antologia, arricchita
da un soverchiante apparato di note, curata da Andrea
Tagliapietra, Sulla catastrofe. L’illuminismo
e la filosofia del disastro, Bruno Mondadori, Milano,
2004, pp. 151).
La catastrofe lusitana metteva insomma in crisi la
credenza in un ordine razionale della natura e scuoteva
i fondamenti della modernità europea, “sorgeva
in un mondo in cui si discuterà sempre meno di
peccato e di colpa” sostiene Tagliapietra “e
sempre più di catastrofe e di rischio”.
Ora, se costituì verosimilmente “l’ultima
significativa protesta contro l’ingiustizia divina,
che di lì a poco sarebbe diventata intellettualmente
irrilevante”, se “da allora in poi, la responsabilità
delle nostre sofferenze fu cercata esclusivamente in
noi” (J. Shklar), a quale sfida della ragione
ci sottopone brutalmente il maremoto nel Sud Est asiatico
del 26 dicembre 2004? Il pensiero sembra disorientato,
come dimostra, fra tanti, questo oscuro passaggio di
Emanuele Severino: “Il cataclisma radicale è
avvenuto all’inizio, cioè quando la volontà
ha inteso trasformare il mondo, ottenendo un risultato
per cui le cose sono altre da ciò che erano in
origine” (Il Corriere della Sera, 29
dicembre).
In realtà, come Lisbona è un evento iscrivibile
all’interno dell’Illuminismo, lo tsunami
si trasforma in un sintomo apocalittico che mette a
nudo la logica e le contraddizioni della globalizzazione,
come i fatti successivi al 26 dicembre indicano bene.
Da una parte la mancanza di una politica di sicurezza
e di prevenzione, di un sistema antisismico di misurazione
delle onde e di addestramento alle evasioni, come in
Giappone o alle Hawaii; dall’altra l’incapacità
di contattare la Protezione civile o le autorità
competenti di quanto le immagini satellitari mostravano
sette ore prima della tragedia. Da una parte le polemiche
nella gestione dei soccorsi - tanto all’interno
della Ue che a livello internazionale (Cina, India,
Usa) – o negli aiuti stanziati dagli Stati Uniti
(pari a quelli necessari a due giorni di guerra in Irak);
dall’altra la lentezza dei rifornimenti di beni
di prima necessità nei villaggi senza infrastrutture
(non è paradossale che un paese dove la mancanza
di acqua potabile resta una delle maggiori cause di
mortalità infantile, sia stato distrutto da questo
stesso elemento?), per non citare la risibile moratoria
del debito pubblico estero dei paesi più colpiti.
Si è persino messa in causa l’eccessiva
urbanizzazione delle coste del continente indiano, una
critica che Rousseau muoveva a Lisbona già due
secoli e mezzo fa.
Disastro sociale più che naturale dunque? Ignacio
Ramonet si chiede persino se sia ancora sensato parlare
di catastrofi “naturali” (Il Manifesto,
6 gennaio), visto che l’impatto di un maremoto
varia a seconda che si manifesti nell’Oceano Atlantico
o in quello Indiano. Tuttavia è proprio questa
natura a resistere a ogni ulteriore analisi, una natura
che, a meno di venir dissolta nella sfera della cultura,
resta un’incognita del pensiero. Lo scatenamento
dello tsunami infatti - quid della questione, oggi come
ieri - non è l’effetto di nessuna causa,
di nessun agire umano: non è imputabile a nessun
disequilibrio prodotto dalla tecnica. Per il pensiero
la natura resta insondabile – come i movimenti
tellurici del fondo marino – chiusa nella sua
crudele indifferenza, nell’affermazione della
sua sovranità assoluta. Pochi del resto la sanno
ormai leggere, come quegli isolati indigeni delle isole
Andamane e Nicobar (che hanno persino rifiutato, a suon
di frecce, i viveri portati da un elicottero indiano!),
che sono infatti riusciti a scampare il pericolo, prevedendo
il maremoto grazie ad un arcaico sistema di rilevazione
quale l’osservazione del comportamento degli animali.
Sulla scia di Ramonet, Vandana Shiva considera il disastro
ambientale come un monito verso le attuali politiche
economiche mondiali: il surriscaldamento del clima è
direttamente responsabile dell’alzamento del livello
del mare. Può sorprendere ma anche il Papa tiene
insieme calamità naturali e agire politico: nel
discorso tenuto al Corpo diplomatico presso la Santa
Sede il 10 gennaio, elenca la catastrofe assieme “ad
altre tragedie che hanno offuscato il 2004” fra
cui il terrorismo - Madrid e Beslan, Iraq e Darfur –
rinnovando infine la fede in un Dio senza ira, pur nel
dolore e nella morte. Già, “E Dio, in tutto
questo?”, così Elie Wiesel in chiusura
di un suo intervento (La Repubblica, 30 dicembre).
Se oggi molti ritengono vuota la domanda “Perché,
Dio?”, altrettanto disarmante è chiedersi,
semplicemente, “Perché?”. Uno scrittore
ebraico ha detto una volta che Dio è e rinasce
inesauribilmente nell’interrogazione – la
voce del pensiero vorrebbe articolare altrimenti questa
vertigine.
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