270 - 28.01.05


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La filosofia davanti alla catastrofe
Riccardo Venturi


“Lisbonne est abîmée, et l’on danse à Paris”: questo il passaggio più celebre del poema che Voltaire scrisse tempestivamente sul terremoto che rase al suolo Lisbona il 1 novembre 1755. Le rovine della città diventano metaforicamente quelle del migliore dei mondi possibili, contro il cui ottimismo Voltaire postula l’insensatezza della catastrofe naturale e l’esistenza del male nel mondo. Un punto su cui Rousseau non è d’accordo, fedele alla provvidenza universale e propenso a gettare le responsabilità sull’uomo piuttosto che su Dio. Imperturbabile invece il giovane Kant, cui non importa altro che osservare scientificamente i fenomeni orogenetici e la loro correlazione al fine di formulare una legge di propagazione dei terremoti e di calcolare l’intervallo tra quiete e conflagrazione.

Tuttavia il pedante rigore del suo argomentare è poca cosa davanti allo spietato raziocinio con cui sostiene la necessità del terremoto nonché una sorta di economia naturale della catastrofe dove i fenomeni positivi e negativi si compensano. “E di fronte all’evidenza di tanta utilità basterà il danno prodotto al genere umano dalle saltuarie sventure che comporta per esimerci dalla gratitudine che dobbiamo alla Provvidenza per tutto ciò che ha disposto?” (citiamo dall’utile e dettagliata antologia, arricchita da un soverchiante apparato di note, curata da Andrea Tagliapietra, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, Bruno Mondadori, Milano, 2004, pp. 151).

La catastrofe lusitana metteva insomma in crisi la credenza in un ordine razionale della natura e scuoteva i fondamenti della modernità europea, “sorgeva in un mondo in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa” sostiene Tagliapietra “e sempre più di catastrofe e di rischio”. Ora, se costituì verosimilmente “l’ultima significativa protesta contro l’ingiustizia divina, che di lì a poco sarebbe diventata intellettualmente irrilevante”, se “da allora in poi, la responsabilità delle nostre sofferenze fu cercata esclusivamente in noi” (J. Shklar), a quale sfida della ragione ci sottopone brutalmente il maremoto nel Sud Est asiatico del 26 dicembre 2004? Il pensiero sembra disorientato, come dimostra, fra tanti, questo oscuro passaggio di Emanuele Severino: “Il cataclisma radicale è avvenuto all’inizio, cioè quando la volontà ha inteso trasformare il mondo, ottenendo un risultato per cui le cose sono altre da ciò che erano in origine” (Il Corriere della Sera, 29 dicembre).

In realtà, come Lisbona è un evento iscrivibile all’interno dell’Illuminismo, lo tsunami si trasforma in un sintomo apocalittico che mette a nudo la logica e le contraddizioni della globalizzazione, come i fatti successivi al 26 dicembre indicano bene. Da una parte la mancanza di una politica di sicurezza e di prevenzione, di un sistema antisismico di misurazione delle onde e di addestramento alle evasioni, come in Giappone o alle Hawaii; dall’altra l’incapacità di contattare la Protezione civile o le autorità competenti di quanto le immagini satellitari mostravano sette ore prima della tragedia. Da una parte le polemiche nella gestione dei soccorsi - tanto all’interno della Ue che a livello internazionale (Cina, India, Usa) – o negli aiuti stanziati dagli Stati Uniti (pari a quelli necessari a due giorni di guerra in Irak); dall’altra la lentezza dei rifornimenti di beni di prima necessità nei villaggi senza infrastrutture (non è paradossale che un paese dove la mancanza di acqua potabile resta una delle maggiori cause di mortalità infantile, sia stato distrutto da questo stesso elemento?), per non citare la risibile moratoria del debito pubblico estero dei paesi più colpiti. Si è persino messa in causa l’eccessiva urbanizzazione delle coste del continente indiano, una critica che Rousseau muoveva a Lisbona già due secoli e mezzo fa.

Disastro sociale più che naturale dunque? Ignacio Ramonet si chiede persino se sia ancora sensato parlare di catastrofi “naturali” (Il Manifesto, 6 gennaio), visto che l’impatto di un maremoto varia a seconda che si manifesti nell’Oceano Atlantico o in quello Indiano. Tuttavia è proprio questa natura a resistere a ogni ulteriore analisi, una natura che, a meno di venir dissolta nella sfera della cultura, resta un’incognita del pensiero. Lo scatenamento dello tsunami infatti - quid della questione, oggi come ieri - non è l’effetto di nessuna causa, di nessun agire umano: non è imputabile a nessun disequilibrio prodotto dalla tecnica. Per il pensiero la natura resta insondabile – come i movimenti tellurici del fondo marino – chiusa nella sua crudele indifferenza, nell’affermazione della sua sovranità assoluta. Pochi del resto la sanno ormai leggere, come quegli isolati indigeni delle isole Andamane e Nicobar (che hanno persino rifiutato, a suon di frecce, i viveri portati da un elicottero indiano!), che sono infatti riusciti a scampare il pericolo, prevedendo il maremoto grazie ad un arcaico sistema di rilevazione quale l’osservazione del comportamento degli animali.

Sulla scia di Ramonet, Vandana Shiva considera il disastro ambientale come un monito verso le attuali politiche economiche mondiali: il surriscaldamento del clima è direttamente responsabile dell’alzamento del livello del mare. Può sorprendere ma anche il Papa tiene insieme calamità naturali e agire politico: nel discorso tenuto al Corpo diplomatico presso la Santa Sede il 10 gennaio, elenca la catastrofe assieme “ad altre tragedie che hanno offuscato il 2004” fra cui il terrorismo - Madrid e Beslan, Iraq e Darfur – rinnovando infine la fede in un Dio senza ira, pur nel dolore e nella morte. Già, “E Dio, in tutto questo?”, così Elie Wiesel in chiusura di un suo intervento (La Repubblica, 30 dicembre). Se oggi molti ritengono vuota la domanda “Perché, Dio?”, altrettanto disarmante è chiedersi, semplicemente, “Perché?”. Uno scrittore ebraico ha detto una volta che Dio è e rinasce inesauribilmente nell’interrogazione – la voce del pensiero vorrebbe articolare altrimenti questa vertigine.

 


 

 

 

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