269 - 07.01.05


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Parigi, il mito, la rappresentazione
Luca Sebastiani


Fourmillante Cité, cité pleine de rêves,
Ou le spectre en plein jour raccroche le passant !
Les mystères partout coulent comme des sèves
Dans les canaux étroits du colosse puissant.

(Charles Baudelaire, Les sept vieillards, in Les fleurs du Mal)

Città brulicante, piena di sogni, dove
In pieno giorno gli spettri adescano i passanti!
Nel colosso possente, per le vene
come umori vischiosi colano i misteri.
(trad. Giovanni Raboni, Einaudi 1999)

A proposito di Parigi si può certamente parlare di mito. Questa città, come altre e più di altre, è una fonte infinita di rappresentazioni. Entrarci vuol dire passare per una foresta di segni “che lanciano occhiate familiari” (Baudelaire), essere avvolti da una rete di corrispondenze. Corrispondenze tra la Parigi reale e quella rappresentata, tra la Parigi materiale, delle strade, e la Parigi come Idea, principio spirituale. Parigi è una, unica, ma allo stesso tempo molteplice. La sua è una struttura composita, mobile e ritmica, che le permette d’essere bina, divisa in due, una parte opposta all’altra; che la fa funzionare pienamente come congegno mitologico. Parigi dell’ombra e Parigi della luce, Parigi del giorno e Parigi della notte, Parigi dell’opulenza e Parigi della miseria, Parigi capitale del Capitale e Parigi capitale della Rivoluzione, Parigi aerea e Parigi sotterranea…

Paris change ! mais rien dans ma mélancolie
N’a bougé ! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
(Charles Baudelaire, Le cygne, in Les fleurs du Mal)

Parigi cambia! ma niente, nella mia melanconia,
s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature,
case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria;
pesano come rocce i ricordi che amo.

Certo la Storia; ma sono la letteratura e la scrittura nel senso più ampio che la sovradeterminano e fanno della città un oggetto mitico e a sua volta produttore di segni autonomi, leggibili a livello storico e allegorico. “Parigi è la grande sala di lettura di una biblioteca che attraversa la Senna” scrive Walter Benjamin in Senso unico e ancora, in Parigi capitale del XIX secolo: “Per la prima volta in Baudelaire Parigi diviene oggetto di poesia lirica”.

Le Paris que vous aimâtes
N’est pas celui que nous aimons
Et nous nous dirigeons sans hâte
Vers celui que nous oublierons
(
Raymond Queneau, Les Ziaux)

La Parigi che voi amaste
Non è quella che amavamo noi
E ci dirigiamo senza fretta
Verso quella che dimenticheremo

Scrivere di Parigi è scrivere a proposito del tempo. Nel giugno 1830, fa notare Benjamin, i rivoluzionari per le strade spararono sugli orologi, fermarono il tempo per rinnovarlo altrove. Tempo sospeso che si sottrae al tempo nello spazio dell’utopia o della rivoluzione. Tempo abbandonato al tempo e arrestato dalla morte. Tempo che rinvia in permanenza a quello che fu, che si consuma, che si corrode, fonte infinita di malinconia.

La morte a Parigi è una delle forme della vita di Parigi
(Jules Clarétie)

La morte è al cuore delle rappresentazioni di Parigi. Scrive Balzac: “il sole dei morti non tramonta mai”. E Queneau nel 1967: “tutta questa città è piena di morti”. Morte dei grandi personaggi commentata dai grandi personaggi. Spettacolo della morte-supplizio con le esecuzioni pubbliche, con la ghigliottina per la strada, all’ingresso delle prigioni dove si accalca il mondo per guardare da vicino il sangue, la morte dei re e del tempo che fu.
I cimiteri, infine: territori della morte ordinata e celebrata, città nella città, spazi separati ma prossimi. Come a Père Lachaise o a Montparnasse o a Montmartre.

Non è vero! La razza, quel che chiami così, è solo questa grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, che son cascati qui inseguiti da fame, peste, tumori e freddo arrivati già vinti dai quattro angoli della terra. Potevano mica andare più in là perché c’era il mare. È questo la Francia, questo sono i francesi.
(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

Parigi è un mito e funziona nella sua dualità contraddittoria. “Bordello del mondo e mecca della cultura d’élite” (Julien Gracq). Parigi e Versailles. La Corte, con i suoi corollari d’ufficialità, grandezza, fasto, accademismo cartesiano e la Città, popolare, oscura, chiassosa, disordinata, sordida.

C’è un mito di Parigi… nato dopo il 1789 e soprattutto dopo il 1830 (prima del 1789 “la Città” non era che un’ombra di Versailles e de “la Corte”) sotto una forma politica e bellicosa, il mito di Parigi-luce-delle-rivoluzioni… di Parigi sempre pronta a sollevare le barricate, che sono il simbolo dinamico, esplosivo, della città.
(Julian Gracq, En lisant, en écrivant)

Una contraddizione che è dialettica, Storia; che fa di Parigi nel 1789 e poi nel 1830, nel 1848, nel 1871 e da lì fino al 1968, la città della rivoluzione, la città dove il popolo è sempre pronto a scendere in strada a tirar su barricate. La città dove il concetto stesso di popolo si è materializzato, fatto volontà generale e mito.
Una contraddizione, quella tra la Corte e la Città, che la Versailles di Napoleone III, ormai fantasma di se stessa, proverà a piegare a proprio favore cercando di riportare la prima nella seconda. Il compito verrà assegnato a Haussmann che opererà un “abbellimento strategico” con i boulevards; riproduzione delle prospettive fastose e cartesiane dei giardini di Versailles e allo stesso tempo strumento funzionale alla repressione dei moti rivoluzionari. “Il vero obiettivo dei lavori di Haussmann fu la protezione della città contro la guerra civile. Voleva rendere impossibile l’erezione di barricate a Parigi. La larghezza dei boulevards doveva interdirne la costruzione e le loro nuove prospettive dovevano accorciare la distanza tra le caserme e i quartieri operai” (Benjamin).

Ils traversent ainsi le noir illimité,
Ce frère du silence éternel. Ô cité !
Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles
,

Éprise du plaisir jusqu’à l’atrocité,
Vois ! je me traîne aussi ! mais, plus qu’eux hébété
Je dis : Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles ?
(Charles Baudelaire, Les aveugles, in Les fleurs du Mal)

È così che camminano nel nero illimitato,
che del silenzio è fratello. O città!
Mentre a noi tutt’intorno tu canti, sbraiti e ridi

Atrocemente presa dal piacere,
anch’io, vedi, mi trascino! Ma, più ebete di loro,
dico: cosa mai cercano, tutti quei cechi, in Cielo?

Ma i boulevards creano, anche, “un nuovo scenario fondamentale: uno spazio in cui poter essere soli in pubblico” (Marshall Barman). L’isolamento avviene esattamente nel momento in cui migliaia d’individui si trovano quotidianamente fianco a fianco, nello stesso flusso d’energia, di velocità. Gli spazi aperti sostituiscono i vecchi quartieri medievali, con la loro antica povertà, le case accostate caoticamente, umili e prive di luce. I vasti vuoti dei boulevards vengono riempiti dagli individui e fa la sua comparsa la Folla, nella quale mentre si vede si è visti. In quelle ampiezze, sotto le luci scintillanti, non c’è modo di distogliere lo sguardo. Compare il tipo della modernità e la “deriva psicogeografica” (Internazionale situazionista): “è lo sguardo del flâneur che cerca rifugio nella folla. La folla è il velo attraverso il quale la città familiare si muta per il flâneur in fantasmagoria” (Benjamin). Fantasmagoria del Capitale, fantasmagoria della merce, fantasmagoria della modernità. Parigi capitale del XIX secolo (Bejamin), è l’archeologia del Moderno, è l’analogia, l’omologia, e tant’altro ancora…

De loin, le remorqueur a sifflé; son appel a passé le pont, encore une arche, une autre, l’écluse, un autre pont, plus loin… Il appelait vers lui toutes les péniches du fleuve, toutes, et la ville entière, et le ciel et la campagne, et nous, tout qu’il emmenait, la Seine aussi, tout, qu’on n’en parle plus.
(Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit)

Lontano il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano… Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume, tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più.

 

 


 

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