La
mappa della metropolitana di Londra è falsa.
Sì perché nel tentativo di dare un’immagine
comprensibile ed esaustiva della città, gli spazi
e le distanze sono stati compressi senza seguire alcuna
scala. Niente di meglio che un’astrazione, dunque,
si è potuto fare per riassumere la città
dai mille volti. Numerosi sono stati i tentativi di
catalogare e tracciare mappe di quella City che per
definizione mal si presta a simili operazioni. E allora
via le Rough Guide, dimenticatevi delle Lonely Planet
e mettetevi sulle orme di autori come Iain Sinclair
(Lights out for the territory, purtroppo non
tradotto in Italia) e Michael Moorcock (Madre Londra,
Fanucci, pag. 512), dalla parte del territorio piuttosto
che da quella delle mappe, seguendo le impressioni frammentate
dello stroller - letteralmente il “passeggiatore”
– più che la visione d’insieme del
cartografo. Esiste, infatti, un modo di vedere la città
come un testo, un sistema di segni che adeguatamente
decifrati rendono visibile l’invisibile. La psicogeografia,
inventata dall'Internazionale Situazionista negli anni
Cinquanta per criticare l’urbanismo, è
oggi un tipo d’indagine usata da artisti, pensatori
radicali, e, a livello accademico, professori di geografia;
è una ricerca che si serve di metodi non scientifici
come la deriva, ovvero vagare senza meta cercando
di captare le emozioni suscitate dall’ambiente.
Chiunque
vada a passeggio per una città, dunque, può
assumere la veste di “psicogeografo” e tracciare
la cartografia delle proprie emozioni. Quelle, ad esempio,
che ti colgono a Bloomsbury quando, ancora sulle tracce
di Virginia Woolf e del suo circolo letterario, svolti
l’angolo di Russel Square e ti trovi di fronte
alla maestosità del British Museum; oppure dal
caffè della Tate Modern quando contempli il mistero
del Millennium Bridge - il ponte più sottile
del mondo -; o ancora quando ti aggiri affamato per
Chinatown esaminando centinaia di menù incomprensibili.
Recentemente è stata tradotta in italiano la
biografia di Londra di Peter Ackroyd (Londra,
Frassinelli, pag. 704) già best seller nel Regno
Unito: è un’opera vastissima che riporta
alla luce migliaia di figure, edifici, storie, dettagli,
testimonianze, interpretazioni attraversando storie
e leggende che si nascondono dietro ogni strada e vicolo
della capitale.
E se vi affascinano i complotti massonici, e non siete
facilmente suggestionabili, una cosa da fare assolutamente
è ricostruire il percorso dei delitti di Whitechapel
con una copia di From Hell (di Alan Moore,
editore Magic Press) alla mano: mentre uno dei più
grandi fumettisti inglesi di tutti i tempi formula un’ipotesi
sulla vera identità di Jack lo Squartatore, sullo
sfondo si agita una Londra cupa, messa a punto da architetti
occulti e massoni lungo diverse epoche, in cui ogni
piccolo dettaglio (dalla schiacciante cupola di St.Paul
ai cavalli d’ottone montati su ogni carrozza)
rende testimonianza della oscura magia sottesa alla
città. Il percorso nella Londra occulta potrebbe
poi continuare alla ricerca delle sei chiese che l’architetto
Nicholas Hawksmoor costruì nei quartieri dell’East
End, e che sia Ackroyd che Sinclair ritengono siano
avvolte da un potere maligno.
Se invece, come William Gibson, credete che le cospiracy
theories e l’occulto servono a confortare
l’uomo perché presentano un mondo più
facilmente comprensibile del mondo reale, allora cedete
al romanticismo della Londra upper-middle class
delle commedie di Richard Curtis e passate da Notting
Hill (ma non cercate la libreria dell’omonimo
film con Hugh Grant, intanto perché l’hanno
chiusa e poi perché vi prenderebbero per i soliti
italiani), oppure risalite per Holloway Road in direzione
dello stadio dell’Arsenal: se siete fortunati,
troverete il “thirty-something” Nick Hornby,
orfano del suo stadio (che hanno spostato di qualche
chilometro) ma non del suo studio che è sempre
lì nella “sofisticata Islington”,
tra una kebab house e un cinema riservato alla programmazione
asiatica, abitata dalla “chattering class”
(o settore dei media) protagonista dei suoi romanzi.
Tra gli altri autori che hanno fatto di Londra il
centro della loro poetica, Hanif Kureishi non è
pop-rock come Michael Moorcock, né un instancabile
camminatore sciamanico come Iain Sinclair né
mitologico-apocalittico come Alan Moore, ma è
stato lo specchio della comunità asiatica londinese
degli anni ’60 e ‘70. Di padre pakistano
e madre inglese, ha documentato la popolazione che vive
ai margini della città, la cui immigrazione ha
cambiato la consistenza sociale di molti quartieri e
ne ha descritto la difficoltà a trovare un senso
di appartenenza. I suoi protagonisti sono giovani di
bassa estrazione sociale, privati dei loro diritti,
immigrati da ex colonie britanniche, intellettuali sinistroidi,
omosessuali e quegli individui che attraversano trasversalmente
classi, etnie e confini sessuali.
Qualunque percorso decidiate di fare a seconda del mood
che vi accompagna, alla fine del giro e sulle immancabili
note di A foggy day (in London town) vi accorgerete
che, nella metropoli delle diversità, la nebbia,
non c’è neanche più…
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