Quante volte abbiamo viaggiato in luoghi lontani attraverso
le immagini che ci appaiono sul grande schermo? Siamo
stati in Vietnam con Apocalypse Now e nel Far
West con gli spaghetti western di Sergio Leone - o almeno
così abbiamo creduto, finché qualche guastafeste
non ci ha informato che il Cuore di tenebra
di Coppola è stato ricreato nelle Filippine e
che Leone girava in Ciociaria. Il bello del cinema è
proprio questo: non farci conoscere il mondo come è,
ma come qualcuno l'ha immaginato, facendo leva sia sulle
nostre attese che sulla nostra ingenuità.
Per questo anche le metropoli europee sono state rilette
dal cinema in modo al contempo originale e folcloristico,
come città dell'anima e insieme come capitali
dell'immaginario collettivo. Di solito, succede quando
è uno "straniero" a descrivere cinematograficamente
un certo luogo, qualcuno estraneo alla realtà
quotidiana di quell'ambiente, ma suggestionato dal suo
fascino, così come è stato codificato
nel tempo e nella fantasia della gente.
La Parigi di Moulin Rouge, ricreata dall'australiano
Baz Luhrman, è un misto fra un quadro di Toulouse-Lautrec
e una di quelle peccaminose cartoline che, nei primi
anni del secolo, facevano da antesignane alle riviste
pornografiche di oggi. Una Parigi bohemienne che era
già apparsa nei musical di Vincente Minnelli
e nei melodrammi di Richard Brooks, una ville lumière
dove le luci, anche quelle dei lampioni dei quay, erano
sempre rifettori di scena.
La Londra di La vera storia di Jack lo Squartatore
è la stessa dei tanti Doctor Jekyll
immaginati dal cinema americano dagli anni Venti ai
giorni nostri, la stessa del Dracula di Coppola: nebbiosa,
equivoca, a metà strada fra il rigore puritano
e la perversione nascosta - di qui il proliferare di
mostri dalla doppia identità, pronti a tirare
fuori il proprio lato oscuro alla luce offuscata dei
lampioni che, non più riflettori di scena, diventano,
nell'Inghilterra di inizio secolo, barlumi di verità
che attraversano una cortina di fumo.
La Vienna del cinema è ancora e sempre quella
della Principessa Sissi, nostalgicamente imperiale,
fastosa e dorata, nulla a che vedere con la vera capitale
austriaca che, pur bellissima, è essenziale ed
austera. Lisbona al cinema è un mito musicale
(Lisbon Story di Wim Wenders), Ginevra è
un paradigma di precisione e di esasperante pulizia
esteriore (Film rosso di Kieslowski). Madrid
è la capitale dell'equivoco dei film di Almodòvar,
un caotico coacervo di identità ambigue e conflittuali.
Berlino non è una realtà urbana ma un
simbolo: di degrado morale (Berlin Alexanderplatz
di Fassbinder), di devastazione postbellica (Germania
anno zero di Rossellini), di fantasmagoriche possibilità
(Il cielo sopra Berlino di Wenders).
Infine Roma è raccontata nel modo più
indelebile da due "provinciali", l'emiliano
Fellini e il friulano Pasolini, che ne innalzano a mito
cinematografico principalmente i difetti: la cialtroneria
in Fellini, la "coattaggine" in Pasolini.
Niente a che vedere con la Roma oleografica raccontata
dai film americani, o quella, altrettanto stereotipata,
dei Poveri ma belli anni '50.
Nessuna di queste città immaginarie è
esattamente quella che è, ma è quella
che ci aspettiamo, che il cinema ha creato per noi,
e che adesso si sovrappone alla realtà, qualche
volta obliterandola. Tant'è vero che, quando
vediamo sul grande schermo una città diversa
da quella che ci è stata raccontata, magari più
vera (un esempio per tutti: la Milano mitteleuropea
di L'aria serena dell'Ovest), fatichiamo a
riconoscerla, e quasi quasi, ci rimaniamo male.
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