Chissà
se aveva immaginato di morire così, Manuel Vàzquez
Montalban, con l’immagine di un luogo pullulante
di vite, tratti somatici, odori, rumori così
diversi negli occhi. Forse l’aereoporto di Bangkok
(città che non a caso fa da sfondo al suo Gli
uccelli di Bangkok), un crocicchio di umanità
vociante piena di desideri e speranze, proiettate nel
viaggio imminente, è stato un letto di morte
più consono allo scrittore catalano, che ha eletto
le strette vie di Barcellona, affollate di prostitute,
poveri e immigrati, a luogo privilegiato dei suoi romanzi,
e del loro protagonista, l’ispettore privato Pepe
Carvalho: così catalano da soffrire d’insonnia
solo quando si reca nella “rivale” Madrid.
Barcellona, dunque, città aperta al Mediterraneo,
all’Europa, alla diversità e al tempo stesso
rinchiusa nella sua “barcellonità”.
“La gente sa che questa città è
una patria che ciascuno possiede tramite l’egemonia
della propria memoria. Molti sono nati qui. Altri sono
venuti da lontano. Ma questa memoria possessiva cominciò
il giorno in cui capirono, come gli antichi caldei,
che in sostanza il mondo terminava con le colline che
lo sguardo riusciva ad abbracciare”: così
scrive Montalban nell’ultima pagina del volume,
da lui definito una “cronaca soggettiva”,
dedicato a Barcellona (Barcelonas, trad. it. Leonardo,
1991).
Città simbolo delle contraddizioni della modernizzazione,
dove ai radicali cambiamenti urbani, sociali e culturali
– incarnati, nella visione di Montalban, dalle
Olimpiadi del 1992 – fanno da controcanto il persistere
della povertà e l’immigrazione massiccia.
“Ancora negli anni 80, in alcune zone di Barcellona
si potevano trovare le stalle con le mucche”,
scrive Quimarada nell’originale Piacere, Pepe
Carvalho. Biografia autorizzata dell’investigatore
più famoso di Spagna (Feltrinelli, 1997),
racconto della vita di Carvalho, attraverso gli scritti
di Montalban, talmente realistico e dettagliato nelle
date e negli eventi da farne un personaggio storico
completo, che stentiamo a credere esistito solo nella
fantasia letteraria dell’autore.
L’infanzia e l’adolescenza nella Barcellona
del dopoguerra, popolata di storpi e figure di miseria
e disperazione, in una Spagna dove i treni erano “stretti,
sporchi, duri, chi non trovava posto viaggiava seduto
sui bagagli”; il rapporto lacerato con il padre
in prigione per un lungo periodo e con la madre prematuramente
scomparsa; il distacco dalla città per una lunga
parentesi nel continente americano, dove il socialista
Carvalho diviene agente della Cia; infine il ritorno
negli anni Settanta nella sua città, che trova
cambiata e tuttavia sempre povera e sporca.
Di qui, “negli ultimi 25 anni, dal suo ufficio
nella Rambla, Pepe Carvalho è stato testimone
privilegiato della lenta trasformazione del Barrio Chino,
il quartiere che un giorno fu il suo paese dell’infanzia
e dove continua a conservare buona parte delle sue viscere
e dei suoi ricordi”, scrive sempre Quimirada.
In quest’area di Barcellona, “delimitata
dalla chiassosa Ramala, la commerciale calle Pelai,
le circonvallazioni di Sant Antoni e Sant Pau e una
parte dell’allora famoso e allegro Paral-lel”
si svolgono le vicende di Pepe e i suoi rapporti con
l’assistente e cuoco Biscuter e l’amante-prostituta
Charo.
La zona della città vecchia, “un pentagono
irregolare, tendente alla forma di un imbuto che trova
nel porto il suo sbocco naturale” continua ancora
oggi “a essere un territorio vago e perfino indesiderato,
lasciato sempre fuori dai passanti che ci girano attorno
con la timidezza propria di chi vorrebbe avere il coraggio
di fare un passo decisivo ma non riesce mai a farlo.
Anche se negli ultimi anni il municipio della città
ha realizzato a colpi di scavatrice una politica rigeneratrice
dai risultati notevoli, il mito di un quartiere marginale
pieno di delinquenza e prostituzione persiste nell’immaginario
collettivo di buona parte degli abitanti di Barcellona.
Se per anni l’unica destinazione comune accettata
da tutti era il mercato della Boquerìa, attualmente
l’orizzonte si è aperto con l’apparizione
di alcuni centri culturali e studenteschi” (Piacere,
Pepe Carvalho, pag. 27). Vecchi proletari senza
risorse, nuovi emigranti, pakistani e marocchini, studenti
e artisti ora popolano gli spazi abitati da Carvalho,
spingendo Montalban da un lato a denunciare l’ipocrisia
di chi vuol dare di Barcellona una immagine di solo
progresso, ignorandone le persistenti sacche di miseria,
dall’altro a sperare che la città non si
“normalizzi” troppo, perché il fascino
che da secoli essa ha sempre esercitato risiede nella
sua “promiscuità”.
Parlando qualche anno fa dei cambiamenti relativi alle
Olimpiadi del 1992, Montalban ha detto: “La città
vive una fase di transizione dal passato al futuro,
forse diventerà una metropoli ancora più
grande, forse muteranno i suoi rapporti col territorio
circostante. Ma, per il momento, si tratta di semplici
profezie senza riscontro. Intravedo fioche luci e ombre
scure. La maggior parte degli sforzi economici si sono
concentrati nella creazione di poderose infrastrutture
pro olimpiade, mentre i bisogni dei quartieri operai
e degli immigrati sono stati relegati in secondo piano,
in attesa di un tempo che forse non arriverà
mai”. E tuttavia è lo stesso autore che,
con gli occhi di Carvalho, guardando la sua Barcellona
cambiare, scrive: “di fronte, la chiesa di Santa
Monica portava segni evidenti della chirurgia estetica
che stava per trasformarla in museo d’arte contemporanea
di Catalogna, e, alle sue spalle, il piccone piombava
sul quartiere del Raval per aprire le strade da cui
evacuare i cattivi odori della droga e dell’Aids,
l’immigrazione del Maghreb e quella nera. Finché
ci saranno puttane giovani, ci sarà arte contemporanea,
si disse” (Il centravanti è stato assassinato
verso sera, Feltrinelli, 1993, pag. 28).
Da questa doppia consapevolezza scaturisce l’ironia
con cui Carvalho guarda a chi inneggia a una Barcellona
splendente, come lo zelante conferenziere Basté
de Linyola de Il centravanti è stato assassinato
verso sera: “Barcelona più che mai
e, Barcelona, fatti bella. Più che mai, perché
mai come ora possiamo spiccare un salto nel futuro messo
in moto dalla sfida olimpica, e Barcellona, fatti bella,
perché questa città sarà la vetrina
della Catalogna e della Spagna nel millenovecentonovantadue
ed è in gioco un’immagine pubblicitaria
nel gran mercato universale dell’immagine. E questo
compito va eseguito con serietà e responsabilità
democratica” (pag. 92).
Si tratta della stessa ironia che Montalban rivolge
a chi crede di poter afferrare la vita e rivolgerla
dall’interno, afferrandone l’essenza e mostrandola
nella sua chiarezza, senza indecisioni. Relatività,
ambiguità, nostalgia, sensazione di non poter
afferrare mai le cose: questi i sentimenti che accompagnano
i lettori di Carvalho, il detective che brucia i libri
nel camino, d’estate e d’inverno. E lo fa
proprio perché essi sono incapaci di insegnargli
a vivere.
Così, in una ironica citazione nella citazione
contenuta nel Il centravanti è stato assassinato
verso sera, Montalban gioca in parte a decostruire
se stesso, in quanto scrittore di libri, come se volesse
ricordarci che essi hanno senso solo se raccontano di
una dolente umanità, senza moralismi o anche
tentativi di decifrazione filosofica dell’esistenza:
“Carvalho gironzolò per le strade riconoscendo
tutto, passando in rassegna le strade della sua intera
vita, di quasi la sua vita intera, e tutto era proprio
a posto. Entrò persino nei negozietti di libri
usati e toccò quella cultura mummificata ricordando
vecchie esperienze tattili della sua tappa di drogato
della cultura. Pizzicò con gli occhi un frammento
di un grosso e lussuoso volume su Barcellona (si tratta,
appunto, di Barcelonas di Montalban, ndr), da cui sporgeva
un’etichetta con lo scandaloso prezzo originale
corretto dalla pietà riduzionista del vecchio
libraio di libri vecchi: ‘È mai possibile
il mito dell’uomo libero nella città libera?
Per il momento Barcellona si umanizza ad ogni tratto
che recupera o costruisce per la passeggiata del corpo,
quella relazione di spazio tempo che dà un senso
al non aver nulla da fare né da temere, né
da aspettare, quel che potremmo chiamare il desideratum
beatifico’“.
Alle pompose parole del testo, Carvalho reagisce in
maniera quasi wittgensteiniana, consapevole che nessuna
lettura della vita, così come di una città
o di chi ci vive, ci aiuta. E che dunque solo l’azione
stessa, e l’incontro con l’altro, è
ciò che è possibile e insieme sensato.
“Poteva essere d’accordo o no, ma non si
prese il disturbo di deciderlo. Frustrò l’attesa
di acquisto del venditore uscendo dal negozio ormai
decisamente in cerca di Charo”.
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