267 - 11.12.04


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Fausto Zonaro tra Italia e Turchia
Giovanna Damiani


Dal 26 novembre al 19 dicembre il Complesso del Vittoriano di Roma ospiterà “Fausto Zonaro – dalla laguna veneta alle rive del Bosforo – un pittore italiano alla Corte del Sultano”, la retrospettiva di Fausto Zonaro, ritrattista, illustratore realista, pittore di storia alla corte di Bisanzio tra il 1896 e il 1910, al servizio del Sultano Abdul Hamid II.

Alla fine di gennaio del 1943, sotto l’incalzare degli incerti e preoccupanti esiti bellici e temendo il precipitare degli eventi con gravi conseguenze per il patrimonio artistico nazionale, l’allora Soprintendente alle Gallerie di Firenze, l’architetto Giovanni Poggi, disponeva il ricovero di «7 casse contenenti dipinti e disegni del pittore Fausto Zonaro» presso la villa medicea di Cafaggiolo, ex residenza granducale ormai di proprietà dello Stato italiano, adibita, in quei tempi calamitosi, a deposito degli oggetti d’arte che vi erano trasferiti per motivi di sicurezza. Le operazioni di salvaguardia e trasferimento dalle sedi museali cittadine a luoghi diversi e più sicuri, individuati in alcuni complessi storici del contado fiorentino, riguardava prevalentemente il patrimonio artistico dello Stato, ma non esclusivamente, poiché anche ad alcune raccolte private, considerate d’eccellenza e meritevoli di una adeguata azione di tutela da parte delle istituzioni preposte, veniva riservata medesima attenzione. Tra queste, dunque, quanto rimaneva nella disponibilità degli eredi del pittore veneto, giunti a Firenze pochi anni prima, rientrava ad evidenza nelle preoccupazioni di preservazione da parte degli amministratori del patrimonio artistico. Un evidente riconoscimento di qualità che già l’anno precedente si era esplicitamente formalizzato assicurando alle collezioni statali l’Autoritratto del pittore, acquistato per la Galleria degli Uffizi, ed un dipinto raffigurante La Torre di Leandro, opera prodotta da Zonaro nel lungo soggiorno costantinopolitano, destinato alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti. Alcuni anni dopo venivano acquistati anche sei disegni e schizzi, condotti al tratto, ad inchiostro e matita, studi di figura, preparatori per più ampie composizioni, esposti alla prima retrospettiva sul pittore tenutasi a Firenze nel 1948. Riferibili, nel loro complesso, alla iniziale attività artistica di Zonaro, ancora tutta veneta, mostrano la completa padronanza da parte del pittore del mezzo grafico ed una totale sicurezza nella conduzione formale dello studio di figura.
Sembra essere dunque Firenze il luogo che per primo restituì all’opera di Zonaro visibilità di pubblico e di critica, traendolo dal lungo oblio che ne aveva seguito la morte. All’esposizione fiorentina si erano succedute nel giro di soli due anni retrospettive in altre città italiane, conclusesi con l’esposizione di Masi, sua città natale, nel 1949, in occasione del ventennale della morte. Ad esse fece seguito un ulteriore lungo silenzio quando fu di nuovo Firenze a riproporre all’attenzione di pubblico e critica il pittore nel 1977
In modo molto episodico a partire dagli anni Ottanta e quindi dal decennio successivo un certo interesse di critica si accende nuovamente intorno alla figura di Fausto Zonaro, anche con attività espositive sia in Italia che ad Istanbul, la città che per venti anni lo aveva ospitato e dove raccolse i maggiori onori e fama. Una migliore messa a fuoco critica in Italia, in anni recenti, intorno alla pittura orientalista da parte degli studiosi, non ha trascurato di recuperare, nella letteratura artistica italiana, la personalità del pittore di Masi, sebbene la lunga permanenza all’estero lo avesse reso, nel tempo, in pratica, sconosciuto in patria. Soprattutto nota è l’attività di Zonaro svolta negli anni che trascorse a Costantinopoli, tra il 1891 e il 1910, di cui ben quindici alle dirette dipendenze del Sultano Abdul Hamid II, come pittore di corte. Amatissimo presso la Sublime Porta, ricercatissimo e molto apprezzato sul mercato turco, Zonaro giunse a Costantinopoli non più giovanissimo, dopo una attività artistica già intensa, ma commercialmente poco fortunata, svolta in Italia tra Venezia, Roma, Napoli e di nuovo Venezia.
L’ammissione alla Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona gli aveva consentito, giovane di grande determinazione ma non di mezzi, di coronare almeno in parte il suo desiderio di perseguire la professione artistica sulla spinta irrefrenabile di una vocazione esistenziale forte e irrinunciabile. Ebbe la ventura di accedere alla Accademia veronese in anni interessanti per il rinnovamento del locale insegnamento artistico e per le aperture legate alla applicazione significativa di nuovi mezzi e strumenti che rimarranno fondamentali nella produzione del pittore in anni ben lontani. Da Venezia infatti, nel clima di aggiornamento dell’insegnamento accademico, aveva vinto l’incarico di direttore dell’Accademia veronese, nel 1873, Napoleone Nani. A partire perciò dagli anni Settanta del secolo, quando anche Fausto Zonaro può accedere agli insegnamenti accademici, si assiste ad un processo di innovazione introdotto dal Nani che aveva sovvertito metodologicamente i criteri didattici, sostituendo, all’interpretazione e allo studio di stampe e disegni, quello di modelli solidi e sottoponendo ai suoi allievi la copia di figura dal vero. Inoltre attraverso Nani si rafforza l’uso strumentale della fotografia, che diminuisce la sua funzione di documentazione accademica, per giovarsi di un uso più disinvolto, quasi di reportage giornalistico, di cui sia Zonaro che, accanto a lui, soprattutto la moglie Elisa Pante, in seguito ampiamente applicarono. La situazione tecnicamente diversa consentiva di sostituire alle pose composte e studiatissime, le costruzioni lunghissime a cavalletto, la studiata fissazione della luce, riprese quasi da istantanea attraverso l’impiego di apparecchi più agili, che consentivano di calare l’artista nel quotidiano. Era quanto di meglio poteva chiedere l’artista ottocentesco appassionato di «verismo».
Contenutisticamente l’attività artistica veronese, nel contesto della nuova Accademia, si inseriva nel filone del regionalismo pittoresco fortemente orientato su Venezia, di cui Giacomo Favretto, compagno d’Accademia del Nani all’Accademia veneziana, ne rappresentava il massimo esponente. Venezia torna ad essere centro ideale d’ispirazione, verso cui culturalmente torna ad orientarsi l’ago della bilancia, dopo la definitiva acquisizione di Verona all’Italia, ma aggiungendovi, rinforzandolo, un più vivo colore locale. Del resto il Nani si faceva portatore di quell’indirizzo, suggerito vent’anni prima dalla riforma di Pietro Selvatico all’Accademia di Venezia, orientato ad una maggiore attenzione per la realtà ed il sentimento popolare, che si esprimeva attraverso la scena di genere e il paesaggio. Non mancò peraltro di indirizzare i suoi allievi verso il genere del ritratto di cui lui stesso era un apprezzato autore, cui del resto tendeva tutta la cultura della seconda metà dell’Ottocento, con l’affermazione dell’individuo e l’ascesa di nuove classi sociali, anche se in realtà a Verona sembrò scarsamente praticato dai pittori locali, soppiantato dal più economico e meno impegnativo ritratto fotografico. Il mezzo fotografico aveva del resto trovato in Verona una applicazione particolarmente estesa e radicata con l’opera di Moritz e Richard Lotze, in particolare quest’ultimo impegnato nella documentazione delle creazioni degli artisti. Considerata l’intera attività artistica di Fausto Zonaro la sua formazione veronese, artisticamente nuovamente orientata verso Venezia, contiene in modo esemplare tutti gli elementi che ne caratterizzeranno costantemente l’operosità. Senza trascurare, anzi sottolineandola, una ulteriore, fondamentale notazione, anch’essa carica per Zonaro di proficue conseguenze e da affinità elettive, costituita dalla precoce frequentazione di Verona da parte dei pittori napoletani, a cominciare, a titolo non solo esemplificativo, dal concorso per la direzione dell’Accademia nella città veneta, per il quale il più pericoloso antagonista di Napoleone Nani si era rivelato essere il napoletano Vincenzo Marinelli.
Insieme alla koinè culturale che si era formata intorno al direttore dell’Accademia Nani, con i compagni di formazione e coetanei, Angelo Dall’Oca Bianca e Alessandro Milesi, la componente partenopea, a partire dagli anni Settanta, pur nell’avvicendamento degli artisti, si era affermata come presenza costante, apportando, rivitalizzandola, una nuova declinazione di pittura di colore locale. A partire dalla presenza di Dalbono agli inizi degli Ottanta e poi lungo il decennio successivo, ormai troppo tardi perché Zonaro se ne giovasse in Veneto, ma sufficiente per suggerire una iniziale e pronta attrattiva verso la città partenopea.
Gli inizi, dunque, di Zonaro si inseriscono in quella che si può definire la scuola veronese, formatasi nell’alveo della rinnovata Accademia, e si rivelano nelle numerose immagini legate a scelte iconografiche, su uno stile saldamente formato e di sicura qualità espressiva e formale, intorno ai temi della scene di genere, scalabili lungo l’arco dei primi anni Ottanta del secolo ed anteriori al soggiorno napoletano e alla breve parentesi parigina, di poco precedente la partenza per Costantinopoli.
Non sembra, per quanto è possibile ricostruire della prima produzione italiana, che essa sia stata fortemente toccata dal breve soggiorno romano, dove Zonaro si soffermò dopo il periodo di leva obbligatoria che lo aveva costretto ad interrompere gli studi all’Accademia veronese. Soggiorno breve, limitato al conseguimento del Diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma.
L’iniziale attività di Zonaro non è facilmente ricostruibile per la dispersione sul mercato, non solo italiano, nota da alcuni titoli o da foto di riproduzione realizzate dalla moglie relativamente a quelle opere portate a Costantinopoli e poi disperse nel mercato levantino, e le poche recentemente rintracciate presso collezioni private o in raccolte pubbliche sia italiane che turche.
La predilezione per soggetti tratti dalla vita popolare e scene di genere sembrano, tuttavia, in quegli anni, rappresentare il massimo interesse per Zonaro, non dissimilmente dai suoi compagni d’Accademia e dai successivi allievi di Nani. Oltre a Dall’Oca Bianca, Alessandro Milesi e Luigi Novello, i più giovani Gerolamo Navarra, Francesco Danieli, Vincenzo De Stefani. Così come, del resto, il rinnovato interesse per la pittura veneziana, sicuramente determinato dalla presenza di Nani, aveva indirizzato verso la città lagunare scelte di gusto e parzialmente di stile, pur nelle diverse personali declinazioni, i cui più stretti riferimenti si riconoscevano con il maggio rappresentante della pittura veneziana di quegli anni, Giacomo Favretto, condiscepolo del Nani all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nelle piece di vita popolare ambientate nei campielli, sui ponti veneziani, o in ozi e svaghi campestri, colte nei loro aspetti più caratteristici e osservati senza nessuna implicazione morale né sociale, in dipinti come Sul ponte delle Guglie, La coda del diavolo, Grazie campestri, Dopo il gioco, i riferimenti agli insegnamenti accademici del Nani sono evidenti nella sicura e tornita definizione formale, il loro netto distacco dai fondi, seppure l’interpretazione esuli da una eccesso di meticolosità rappresentativa e stilisticamente più libera si ponga la realizzazione dei soggetti. Affiora anche, ed in modo quasi prepotente, una sicura familiarità con la tecnica fotografica. Il taglio singolare dei primi piani in cui si raccolgono gruppi di figure in un orizzonte ribassato e compresso quale può suggerire il limite fisico dell’ «occhio» fotografico rivelano, non solo una conoscenza, ma anche una consuetudine con il nuovo mezzo. Sortiscono simili effetti piccoli «quadretti» con giovani fanciulle intente ai propri diletti, la musica, la pittura, ambientate in altane con vista sulla città lacunare, come Accordi sulla terrazza o La dilettante, «allestiti» in una sorta di sala di posa all’aperto, il cui fondale è il medesimo sfondo cittadino. Per la maggior parte disperse sul mercato, se ne apprezzano le qualità cromatiche in alcuni dipinti recentemente rintracciati in Turchia, come Passa la Nina, dove le fredde tonalità cromatiche dominanti si accendono improvvisamente di rossi carichi e bianchi splendenti, sul fondo di una svaporata pittura di tocco che tutti li riassorbe, in omaggio alla sottesa tradizione artistica veneziana. Il tema si inserisce in quel filone di belle e colorate popolane che sarà uno dei temi più trattati dalla pittura veronese, al cui fascino nessuno dei pittori dell’Accademia si sottrasse.
In queste opere emerge una netta predilezione di Zonaro per l’ambientazione all’aperto dei suoi soggetti, nessun episodio noto dal vero o in fotografia ci risulta ambientato in interni, vuoi a rappresentare scene di vita borghese o piuttosto attingendo all’ampio repertorio di episodi di vita popolare cui concessero attenzione e industria i suoi condiscepoli presso il Nani, a conferma di una vocazione alla rappresentazione en plein air che ne caratterizzerà pressochè esclusivamente l’intera attività artistica.
L’ambiente partenopeo cui Zonaro si affacciò a più riprese dal 1882 e fino al 1885 favorì nel pittore un ulteriore rafforzamento nell’elaborazione di soggetti legati a scene di vita quotidiana, ripresi per vie e piazze e nei mercati napoletani, così come inizialmente era stata la pittura veneta a suggerire. La piazza, in particolare, rappresentava per i pittori cosiddetti »veristi» il luogo per eccellenza, dove sviluppare le scene in senso corale ed aggiungere «colore», non solo nel senso letterale del termine. Con la presenza diretta a Napoli, la tavolozza del pittore e il suo formalismo si animano di una eccitazione cromatica ed espressiva che il clima locale sicuramente e prepotentemente sollecitava. La sua pittura diviene fragorosa, si arricchisce di preziosismi cromatici e materici, e di questa rinnovata vivacità si animano opere come il dittico Primi tuoni e Tempesta o Vecchie conoscenze. Qui la pennellata si fa più densa e pastosa, la policromia contrastata e talvolta dissonante, le espressioni delle figure diventano più eloquenti ed esplicite, sempre tenute sotto il controllo di una rigorosa formazione accademica che gli consente di non scadere mai nella macchietta. Di questa rinnovata temperie pittorica terrà conto nel riprendere temi già sviluppati nel primo periodo veneziano, ma arricchiti da una frenesia cromatica ed espressiva rinnovata come in In medium stat vrirtus, evidente al confronto delle tre giovani con il gruppetto centrale di Sul ponte delle Guglie, eseguito prima del passaggio napoletano, o in composizioni come l’Infilatrice di perle, tornita figura di popolana «mediterranea», veneziana, napoletana oppure.....costantinpolitana. Certamente non quest’ultima, perché il dipinto è precedente al viaggio a Istanbul, anche se nella metropoli levantina il dipinto approderà e si disperderà sul mercato locale, ma non dissimili sono i caratteri che uniranno, lungo l’intero arco dell’attività di Zonaro, i suoi personaggi, nel solco di una tradizione verso il «realismo» che di fatto accomuna, in una unica temperie, città e popoli «mediterranei» per destinazione naturale.
Il rapporto con la scuola partenopea, da prima conosciuta nel tempo veronese e poi con una ravvicinata e prolungata frequentazione nei pochi anni di attività trascorsi direttamente a Napoli, arricchiscono l’inclinazione alla pittura del «vero» di Zonaro, di nuove e significative suggestioni stilistiche da un lato, dall’altro rafforzano, declinandoli in vigorose accezioni, temi e spunti già acquisiti in patria. Così l’ambiente napoletano si prestava a sottolineare l’attenzione per la vita che si svolgeva tra le vie e le piazze della città, cogliendone non solo appunti episodici ma anche narrativi e di impatto corale, come nella complessa composizione del O’ Pazzariello, la più significativa e studiata opera riferibile a quel periodo, apparentemente rappresentata in sintonia con il verismo di Vincenzo Migliaro, con le vedute degli antichi angoli della città partenopea, di cui quest’ultimo ci ha lasciato documentata testimonianza nelle opere eseguite nel 1887 su commissione del Comune di Napoli per rappresentare angoli della città partenopea destinati, di li a poco alla demolizione, ma in realtà più attenta ad effetti esteriori e di superficie, sia formali che contenutistici. A Napoli Zonaro poteva conoscere direttamente l’opera di Francesco Paolo Michetti, cui lo accumunava un precoce interesse per l’uso della mezzo fotografico, già sperimentato nel periodo veneziano, analogie di temi, ad evidenza sviluppati a Venezia ma eseguiti dopo il rientro da Napoli, quali sembrano emergere dalla soprendente consonanza tra Voluttà campestri (la presenza di piante di fico d’india ne denuncia un primo pensiero al sole mediterraneo) e il dipinto Pastorella in riposo di Michetti.
E’ difficile ricomporre in modo circostanziato lo sviluppo cronologico dell’arte di Zonaro lungo tutto l’arco del nono decennio del secolo per i continui spostamenti, soprattutto tra Venezia e Napoli, ma sembra che proprio a partire dal soggiorno napoletano, quindi dopo il 1885, egli si sia accostato alla tecnica del pastello, tecnica utilizzata da Dalbono e che interessò, già alla fine del decennio precedente anche Michetti, che si prestava particolarmente bene al genere del ritratto e del paesaggio, generi che rimarranno costanti in tutta la successiva attività del pittore, anche nella lunga permanenza ottomana in cui, anzi, si esalteranno trovando nell’atmosfera costantinopolitana pienezza di partecipazione emozionale e di espressione formale.
Durante gli inizi della sua attività, a Venezia, Zonaro non aveva disdegnato di dedicarsi al paesaggio o meglio alla «veduta» di angoli tipici della città lagunare, genere che dava da vivere a molti altri artisti in quegli anni, e che godeva ancora di un certo mercato, realizzati con una tecnica che spesso rappresentava un vistoso omaggio alla tradizione artistica veneziana del secolo precedente.
Il pittore tuttavia approfondisce il tema del paesaggio dal vero a Napoli, in compagnia dell’amico Attilio Pratella. Della consuetudine con il pittore romagnolo Zonaro ci lascia traccia nelle sue Memorie,dove non esita a ricordare, ancora dopo molti anni, la forte impressione che l’impatto con l’ambiente napoletano determinò in lui, «inebriato da quel cielo meraviglioso, attratto possentemente dai costumi del suo popolo che resi nei miei quadri» dalle «infuocate falde del Vesuvio, le piazze, i vicoli, le feste, e tutto quello sfolgorio d’arte abbagliante», e insieme avevano passato intere giornate «dipingendo sulle spiagge di Portici». Ben più che impressioni, bensì restituzioni dal vero di angoli di campagna vesuviana e di marine, di vicoli cittadini o stradelli di campagna arsi dal sole, dal taglio sempre originale, talvolta ariose vedute, più frequentemente riprese da una visuale che in diagonale taglia l’orizzonte, alto su un cielo basso o assente. Le doti artistiche di Zonaro non erano sfuggite al più grande paesaggista napoletano del momento, Filippo Palizzi, che ne stendeva gli elogi in una lettera di presentazione al suo rientro a Venezia.
Dalle impressioni della luce e dei colori del paesaggio alle falde del Vesuvio, Zonaro trasse i maggiori spunti per un intero ciclo di vedute a pastello realizzato sui bozzetti riportati da Napoli a Venezia, poi acquisiti per la Villa Simes Contarini, e oggi dispersi, secondo una consuetudine e una prassi lavorativa che lo portò non infrequentemente a rielaborare in studio in più grande formato impressioni tratte dal vero.
Già negli anni giovanili Fausto Zonaro si era cimentato nella ritrattistica, utilizzando diverse tecniche nelle quali si era fin da subito dimostrato abile e sensibile interprete, dall’acquarello, impiegato soprattutto nel primo periodo, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del decennio successivo, quando riuscì a terminare gli studi accademici a Roma, per passare subito dopo all’uso del pastello e dell’olio. Ritratti caratterizzati da grande libertà compositiva, da un sicuro impianto formale e costruttivo e da una policromia che in parte risente della tradizione ritrattistica veneziana settecentesca, di cui un signficativo esempio è il ritratto di Mia sorella Giuseppina, ma senza rinunciare anche a realizzazioni di maggiore vigore e potenza coloristica e formale, veramente moderna, sottolineata da una pennallata forte e spezzata, nella materia pastosa, e da sbattimenti di luce che accentuano la forza introspettiva, in parte riconducibili alla tradizione ritrattistica di Giacomo Favretto ma anche al pittoricismo trasfigurante di Francesco Paolo Michetti. Ricerche complementari, felicemente coesistenti, come nel giovanile Ritratto di Vincenzo Rosati e nel poco più tardo Ritratto d’uomo dei Musei Civici di Padova, potente esempio della totale padronanza del mezzo pittorico e dell’uso espressivo della luce. Al ritratto Zonaro dedicherà ininterrotta attenzione lungo tutto l’arco della sua carriera raggiungendo risultati di gran livello qualitativo. Soprattutto nei ritratti dedicati ai componenti della sua famiglia e nei numerosi autoritratti, quasi esclusivamente a pastello, utilizzato con sprezzante disinvoltura e sicurezza di tratto, governato da un rigoroso controllo compositivo mai obsoleto, bensì nuovo e soprattutto straordinariamente moderno.
L’esplorazione di Zonaro di nuovi temi artistici e la sua sensibilità verso i mutamenti del gusto corrente si esprimono nelle diverse redazioni della Primavera, o di soggetti riconducibili al tema attraverso la finzione letteraria dei titoli con locuzioni quali Farfalle o Fior di bosco. Trasfigurazioni del tema aulico e umanistico nella rappresentazione allegorica del soggetto in chiave naturalistica, introducendolo in quella corrente di gusto che traduce il mito letterario in una altrettanto letteraria idealizzazione di bellezze (e vita) agresti, tanto cara al gusto della borghesia dell’epoca. Non vi appare estranea tuttavia una declinazione più o meno sottintesa in chiave simbolista, sensibile alle istanze pittoriche europee della fine del secolo.
In particolare in Fior di Bosco, versione più matura di una quasi infantile precedente Primavera, la diafana figura emerge da un’ombra boschiva come apparizione purissima. Il candore della veste ne rafforza l’impressione di marmorea scultura, evocante deità pagane. Il dipinto venne acquistato dal principe Abdulmecid insieme a La Sognatrice, importantissima incursione di Zonaro nell’illustrazione di un tema complesso, sia contenutisticamente che stilisticamente. La figura femminile ancora in veste da camera, i capelli scomposti, è colta nell’istante immediatamente successivo al momento in cui ha appoggiato accanto a sè il libro, letto avidamente tanto da farle trascurare la cura della persona e forse il sonno. Le pagine che continuano a sfogliarsi naturalmente dichiarano l’immediatezza dell’azione appena compiuta. Ci immaginiamo che la ritrattata si lasci andare ad un sospiro dalle labbra dischiuse ed un pensiero romantico, suggerito dalla lettura appena interrotta, le attraversi la mente, un sogno, dunque, ad occhi aperti. L’ambientazione è essenziale per dar modo alla figura di emergere in tutta la sua trasognante presenza che si pone ben lontano dal poco più tardo e ben più famoso Sogni di Vittorio Corcos, in cui la giovane donna sembra piuttosto comunicare una volontà, personale, professionale, da donna «emancipata» quale ci viene presentata nella posa disinvolta e l’acutezza dello sguardo, piuttosto che di un sogno.
Zonaro, nella sua esplorazione realistica della vita sembra affacciarsi, anche se solo per un momento, all’esplorazione di una vita interiore e intima, altra faccia, per così dire, della rappresentazione della figura femminile del secondo Ottocento. Ci sorprende questo dipinto, nell’attività di un artista etichettato, nella categorizzazione comune dei generi, come orientalista e per giunta l’ultimo degli orientalisti alla corte del Sultano, anche sotto il profilo della ricerca stilistica, che si avvale di indagini pittoriche colte e raffinate. Umbratile lo sfondo della carta da parati di ispirazione giapponese, complementare al giallo denso che riveste la poltrona su cui spicca, riflettendovisi, il bianco serico della vestaglia, con echi ben presenti di ricerche pittoriche che riconducono al conterraneo, veneziano, Federico Zandomeneghi. Il dipinto, la cui esecuzione risale ancora entro la fine del non decennio del secolo, venne esposto da Zonaro durante un sua breve presenza in Italia, nel 1893, due anni dopo il suo trasferimento ad Istanbul, nel tentativo di verificare in patria nuove possibilità di lavoro, recuperare le opere invendute presso le varie esposizioni italiane, riunendole a Padova ed esponendole insieme alle sue prime prove costantinopolitane. Colse l’occasione per partecipare alla triennale di Milano con la Sognatrice, oltre ad altre tre opere del periodo veneto, come lui stesso ci informa nel libro di Memorie. Per poi decidere di fare ritorno definitivamente a Istanbul, dopo aver raggiunto la moglie a Parigi, dove si era recata per seguire un corso di fotografia presso il laboratorio di Eugène Pirou «perché, rientrando alla capitale turca, si aveva intenzione di aprire un piccolo atélier per tutte le evenienze», e trattenutosi là qualche tempo. E’ il secondo soggiorno di Zonaro nella capitale francese, dopo quello del 1888, poco prima di decidere di cercare fortuna nel Vicino Oriente, che non lascia vistose tracce sulla sua produzione artistica se non in convenzionali composizioni.
L’inquietudine della persona e la ricerca di più sicuri spazi di mercato avevano indotto Zonaro a partire alla volta di Istanbul nel 1891. La futura moglie Elisa Pante, che era stata sua allieva di pittura a Venezia, l’aveva preceduto in quell’avventurosa esperienza esistenziale e artistica, che costituirà l’elemento determinante dell’intera vicenda personale e professionale del pittore, sostenendolo con vivace spirito imprenditoriale e forte determinazione.
Che l’episodio della lettura del volume di De Amicis, Costantinopoli, quale motore per intraprendere la ricerca di nuovi e fertili terreni di ispirazione, rivesta di un’aura letteraria fin de siecle la decisione di Zonaro di trasferirsi a Istanbul, è piuttosto la più concreta ricerca di nuovi e più floridi ambiti di mercato, il sostanziale motivo di tale risoluzione. E’ storia nota che il testo deamicisiano, corredato dalle accattivanti illustrazioni di Cesare Biseo, aveva suggestionato più di un artista nell’ultimo quarto del secolo e oltre.. Esso circolava però da oltre un quindicennio. Piuttosto Istanbul, e la corte sultanale, consegnata da tradizione secolare a rappresentare il più fascinoso mito dell’Oriente per l’immaginario letterario e artistico dell’Occidente, al culmine della sua parabola sociale e politica e con un faticoso e prolungato sforzo di rinnovamento e occidentalizzazione in atto, rappresentava la metropoli cosmopolita più attraente per uno spirito, veneziano di nascita, di una città cioè secolarmente protesa a oriente, in cerca di più fortunati, produttivi spazi.
Pittore a tutto tondo Zonaro, negli anni trascorsi a Istanbul conseguì per talento e oculata gestione, assoggettandosi con flessibile sensibilità alle diverse esigenze della committenza sultanale e internazionale, considerazione e onori, e considerevole fortuna commerciale. Non mancò tuttavia di promuovere la sua produzione anche in Europa, rientrando periodicamente in Italia, allestendovi brevi esposizioni, e, soprattutto attraverso la costante attività di fotografa della moglie che si era impratichita con buoni risultati della tecnica fotografica, come abbiamo detto, direttamente a Parigi.
Una vicenda personale e artistica che si colora e si arricchisce, dunque, di variegate e complesse notazioni. La figura della moglie Elisa acquista, pur nella discreta presenza a fianco del marito, una importanza determinante sia nella divulgazione dell’attività del pittore che nella trasmissione di alcune suggestioni nel taglio compositivo della produzione di Zonaro. La sua attività di fotografa vive anche di una esperienza autonoma. Toccanti riprese dal vivo di vita quotidiana, documentata con l’occhio oggettivo e al contempo partecipe delle fatica del vivere, di usi e consuetudini sociali, ci sono tramandate dalle poche e ormai malamente conservate stampe, andate irrimediabilmente disperse le lastre originali.
Gli inizi a Istanbul furono certamente incerti e faticosi, quando il pittore, recuperata la tecnica ad acquerello, si dedicò prevalentemente alla produzione di vedute della città e dei dintorni secondo stilemi ampiamente sperimentati nella precedente produzione paesaggistica veneziana e partenopea e destinati ad una commercializzazione immediata. Tuttavia questa produzione, successivamente continuata anche attraverso numerosi olii, rappresenta, nell’intimismo sottile e stupito di un’anima sinceramente partecipe e interessata all’oggettiva descrizione dei luoghi - esemplare di questo momento di adesione profonda all’ambiente che lo ospitava l’Autoritratto in cui si raffigura intento a dipingere in mezzo alla via con abiti alla turca - , uno dei massimi vertici dell’intera opera dell’artista. Così come la scene di vita per strada, colte con sorprendente perspicuità sia nei bozzetti, rapidi ed espressivi nell’accensione cromatica e nella frenetica animazione delle scene, che nel tratto sicuro e rapido delle versioni finali, non sempre rintracciate, note da foto o perché passate sul mercato, o non sempre esistenti, perché si tratta, molto spesso, come lui stesso dichiara, di impressioni, di vita, di scorci, frammenti di luoghi e di stagioni, Barbieri all’aria aperta, Una strada di Stanbul, l’Arrotino, Sul Ponte di Galata, Glicine le numerose vedute di antichi cimiteri musulmani, colti con occhio oggettivo e al tempo stesso partecipe, spesso compresse da un punto di vista ribassato, in cui non manca di sollecitare una prospettiva di carattere, da inquadratura fotografica. Del resto Zonaro talvolta si servì del mezzo fotografico, quando la situazione lo richiedeva, per poi rielaborare il tema in studio, come accadde per sua esplicita dichiarazione.
Dal 1896, anno in cui ottenne l’ambito, quanto anacronistico, titolo di pittore di corte, l’opera di Zonaro si adegua alle richieste della committenza, pur non tralasciando la sua tradizionale, iniziale produzione paesaggistica e di costume, nel segno della poesia e del rispetto. Più che un riconoscimento alla sua attività la carica gli guadagnò una parte operativa importante nella vita artistica della Corte. Seguono pertanto incarichi e commissione, che non riguardano solo l’attività nel Palazzo. Il pittore venne incaricato di registrare adeguatamente eventi politici ufficiali e celebrativi della Corte. La benevolenza concreta del Sultano Abdul Hamid II si manifestò tangibilmente nella disponibilità di una palazzina ove l’artista trasferì la sua abitazione e lo studio ma che divenne anche luogo di esposizione e di incontro per l’eterogenea koinè culturale, borghese e diplomatica, residente o di passaggio a Istanbul, luogo di scambio e di aggiornamento culturale per il pittore, centro di promozione della propria attività.
Opere grandi, ma non grandiose, seguirono al suo impegno per la Corte, a cominciare dal passaggio della Cavalleria di Erthogul, apparentemente in campo lungo, sullo sfondo di una suggestiva e sognante immagine della moschea di Santa Sofia, a cui si affianca una oggettiva descrizione del gruppetto di curiosi occidentali in primo piano, in realtà con un sottile sottinsù che dilata la prospettiva sul lungo corteo militare, dipinto con il quale si guadagnò l’ammirazione del Sultano e il suo ingresso a corte, alla Battaglia di Domokos, prima commissione ufficiale celebrativa delle vicende politiche contemporanee, in campo lungo si, ma anche qui con un orizzonte ribassato ed una forte proiezione nel primo piano, preparato da una serie di studi di figura di indiscussa qualità stilistica ed espressiva, seppure la redazione finale soffra di un retaggio di accademismo irrisolto forse dovuto al soggetto non perfettamente nelle corde del pittore.
Decisamente forte appare invece la partecipazione dell’artista in una serie di quadri dedicati ad alcuni soggetti che descrivono cerimonie ed eventi tradizionali turchi, che vengono ormai affrontati con una oggettività di restituzione anche compositiva, e dal taglio «moderno», ormai immemore di quanto di pittoresco potevano conservare le più antiche scene di genere italiane. Oggettive nella descrizione, come una registrazione di cronaca, nell’osservazione dell’evento egli non tralascia di coinvolgere emozionalmente il riguardante, nella forte proiezione sui primi piani, come nel Bairam, dove tuttavia la sfondo ancora restituisce un respiro prospettico all’insieme, ma che toglie ogni via di fuga nella drammatica celebrazione del 10 Muharram, accresciuta dall’effetto di notturno, dove i bagliori rossastri dei fuochi si mescolano al rosso del sangue dei flagellanti, o le atmosfere fumose dei Pompieri irregolari, che si confondono e si spezzano nella frenetica, precipitosa, corsa dei protagonisti urlanti. Zonaro non manca di cogliere la solennità del rituale nei Dervisci, senza mancare di declinare le diverse espressività dei partecipanti, protagonisti e assistenti. Particolari di questi dipinti, unitamente a molti altri tra i soggetti più riusciti di quelli tratti dalla vita quotidiana, venivano scelti dal pittore per illustrare il volume del francese Adolphe Thalasso, Se’adet ou Stamboul Porte du Bonheur, edito a Parigi nel 1908. Opere fondamentali nell’esperienza artistica di Zonaro, non meno della realizzazione di una serie di dipinti, memorie celebrative di incontri ed eventi ufficiali. Da quelli dedicati alla visita politica del Kaiser Guglielmo II al Dolmabahce, cui vanno affiancati i numerosi ritratti della famiglia regnante, in cui Zonaro è capace di cogliere introspettivamente e con buona capacità, personalità diverse per età e rango. Basti ricordare il ritratto del piccolo Abdurrahim Effendi, nipote del Sultano, quello del Principe Abdulmecid, e quello del Sultano stesso, replicato in più versioni e fotografato da Elisa. A Zonaro venne anche affidato l’incarico di eseguire alcuni ritratti delle signore dell’harem, in cui la preziosa attività di fotografa della moglie Elisa rappresentò un ausilio importante, eseguendo numerose fotografie all’interno di questi ambienti che poi il pittore restituì sulla tela.
Una capacità non consueta di adattarsi sempre, mantenendo la buona qualità dello stile, alle diverse situazioni rappresentative e ai diversi ambiti e destinazioni di produzione.
Ma Zonaro non mancò anche di tenere d’occhio, nel suo «ritiro» costantinopolitano, i mutamenti del gusto che parallelamente si affermavano in Occidente, né le opportunità europee e soprattutto italiane, così da essere presente con proprie opere in manifestazione di sicuro richiamo. Non senza una certa sorpresa lo troviamo impegnato a presentare una propria opera al Concorso promosso da Vittorio Alinari nel 1899 a Firenze, dedicato al tema dell’ «amor materno», che vinse il primo premio, così da guadagnarsi l’onore di essere riprodotto sulla copertina degli abbecedari per le scuole elementari. Oggi ancora conservata a Firenze, fu anch’essa oggetto di replica, almeno in una seconda versione a noi nota, per volontà del Sultano ed oggi al Dolmabahce. Nel dipinto Zonaro si trova perfettamente allineato con le inclinazioni del gusto corrente occidentale e con quell’orientamento verso la «rinascita dell’idealismo» che si afferma in Italia ed in particolare a Firenze, sede dell’esposizione, nelle teorizzazioni apparse sulla rivista Il Marzocco fin dal 1896. Il soggetto sembra concludere ricerche contenutistiche e formali sul tema della Madre e del Bambino, esplicitate anche nel dipinto Madonna, che, mosso dalle iniziali proposte morelliane della metà degli anni Settanta, sembra toccare dunque anche il nostro sullo scorcio del secolo. Ed egli accoglie il tema conducendo ad una umanizzazione del divino, non a caso scegliendo soggetti «reali» come modelli, la sorella Leonia in visita a Istanbul e il secondo figlio Maurizio, o, se si vuole, una divinizzazione dell’umano, in una voluta trasmigrazione contenutistica e formale tipica delle correnti figurative idealiste e simboliste fin de siecle.
L’astro Zonaro andava rapidamente raggiungendo il suo apogeo per precipitare rapidamente in seguito ai drammatici eventi che condussero alla deposizione del Sultano Abdul Hamid II nel 1909, seguita alla rivoluzione dei «Giovani turchi». Il pittore riconosciuto fortemente legato alle fortune della casa dominante divenne presto vittima della nuova situazione politica che si era venuta a creare a Costantinopoli. Non gli valse l’amicizia con la guida ideale e militare dei rivoltosi, Enver Bey, da lui ritratto e fotografato dalla moglie Elisa. I rapporti politici sempre più tesi tra Turchia e Italia che sfociarono nella guerra di Libia del 1911, indussero Zonaro, che aveva perso, immediatamente dopo la caduta del Sultano, ogni privilegio e prebenda, a partire alla volta dell’Italia. La successiva vicenda artistica e personale del pittore giunto a Roma nel 1910, sembra svilupparsi sotto il segno dell’amarezza e per certi versi del ripiegamento introspettivo, anche dell’ispirazione artistica. Rifiutato all’esposizione romana del 1911, anche forse per la scelta infelice dei soggetti, tra cui il ritratto di Enver Bey (!), sicuramente poco apprezzabile in un momento di evidente tensione politica tra Italia e Turchia, il pittore espose in una personale al Teatro Nazionale e la manifestazione venne onorata dalla presenza dei Reali d’Italia. Tuttavia Zonaro preferisce lasciare presto Roma per trasferirsi definitivamente nella città di San Remo, capitale artistica e mondana della Riviera e nuovo centro vivace per frequentazioni culturali internazionali. Una sorta di novella Costantinopoli in piccolo, città sul mare anch’essa, dove riprendere vita e attività artistica.
Ripropose là come in Turchia la consuetudine della abitazione-atelier, centro di produzione ed esposizione insieme. Non mancano di quel periodo, anche se poco documentato per via di una dispersione delle opere nei mille rivoli del mercato e del collezionismo privato, a causa di una subitanea commercializzazione, dipinti in cui ritorna, come costante dominante, il tema del paesaggio, prevalente rispetto a tutti gli altri temi. Il sole e il mare della Riviera riprodotti in dipinti di piccolo e medio formato, non tradiscono la qualità di mano e l’ispirazione, ma qui l’osservazione attenta e partecipe della produzione levantina si trasforma spesso in una contemplazione sognante ed evasiva.
Non mancano comunque in questo lungo periodo di attività durato fino al 1929, opere che recuperano, ormai con anacronistica ispirazione nell’imperante gusto delle aggiornate correnti del Novecento, i motivi della scena di genere, di vita e di via. Così come alcuni dipinti in cui recupera soggetti orientali sul tema del paesaggio. Alla tecnica del pastello, a lui così familiare e abilmente e modernamente condotta, affida l’esecuzione di molti dei ritratti eseguiti negli anni Venti, soprattutto dedicati alle figlie e alla moglie, ed alcuni autoritratti, tra cui quello oggi conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Tra questi quello in cui raffigura la figlia Mafalda, in abiti orientali, rappresenta una sorta di testamento ideale, nello sguardo perduto e sognante della giovane, di un mondo rimpianto e mai dimenticato.

 

 

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