Dal 26 novembre
al 19 dicembre il Complesso del Vittoriano di Roma ospiterà
“Fausto Zonaro – dalla laguna veneta
alle rive del Bosforo – un pittore italiano alla
Corte del Sultano”, la retrospettiva di Fausto
Zonaro, ritrattista, illustratore realista, pittore
di storia alla corte di Bisanzio tra il 1896 e il 1910,
al servizio del Sultano Abdul Hamid II.
Alla
fine di gennaio del 1943, sotto l’incalzare degli
incerti e preoccupanti esiti bellici e temendo il precipitare
degli eventi con gravi conseguenze per il patrimonio
artistico nazionale, l’allora Soprintendente alle
Gallerie di Firenze, l’architetto Giovanni Poggi,
disponeva il ricovero di «7 casse contenenti dipinti
e disegni del pittore Fausto Zonaro» presso la
villa medicea di Cafaggiolo, ex residenza granducale
ormai di proprietà dello Stato italiano, adibita,
in quei tempi calamitosi, a deposito degli oggetti d’arte
che vi erano trasferiti per motivi di sicurezza. Le
operazioni di salvaguardia e trasferimento dalle sedi
museali cittadine a luoghi diversi e più sicuri,
individuati in alcuni complessi storici del contado
fiorentino, riguardava prevalentemente il patrimonio
artistico dello Stato, ma non esclusivamente, poiché
anche ad alcune raccolte private, considerate d’eccellenza
e meritevoli di una adeguata azione di tutela da parte
delle istituzioni preposte, veniva riservata medesima
attenzione. Tra queste, dunque, quanto rimaneva nella
disponibilità degli eredi del pittore veneto,
giunti a Firenze pochi anni prima, rientrava ad evidenza
nelle preoccupazioni di preservazione da parte degli
amministratori del patrimonio artistico. Un
evidente riconoscimento di qualità che già
l’anno precedente si era esplicitamente formalizzato
assicurando alle collezioni statali l’Autoritratto
del pittore, acquistato per la Galleria degli Uffizi,
ed un dipinto raffigurante La Torre di Leandro, opera
prodotta da Zonaro nel lungo soggiorno costantinopolitano,
destinato alla Galleria d’arte moderna di Palazzo
Pitti. Alcuni anni dopo venivano acquistati anche sei
disegni e schizzi, condotti al tratto, ad inchiostro
e matita, studi di figura, preparatori per più
ampie composizioni, esposti alla prima retrospettiva
sul pittore tenutasi a Firenze nel 1948. Riferibili,
nel loro complesso, alla iniziale attività artistica
di Zonaro, ancora tutta veneta, mostrano la completa
padronanza da parte del pittore del mezzo grafico ed
una totale sicurezza nella conduzione formale dello
studio di figura.
Sembra essere dunque Firenze il luogo che per primo
restituì all’opera di Zonaro visibilità
di pubblico e di critica, traendolo dal lungo oblio
che ne aveva seguito la morte. All’esposizione
fiorentina si erano succedute nel giro di soli due anni
retrospettive in altre città italiane, conclusesi
con l’esposizione di Masi, sua città natale,
nel 1949, in occasione del ventennale della morte. Ad
esse fece seguito un ulteriore lungo silenzio quando
fu di nuovo Firenze a riproporre all’attenzione
di pubblico e critica il pittore nel 1977
In modo molto episodico a partire dagli anni Ottanta
e quindi dal decennio successivo un certo interesse
di critica si accende nuovamente intorno alla figura
di Fausto Zonaro, anche con attività espositive
sia in Italia che ad Istanbul, la città che per
venti anni lo aveva ospitato e dove raccolse i maggiori
onori e fama. Una migliore messa a fuoco critica in
Italia, in anni recenti, intorno alla pittura orientalista
da parte degli studiosi, non ha trascurato di recuperare,
nella letteratura artistica italiana, la personalità
del pittore di Masi, sebbene la lunga permanenza all’estero
lo avesse reso, nel tempo, in pratica, sconosciuto in
patria. Soprattutto nota è l’attività
di Zonaro svolta negli anni che trascorse a Costantinopoli,
tra il 1891 e il 1910, di cui ben quindici alle dirette
dipendenze del Sultano Abdul Hamid II, come pittore
di corte. Amatissimo presso la Sublime Porta, ricercatissimo
e molto apprezzato sul mercato turco, Zonaro giunse
a Costantinopoli non più giovanissimo, dopo una
attività artistica già intensa, ma commercialmente
poco fortunata, svolta in Italia tra Venezia, Roma,
Napoli e di nuovo Venezia.
L’ammissione alla Accademia di Belle Arti Cignaroli
di Verona gli aveva consentito, giovane di grande determinazione
ma non di mezzi, di coronare almeno in parte il suo
desiderio di perseguire la professione artistica sulla
spinta irrefrenabile di una vocazione esistenziale forte
e irrinunciabile. Ebbe la ventura di accedere alla Accademia
veronese in anni interessanti per il rinnovamento del
locale insegnamento artistico e per le aperture legate
alla applicazione significativa di nuovi mezzi e strumenti
che rimarranno fondamentali nella produzione del pittore
in anni ben lontani. Da Venezia infatti, nel clima di
aggiornamento dell’insegnamento accademico, aveva
vinto l’incarico di direttore dell’Accademia
veronese, nel 1873, Napoleone Nani. A partire perciò
dagli anni Settanta del secolo, quando anche Fausto
Zonaro può accedere agli insegnamenti accademici,
si assiste ad un processo di innovazione introdotto
dal Nani che aveva sovvertito metodologicamente i criteri
didattici, sostituendo, all’interpretazione e
allo studio di stampe e disegni, quello di modelli solidi
e sottoponendo ai suoi allievi la copia di figura dal
vero. Inoltre attraverso Nani si rafforza l’uso
strumentale della fotografia, che diminuisce la sua
funzione di documentazione accademica, per giovarsi
di un uso più disinvolto, quasi di reportage
giornalistico, di cui sia Zonaro che, accanto a lui,
soprattutto la moglie Elisa Pante, in seguito ampiamente
applicarono. La situazione tecnicamente diversa consentiva
di sostituire alle pose composte e studiatissime, le
costruzioni lunghissime a cavalletto, la studiata fissazione
della luce, riprese quasi da istantanea attraverso l’impiego
di apparecchi più agili, che consentivano di
calare l’artista nel quotidiano. Era quanto di
meglio poteva chiedere l’artista ottocentesco
appassionato di «verismo».
Contenutisticamente l’attività artistica
veronese, nel contesto della nuova Accademia, si inseriva
nel filone del regionalismo pittoresco fortemente orientato
su Venezia, di cui Giacomo Favretto, compagno d’Accademia
del Nani all’Accademia veneziana, ne rappresentava
il massimo esponente. Venezia torna ad essere centro
ideale d’ispirazione, verso cui culturalmente
torna ad orientarsi l’ago della bilancia, dopo
la definitiva acquisizione di Verona all’Italia,
ma aggiungendovi, rinforzandolo, un più vivo
colore locale. Del resto il Nani si faceva portatore
di quell’indirizzo, suggerito vent’anni
prima dalla riforma di Pietro Selvatico all’Accademia
di Venezia, orientato ad una maggiore attenzione per
la realtà ed il sentimento popolare, che si esprimeva
attraverso la scena di genere e il paesaggio. Non mancò
peraltro di indirizzare i suoi allievi verso il genere
del ritratto di cui lui stesso era un apprezzato autore,
cui del resto tendeva tutta la cultura della seconda
metà dell’Ottocento, con l’affermazione
dell’individuo e l’ascesa di nuove classi
sociali, anche se in realtà a Verona sembrò
scarsamente praticato dai pittori locali, soppiantato
dal più economico e meno impegnativo ritratto
fotografico. Il mezzo fotografico aveva del resto trovato
in Verona una applicazione particolarmente estesa e
radicata con l’opera di Moritz e Richard Lotze,
in particolare quest’ultimo impegnato nella documentazione
delle creazioni degli artisti. Considerata l’intera
attività artistica di Fausto Zonaro la sua formazione
veronese, artisticamente nuovamente orientata verso
Venezia, contiene in modo esemplare tutti gli elementi
che ne caratterizzeranno costantemente l’operosità.
Senza trascurare, anzi sottolineandola, una ulteriore,
fondamentale notazione, anch’essa carica per Zonaro
di proficue conseguenze e da affinità elettive,
costituita dalla precoce frequentazione di Verona da
parte dei pittori napoletani, a cominciare, a titolo
non solo esemplificativo, dal concorso per la direzione
dell’Accademia nella città veneta, per
il quale il più pericoloso antagonista di Napoleone
Nani si era rivelato essere il napoletano Vincenzo Marinelli.
Insieme alla koinè culturale che si era formata
intorno al direttore dell’Accademia Nani, con
i compagni di formazione e coetanei, Angelo Dall’Oca
Bianca e Alessandro Milesi, la componente partenopea,
a partire dagli anni Settanta, pur nell’avvicendamento
degli artisti, si era affermata come presenza costante,
apportando, rivitalizzandola, una nuova declinazione
di pittura di colore locale. A partire dalla presenza
di Dalbono agli inizi degli Ottanta e poi lungo il decennio
successivo, ormai troppo tardi perché Zonaro
se ne giovasse in Veneto, ma sufficiente per suggerire
una iniziale e pronta attrattiva verso la città
partenopea.
Gli inizi, dunque, di Zonaro si inseriscono in quella
che si può definire la scuola veronese, formatasi
nell’alveo della rinnovata Accademia, e si rivelano
nelle numerose immagini legate a scelte iconografiche,
su uno stile saldamente formato e di sicura qualità
espressiva e formale, intorno ai temi della scene di
genere, scalabili lungo l’arco dei primi anni
Ottanta del secolo ed anteriori al soggiorno napoletano
e alla breve parentesi parigina, di poco precedente
la partenza per Costantinopoli.
Non sembra, per quanto è possibile ricostruire
della prima produzione italiana, che essa sia stata
fortemente toccata dal breve soggiorno romano, dove
Zonaro si soffermò dopo il periodo di leva obbligatoria
che lo aveva costretto ad interrompere gli studi all’Accademia
veronese. Soggiorno breve, limitato al conseguimento
del Diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma.
L’iniziale attività di Zonaro non è
facilmente ricostruibile per la dispersione sul mercato,
non solo italiano, nota da alcuni titoli o da foto di
riproduzione realizzate dalla moglie relativamente a
quelle opere portate a Costantinopoli e poi disperse
nel mercato levantino, e le poche recentemente rintracciate
presso collezioni private o in raccolte pubbliche sia
italiane che turche.
La predilezione per soggetti tratti dalla vita popolare
e scene di genere sembrano, tuttavia, in quegli anni,
rappresentare il massimo interesse per Zonaro, non dissimilmente
dai suoi compagni d’Accademia e dai successivi
allievi di Nani. Oltre a Dall’Oca Bianca, Alessandro
Milesi e Luigi Novello, i più giovani Gerolamo
Navarra, Francesco Danieli, Vincenzo De Stefani. Così
come, del resto, il rinnovato interesse per la pittura
veneziana, sicuramente determinato dalla presenza di
Nani, aveva indirizzato verso la città lagunare
scelte di gusto e parzialmente di stile, pur nelle diverse
personali declinazioni, i cui più stretti riferimenti
si riconoscevano con il maggio rappresentante della
pittura veneziana di quegli anni, Giacomo Favretto,
condiscepolo del Nani all’Accademia di Belle Arti
di Venezia. Nelle piece di vita popolare ambientate
nei campielli, sui ponti veneziani, o in ozi e svaghi
campestri, colte nei loro aspetti più caratteristici
e osservati senza nessuna implicazione morale né
sociale, in dipinti come Sul ponte delle Guglie, La
coda del diavolo, Grazie campestri, Dopo il gioco, i
riferimenti agli insegnamenti accademici del Nani sono
evidenti nella sicura e tornita definizione formale,
il loro netto distacco dai fondi, seppure l’interpretazione
esuli da una eccesso di meticolosità rappresentativa
e stilisticamente più libera si ponga la realizzazione
dei soggetti. Affiora anche, ed in modo quasi prepotente,
una sicura familiarità con la tecnica fotografica.
Il taglio singolare dei primi piani in cui si raccolgono
gruppi di figure in un orizzonte ribassato e compresso
quale può suggerire il limite fisico dell’
«occhio» fotografico rivelano, non solo
una conoscenza, ma anche una consuetudine con il nuovo
mezzo. Sortiscono simili effetti piccoli «quadretti»
con giovani fanciulle intente ai propri diletti, la
musica, la pittura, ambientate in altane con vista sulla
città lacunare, come Accordi sulla terrazza o
La dilettante, «allestiti» in una sorta
di sala di posa all’aperto, il cui fondale è
il medesimo sfondo cittadino. Per la maggior parte disperse
sul mercato, se ne apprezzano le qualità cromatiche
in alcuni dipinti recentemente rintracciati in Turchia,
come Passa la Nina, dove le fredde tonalità cromatiche
dominanti si accendono improvvisamente di rossi carichi
e bianchi splendenti, sul fondo di una svaporata pittura
di tocco che tutti li riassorbe, in omaggio alla sottesa
tradizione artistica veneziana. Il tema si inserisce
in quel filone di belle e colorate popolane che sarà
uno dei temi più trattati dalla pittura veronese,
al cui fascino nessuno dei pittori dell’Accademia
si sottrasse.
In queste opere emerge una netta predilezione di Zonaro
per l’ambientazione all’aperto dei suoi
soggetti, nessun episodio noto dal vero o in fotografia
ci risulta ambientato in interni, vuoi a rappresentare
scene di vita borghese o piuttosto attingendo all’ampio
repertorio di episodi di vita popolare cui concessero
attenzione e industria i suoi condiscepoli presso il
Nani, a conferma di una vocazione alla rappresentazione
en plein air che ne caratterizzerà pressochè
esclusivamente l’intera attività artistica.
L’ambiente partenopeo cui Zonaro si affacciò
a più riprese dal 1882 e fino al 1885 favorì
nel pittore un ulteriore rafforzamento nell’elaborazione
di soggetti legati a scene di vita quotidiana, ripresi
per vie e piazze e nei mercati napoletani, così
come inizialmente era stata la pittura veneta a suggerire.
La piazza, in particolare, rappresentava per i pittori
cosiddetti »veristi» il luogo per eccellenza,
dove sviluppare le scene in senso corale ed aggiungere
«colore», non solo nel senso letterale del
termine. Con la presenza diretta a Napoli, la tavolozza
del pittore e il suo formalismo si animano di una eccitazione
cromatica ed espressiva che il clima locale sicuramente
e prepotentemente sollecitava. La sua pittura diviene
fragorosa, si arricchisce di preziosismi cromatici e
materici, e di questa rinnovata vivacità si animano
opere come il dittico Primi tuoni e Tempesta o Vecchie
conoscenze. Qui la pennellata si fa più densa
e pastosa, la policromia contrastata e talvolta dissonante,
le espressioni delle figure diventano più eloquenti
ed esplicite, sempre tenute sotto il controllo di una
rigorosa formazione accademica che gli consente di non
scadere mai nella macchietta. Di questa rinnovata temperie
pittorica terrà conto nel riprendere temi già
sviluppati nel primo periodo veneziano, ma arricchiti
da una frenesia cromatica ed espressiva rinnovata come
in In medium stat vrirtus, evidente al confronto delle
tre giovani con il gruppetto centrale di Sul ponte delle
Guglie, eseguito prima del passaggio napoletano, o in
composizioni come l’Infilatrice di perle, tornita
figura di popolana «mediterranea», veneziana,
napoletana oppure.....costantinpolitana. Certamente
non quest’ultima, perché il dipinto è
precedente al viaggio a Istanbul, anche se nella metropoli
levantina il dipinto approderà e si disperderà
sul mercato locale, ma non dissimili sono i caratteri
che uniranno, lungo l’intero arco dell’attività
di Zonaro, i suoi personaggi, nel solco di una tradizione
verso il «realismo» che di fatto accomuna,
in una unica temperie, città e popoli «mediterranei»
per destinazione naturale.
Il rapporto con la scuola partenopea, da prima conosciuta
nel tempo veronese e poi con una ravvicinata e prolungata
frequentazione nei pochi anni di attività trascorsi
direttamente a Napoli, arricchiscono l’inclinazione
alla pittura del «vero» di Zonaro, di nuove
e significative suggestioni stilistiche da un lato,
dall’altro rafforzano, declinandoli in vigorose
accezioni, temi e spunti già acquisiti in patria.
Così l’ambiente napoletano si prestava
a sottolineare l’attenzione per la vita che si
svolgeva tra le vie e le piazze della città,
cogliendone non solo appunti episodici ma anche narrativi
e di impatto corale, come nella complessa composizione
del O’ Pazzariello, la più significativa
e studiata opera riferibile a quel periodo, apparentemente
rappresentata in sintonia con il verismo di Vincenzo
Migliaro, con le vedute degli antichi angoli della città
partenopea, di cui quest’ultimo ci ha lasciato
documentata testimonianza nelle opere eseguite nel 1887
su commissione del Comune di Napoli per rappresentare
angoli della città partenopea destinati, di li
a poco alla demolizione, ma in realtà più
attenta ad effetti esteriori e di superficie, sia formali
che contenutistici. A Napoli Zonaro poteva conoscere
direttamente l’opera di Francesco Paolo Michetti,
cui lo accumunava un precoce interesse per l’uso
della mezzo fotografico, già sperimentato nel
periodo veneziano, analogie di temi, ad evidenza sviluppati
a Venezia ma eseguiti dopo il rientro da Napoli, quali
sembrano emergere dalla soprendente consonanza tra Voluttà
campestri (la presenza di piante di fico d’india
ne denuncia un primo pensiero al sole mediterraneo)
e il dipinto Pastorella in riposo di Michetti.
E’ difficile ricomporre in modo circostanziato
lo sviluppo cronologico dell’arte di Zonaro lungo
tutto l’arco del nono decennio del secolo per
i continui spostamenti, soprattutto tra Venezia e Napoli,
ma sembra che proprio a partire dal soggiorno napoletano,
quindi dopo il 1885, egli si sia accostato alla tecnica
del pastello, tecnica utilizzata da Dalbono e che interessò,
già alla fine del decennio precedente anche Michetti,
che si prestava particolarmente bene al genere del ritratto
e del paesaggio, generi che rimarranno costanti in tutta
la successiva attività del pittore, anche nella
lunga permanenza ottomana in cui, anzi, si esalteranno
trovando nell’atmosfera costantinopolitana pienezza
di partecipazione emozionale e di espressione formale.
Durante gli inizi della sua attività, a Venezia,
Zonaro non aveva disdegnato di dedicarsi al paesaggio
o meglio alla «veduta» di angoli tipici
della città lagunare, genere che dava da vivere
a molti altri artisti in quegli anni, e che godeva ancora
di un certo mercato, realizzati con una tecnica che
spesso rappresentava un vistoso omaggio alla tradizione
artistica veneziana del secolo precedente.
Il pittore tuttavia approfondisce il tema del paesaggio
dal vero a Napoli, in compagnia dell’amico Attilio
Pratella. Della consuetudine con il pittore romagnolo
Zonaro ci lascia traccia nelle sue Memorie,dove non
esita a ricordare, ancora dopo molti anni, la forte
impressione che l’impatto con l’ambiente
napoletano determinò in lui, «inebriato
da quel cielo meraviglioso, attratto possentemente dai
costumi del suo popolo che resi nei miei quadri»
dalle «infuocate falde del Vesuvio, le piazze,
i vicoli, le feste, e tutto quello sfolgorio d’arte
abbagliante», e insieme avevano passato intere
giornate «dipingendo sulle spiagge di Portici».
Ben più che impressioni, bensì restituzioni
dal vero di angoli di campagna vesuviana e di marine,
di vicoli cittadini o stradelli di campagna arsi dal
sole, dal taglio sempre originale, talvolta ariose vedute,
più frequentemente riprese da una visuale che
in diagonale taglia l’orizzonte, alto su un cielo
basso o assente. Le doti artistiche di Zonaro non erano
sfuggite al più grande paesaggista napoletano
del momento, Filippo Palizzi, che ne stendeva gli elogi
in una lettera di presentazione al suo rientro a Venezia.
Dalle impressioni della luce e dei colori del paesaggio
alle falde del Vesuvio, Zonaro trasse i maggiori spunti
per un intero ciclo di vedute a pastello realizzato
sui bozzetti riportati da Napoli a Venezia, poi acquisiti
per la Villa Simes Contarini, e oggi dispersi, secondo
una consuetudine e una prassi lavorativa che lo portò
non infrequentemente a rielaborare in studio in più
grande formato impressioni tratte dal vero.
Già negli anni giovanili Fausto Zonaro si era
cimentato nella ritrattistica, utilizzando diverse tecniche
nelle quali si era fin da subito dimostrato abile e
sensibile interprete, dall’acquarello, impiegato
soprattutto nel primo periodo, tra la fine degli anni
Settanta e gli inizi del decennio successivo, quando
riuscì a terminare gli studi accademici a Roma,
per passare subito dopo all’uso del pastello e
dell’olio. Ritratti caratterizzati da grande libertà
compositiva, da un sicuro impianto formale e costruttivo
e da una policromia che in parte risente della tradizione
ritrattistica veneziana settecentesca, di cui un signficativo
esempio è il ritratto di Mia sorella Giuseppina,
ma senza rinunciare anche a realizzazioni di maggiore
vigore e potenza coloristica e formale, veramente moderna,
sottolineata da una pennallata forte e spezzata, nella
materia pastosa, e da sbattimenti di luce che accentuano
la forza introspettiva, in parte riconducibili alla
tradizione ritrattistica di Giacomo Favretto ma anche
al pittoricismo trasfigurante di Francesco Paolo Michetti.
Ricerche complementari, felicemente coesistenti, come
nel giovanile Ritratto di Vincenzo Rosati e nel poco
più tardo Ritratto d’uomo dei Musei Civici
di Padova, potente esempio della totale padronanza del
mezzo pittorico e dell’uso espressivo della luce.
Al ritratto Zonaro dedicherà ininterrotta attenzione
lungo tutto l’arco della sua carriera raggiungendo
risultati di gran livello qualitativo. Soprattutto nei
ritratti dedicati ai componenti della sua famiglia e
nei numerosi autoritratti, quasi esclusivamente a pastello,
utilizzato con sprezzante disinvoltura e sicurezza di
tratto, governato da un rigoroso controllo compositivo
mai obsoleto, bensì nuovo e soprattutto straordinariamente
moderno.
L’esplorazione di Zonaro di nuovi temi artistici
e la sua sensibilità verso i mutamenti del gusto
corrente si esprimono nelle diverse redazioni della
Primavera, o di soggetti riconducibili al tema attraverso
la finzione letteraria dei titoli con locuzioni quali
Farfalle o Fior di bosco. Trasfigurazioni del tema aulico
e umanistico nella rappresentazione allegorica del soggetto
in chiave naturalistica, introducendolo in quella corrente
di gusto che traduce il mito letterario in una altrettanto
letteraria idealizzazione di bellezze (e vita) agresti,
tanto cara al gusto della borghesia dell’epoca.
Non vi appare estranea tuttavia una declinazione più
o meno sottintesa in chiave simbolista, sensibile alle
istanze pittoriche europee della fine del secolo.
In particolare in Fior di Bosco, versione più
matura di una quasi infantile precedente Primavera,
la diafana figura emerge da un’ombra boschiva
come apparizione purissima. Il candore della veste ne
rafforza l’impressione di marmorea scultura, evocante
deità pagane. Il dipinto venne acquistato dal
principe Abdulmecid insieme a La Sognatrice, importantissima
incursione di Zonaro nell’illustrazione di un
tema complesso, sia contenutisticamente che stilisticamente.
La figura femminile ancora in veste da camera, i capelli
scomposti, è colta nell’istante immediatamente
successivo al momento in cui ha appoggiato accanto a
sè il libro, letto avidamente tanto da farle
trascurare la cura della persona e forse il sonno. Le
pagine che continuano a sfogliarsi naturalmente dichiarano
l’immediatezza dell’azione appena compiuta.
Ci immaginiamo che la ritrattata si lasci andare ad
un sospiro dalle labbra dischiuse ed un pensiero romantico,
suggerito dalla lettura appena interrotta, le attraversi
la mente, un sogno, dunque, ad occhi aperti. L’ambientazione
è essenziale per dar modo alla figura di emergere
in tutta la sua trasognante presenza che si pone ben
lontano dal poco più tardo e ben più famoso
Sogni di Vittorio Corcos, in cui la giovane donna sembra
piuttosto comunicare una volontà, personale,
professionale, da donna «emancipata» quale
ci viene presentata nella posa disinvolta e l’acutezza
dello sguardo, piuttosto che di un sogno.
Zonaro, nella sua esplorazione realistica della vita
sembra affacciarsi, anche se solo per un momento, all’esplorazione
di una vita interiore e intima, altra faccia, per così
dire, della rappresentazione della figura femminile
del secondo Ottocento. Ci sorprende questo dipinto,
nell’attività di un artista etichettato,
nella categorizzazione comune dei generi, come orientalista
e per giunta l’ultimo degli orientalisti alla
corte del Sultano, anche sotto il profilo della ricerca
stilistica, che si avvale di indagini pittoriche colte
e raffinate. Umbratile lo sfondo della carta da parati
di ispirazione giapponese, complementare al giallo denso
che riveste la poltrona su cui spicca, riflettendovisi,
il bianco serico della vestaglia, con echi ben presenti
di ricerche pittoriche che riconducono al conterraneo,
veneziano, Federico Zandomeneghi. Il dipinto, la cui
esecuzione risale ancora entro la fine del non decennio
del secolo, venne esposto da Zonaro durante un sua breve
presenza in Italia, nel 1893, due anni dopo il suo trasferimento
ad Istanbul, nel tentativo di verificare in patria nuove
possibilità di lavoro, recuperare le opere invendute
presso le varie esposizioni italiane, riunendole a Padova
ed esponendole insieme alle sue prime prove costantinopolitane.
Colse l’occasione per partecipare alla triennale
di Milano con la Sognatrice, oltre ad altre tre opere
del periodo veneto, come lui stesso ci informa nel libro
di Memorie. Per poi decidere di fare ritorno definitivamente
a Istanbul, dopo aver raggiunto la moglie a Parigi,
dove si era recata per seguire un corso di fotografia
presso il laboratorio di Eugène Pirou «perché,
rientrando alla capitale turca, si aveva intenzione
di aprire un piccolo atélier per tutte le evenienze»,
e trattenutosi là qualche tempo. E’ il
secondo soggiorno di Zonaro nella capitale francese,
dopo quello del 1888, poco prima di decidere di cercare
fortuna nel Vicino Oriente, che non lascia vistose tracce
sulla sua produzione artistica se non in convenzionali
composizioni.
L’inquietudine della persona e la ricerca di più
sicuri spazi di mercato avevano indotto Zonaro a partire
alla volta di Istanbul nel 1891. La futura moglie Elisa
Pante, che era stata sua allieva di pittura a Venezia,
l’aveva preceduto in quell’avventurosa esperienza
esistenziale e artistica, che costituirà l’elemento
determinante dell’intera vicenda personale e professionale
del pittore, sostenendolo con vivace spirito imprenditoriale
e forte determinazione.
Che l’episodio della lettura del volume di De
Amicis, Costantinopoli, quale motore per intraprendere
la ricerca di nuovi e fertili terreni di ispirazione,
rivesta di un’aura letteraria fin de siecle la
decisione di Zonaro di trasferirsi a Istanbul, è
piuttosto la più concreta ricerca di nuovi e
più floridi ambiti di mercato, il sostanziale
motivo di tale risoluzione. E’ storia nota che
il testo deamicisiano, corredato dalle accattivanti
illustrazioni di Cesare Biseo, aveva suggestionato più
di un artista nell’ultimo quarto del secolo e
oltre.. Esso circolava però da oltre un quindicennio.
Piuttosto Istanbul, e la corte sultanale, consegnata
da tradizione secolare a rappresentare il più
fascinoso mito dell’Oriente per l’immaginario
letterario e artistico dell’Occidente, al culmine
della sua parabola sociale e politica e con un faticoso
e prolungato sforzo di rinnovamento e occidentalizzazione
in atto, rappresentava la metropoli cosmopolita più
attraente per uno spirito, veneziano di nascita, di
una città cioè secolarmente protesa a
oriente, in cerca di più fortunati, produttivi
spazi.
Pittore a tutto tondo Zonaro, negli anni trascorsi a
Istanbul conseguì per talento e oculata gestione,
assoggettandosi con flessibile sensibilità alle
diverse esigenze della committenza sultanale e internazionale,
considerazione e onori, e considerevole fortuna commerciale.
Non mancò tuttavia di promuovere la sua produzione
anche in Europa, rientrando periodicamente in Italia,
allestendovi brevi esposizioni, e, soprattutto attraverso
la costante attività di fotografa della moglie
che si era impratichita con buoni risultati della tecnica
fotografica, come abbiamo detto, direttamente a Parigi.
Una vicenda personale e artistica che si colora e si
arricchisce, dunque, di variegate e complesse notazioni.
La figura della moglie Elisa acquista, pur nella discreta
presenza a fianco del marito, una importanza determinante
sia nella divulgazione dell’attività del
pittore che nella trasmissione di alcune suggestioni
nel taglio compositivo della produzione di Zonaro. La
sua attività di fotografa vive anche di una esperienza
autonoma. Toccanti riprese dal vivo di vita quotidiana,
documentata con l’occhio oggettivo e al contempo
partecipe delle fatica del vivere, di usi e consuetudini
sociali, ci sono tramandate dalle poche e ormai malamente
conservate stampe, andate irrimediabilmente disperse
le lastre originali.
Gli inizi a Istanbul furono certamente incerti e faticosi,
quando il pittore, recuperata la tecnica ad acquerello,
si dedicò prevalentemente alla produzione di
vedute della città e dei dintorni secondo stilemi
ampiamente sperimentati nella precedente produzione
paesaggistica veneziana e partenopea e destinati ad
una commercializzazione immediata. Tuttavia questa produzione,
successivamente continuata anche attraverso numerosi
olii, rappresenta, nell’intimismo sottile e stupito
di un’anima sinceramente partecipe e interessata
all’oggettiva descrizione dei luoghi - esemplare
di questo momento di adesione profonda all’ambiente
che lo ospitava l’Autoritratto in cui si raffigura
intento a dipingere in mezzo alla via con abiti alla
turca - , uno dei massimi vertici dell’intera
opera dell’artista. Così come la scene
di vita per strada, colte con sorprendente perspicuità
sia nei bozzetti, rapidi ed espressivi nell’accensione
cromatica e nella frenetica animazione delle scene,
che nel tratto sicuro e rapido delle versioni finali,
non sempre rintracciate, note da foto o perché
passate sul mercato, o non sempre esistenti, perché
si tratta, molto spesso, come lui stesso dichiara, di
impressioni, di vita, di scorci, frammenti di luoghi
e di stagioni, Barbieri all’aria aperta, Una strada
di Stanbul, l’Arrotino, Sul Ponte di Galata, Glicine
le numerose vedute di antichi cimiteri musulmani, colti
con occhio oggettivo e al tempo stesso partecipe, spesso
compresse da un punto di vista ribassato, in cui non
manca di sollecitare una prospettiva di carattere, da
inquadratura fotografica. Del resto Zonaro talvolta
si servì del mezzo fotografico, quando la situazione
lo richiedeva, per poi rielaborare il tema in studio,
come accadde per sua esplicita dichiarazione.
Dal 1896, anno in cui ottenne l’ambito, quanto
anacronistico, titolo di pittore di corte, l’opera
di Zonaro si adegua alle richieste della committenza,
pur non tralasciando la sua tradizionale, iniziale produzione
paesaggistica e di costume, nel segno della poesia e
del rispetto. Più che un riconoscimento alla
sua attività la carica gli guadagnò una
parte operativa importante nella vita artistica della
Corte. Seguono pertanto incarichi e commissione, che
non riguardano solo l’attività nel Palazzo.
Il pittore venne incaricato di registrare adeguatamente
eventi politici ufficiali e celebrativi della Corte.
La benevolenza concreta del Sultano Abdul Hamid II si
manifestò tangibilmente nella disponibilità
di una palazzina ove l’artista trasferì
la sua abitazione e lo studio ma che divenne anche luogo
di esposizione e di incontro per l’eterogenea
koinè culturale, borghese e diplomatica, residente
o di passaggio a Istanbul, luogo di scambio e di aggiornamento
culturale per il pittore, centro di promozione della
propria attività.
Opere grandi, ma non grandiose, seguirono al suo impegno
per la Corte, a cominciare dal passaggio della Cavalleria
di Erthogul, apparentemente in campo lungo, sullo sfondo
di una suggestiva e sognante immagine della moschea
di Santa Sofia, a cui si affianca una oggettiva descrizione
del gruppetto di curiosi occidentali in primo piano,
in realtà con un sottile sottinsù che
dilata la prospettiva sul lungo corteo militare, dipinto
con il quale si guadagnò l’ammirazione
del Sultano e il suo ingresso a corte, alla Battaglia
di Domokos, prima commissione ufficiale celebrativa
delle vicende politiche contemporanee, in campo lungo
si, ma anche qui con un orizzonte ribassato ed una forte
proiezione nel primo piano, preparato da una serie di
studi di figura di indiscussa qualità stilistica
ed espressiva, seppure la redazione finale soffra di
un retaggio di accademismo irrisolto forse dovuto al
soggetto non perfettamente nelle corde del pittore.
Decisamente forte appare invece la partecipazione dell’artista
in una serie di quadri dedicati ad alcuni soggetti che
descrivono cerimonie ed eventi tradizionali turchi,
che vengono ormai affrontati con una oggettività
di restituzione anche compositiva, e dal taglio «moderno»,
ormai immemore di quanto di pittoresco potevano conservare
le più antiche scene di genere italiane. Oggettive
nella descrizione, come una registrazione di cronaca,
nell’osservazione dell’evento egli non tralascia
di coinvolgere emozionalmente il riguardante, nella
forte proiezione sui primi piani, come nel Bairam, dove
tuttavia la sfondo ancora restituisce un respiro prospettico
all’insieme, ma che toglie ogni via di fuga nella
drammatica celebrazione del 10 Muharram, accresciuta
dall’effetto di notturno, dove i bagliori rossastri
dei fuochi si mescolano al rosso del sangue dei flagellanti,
o le atmosfere fumose dei Pompieri irregolari, che si
confondono e si spezzano nella frenetica, precipitosa,
corsa dei protagonisti urlanti. Zonaro non manca di
cogliere la solennità del rituale nei Dervisci,
senza mancare di declinare le diverse espressività
dei partecipanti, protagonisti e assistenti. Particolari
di questi dipinti, unitamente a molti altri tra i soggetti
più riusciti di quelli tratti dalla vita quotidiana,
venivano scelti dal pittore per illustrare il volume
del francese Adolphe Thalasso, Se’adet ou Stamboul
Porte du Bonheur, edito a Parigi nel 1908. Opere fondamentali
nell’esperienza artistica di Zonaro, non meno
della realizzazione di una serie di dipinti, memorie
celebrative di incontri ed eventi ufficiali. Da quelli
dedicati alla visita politica del Kaiser Guglielmo II
al Dolmabahce, cui vanno affiancati i numerosi ritratti
della famiglia regnante, in cui Zonaro è capace
di cogliere introspettivamente e con buona capacità,
personalità diverse per età e rango. Basti
ricordare il ritratto del piccolo Abdurrahim Effendi,
nipote del Sultano, quello del Principe Abdulmecid,
e quello del Sultano stesso, replicato in più
versioni e fotografato da Elisa. A Zonaro venne anche
affidato l’incarico di eseguire alcuni ritratti
delle signore dell’harem, in cui la preziosa attività
di fotografa della moglie Elisa rappresentò un
ausilio importante, eseguendo numerose fotografie all’interno
di questi ambienti che poi il pittore restituì
sulla tela.
Una capacità non consueta di adattarsi sempre,
mantenendo la buona qualità dello stile, alle
diverse situazioni rappresentative e ai diversi ambiti
e destinazioni di produzione.
Ma Zonaro non mancò anche di tenere d’occhio,
nel suo «ritiro» costantinopolitano, i mutamenti
del gusto che parallelamente si affermavano in Occidente,
né le opportunità europee e soprattutto
italiane, così da essere presente con proprie
opere in manifestazione di sicuro richiamo. Non senza
una certa sorpresa lo troviamo impegnato a presentare
una propria opera al Concorso promosso da Vittorio Alinari
nel 1899 a Firenze, dedicato al tema dell’ «amor
materno», che vinse il primo premio, così
da guadagnarsi l’onore di essere riprodotto sulla
copertina degli abbecedari per le scuole elementari.
Oggi ancora conservata a Firenze, fu anch’essa
oggetto di replica, almeno in una seconda versione a
noi nota, per volontà del Sultano ed oggi al
Dolmabahce. Nel dipinto Zonaro si trova perfettamente
allineato con le inclinazioni del gusto corrente occidentale
e con quell’orientamento verso la «rinascita
dell’idealismo» che si afferma in Italia
ed in particolare a Firenze, sede dell’esposizione,
nelle teorizzazioni apparse sulla rivista Il Marzocco
fin dal 1896. Il soggetto sembra concludere ricerche
contenutistiche e formali sul tema della Madre e del
Bambino, esplicitate anche nel dipinto Madonna, che,
mosso dalle iniziali proposte morelliane della metà
degli anni Settanta, sembra toccare dunque anche il
nostro sullo scorcio del secolo. Ed egli accoglie il
tema conducendo ad una umanizzazione del divino, non
a caso scegliendo soggetti «reali» come
modelli, la sorella Leonia in visita a Istanbul e il
secondo figlio Maurizio, o, se si vuole, una divinizzazione
dell’umano, in una voluta trasmigrazione contenutistica
e formale tipica delle correnti figurative idealiste
e simboliste fin de siecle.
L’astro Zonaro andava rapidamente raggiungendo
il suo apogeo per precipitare rapidamente in seguito
ai drammatici eventi che condussero alla deposizione
del Sultano Abdul Hamid II nel 1909, seguita alla rivoluzione
dei «Giovani turchi». Il pittore riconosciuto
fortemente legato alle fortune della casa dominante
divenne presto vittima della nuova situazione politica
che si era venuta a creare a Costantinopoli. Non gli
valse l’amicizia con la guida ideale e militare
dei rivoltosi, Enver Bey, da lui ritratto e fotografato
dalla moglie Elisa. I rapporti politici sempre più
tesi tra Turchia e Italia che sfociarono nella guerra
di Libia del 1911, indussero Zonaro, che aveva perso,
immediatamente dopo la caduta del Sultano, ogni privilegio
e prebenda, a partire alla volta dell’Italia.
La successiva vicenda artistica e personale del pittore
giunto a Roma nel 1910, sembra svilupparsi sotto il
segno dell’amarezza e per certi versi del ripiegamento
introspettivo, anche dell’ispirazione artistica.
Rifiutato all’esposizione romana del 1911, anche
forse per la scelta infelice dei soggetti, tra cui il
ritratto di Enver Bey (!), sicuramente poco apprezzabile
in un momento di evidente tensione politica tra Italia
e Turchia, il pittore espose in una personale al Teatro
Nazionale e la manifestazione venne onorata dalla presenza
dei Reali d’Italia. Tuttavia Zonaro preferisce
lasciare presto Roma per trasferirsi definitivamente
nella città di San Remo, capitale artistica e
mondana della Riviera e nuovo centro vivace per frequentazioni
culturali internazionali. Una sorta di novella Costantinopoli
in piccolo, città sul mare anch’essa, dove
riprendere vita e attività artistica.
Ripropose là come in Turchia la consuetudine
della abitazione-atelier, centro di produzione ed esposizione
insieme. Non mancano di quel periodo, anche se poco
documentato per via di una dispersione delle opere nei
mille rivoli del mercato e del collezionismo privato,
a causa di una subitanea commercializzazione, dipinti
in cui ritorna, come costante dominante, il tema del
paesaggio, prevalente rispetto a tutti gli altri temi.
Il sole e il mare della Riviera riprodotti in dipinti
di piccolo e medio formato, non tradiscono la qualità
di mano e l’ispirazione, ma qui l’osservazione
attenta e partecipe della produzione levantina si trasforma
spesso in una contemplazione sognante ed evasiva.
Non mancano comunque in questo lungo periodo di attività
durato fino al 1929, opere che recuperano, ormai con
anacronistica ispirazione nell’imperante gusto
delle aggiornate correnti del Novecento, i motivi della
scena di genere, di vita e di via. Così come
alcuni dipinti in cui recupera soggetti orientali sul
tema del paesaggio. Alla tecnica del pastello, a lui
così familiare e abilmente e modernamente condotta,
affida l’esecuzione di molti dei ritratti eseguiti
negli anni Venti, soprattutto dedicati alle figlie e
alla moglie, ed alcuni autoritratti, tra cui quello
oggi conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli
Uffizi. Tra questi quello in cui raffigura la figlia
Mafalda, in abiti orientali, rappresenta una sorta di
testamento ideale, nello sguardo perduto e sognante
della giovane, di un mondo rimpianto e mai dimenticato.
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