267 - 11.12.04


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Un ponte fra l'Asia e l'Europa
Tsai Ming-liang con Paola Casella


E' il regista cinese contemporaneo più fedele alla tradizione del cinema asiatico, una tradizione fatta di lentezza, di inquadrature lunghe e immobili, di dialoghi scarni e intensi. Eppure da qualche anno coproduce tutti i suoi film con case di produzione francesi. A Tsai Ming-liang, nato in Malesia, cresciuto a Taiwan, autore di capolavori come Vive l'amour (Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia), Il fiume (Orso d'argento a Berlino) e Il buco, l'Asian Film Festival, sponsorizzato dall Asia-Europe Foundation, un'organizzazione dedicata agli scambi culturali fra i contenenti europeo ed asiatico, ha appena dedicato a Roma una rassegna personale. E Tsai Ming-liang ne ha approfittato per impartire una lezione di cinema che si è trasformata in una lezione di vita.

Perché produce spesso i suoi film con i francesi?

Sono stati loro a cercarmi, dopo aver svolto una ricerca di marketing che mirava a verificare se esistesse un mercato per i miei film nel loro Paese. Hanno scoperto che sì, c'era effettivamente un pubblico che seguiva il mio lavoro, e le offerte a livello produttivo hanno cominciato ad arrivare. Io ne sono stato felice, non solo perché produrre film d'arte in Cina è molto difficile, ma perché ho sempre sentito un forte legame con la cinematografia francese ed europea.

Come mai?

Ho studiato cinema all'università della Cultura Cinese di Taipei, e i film che ci facevano vedere erano soprattutto quelli italiani del neorealismo e quelli francesi della Nouvelle Vague. Io me ne sono innamorato, e credo sia per questo che molti mi dicono che la mia visione estetica si è fermata agli anni Sessanta.

Qual è l'essenza del suo cinema?

Mi interessa l'interiorità delle persone, da sempre al centro della ricerca filosofica e religiosa dell'Oriente, ma anche il rapporto fra l'essere umano e la città, intesa come corpo urbano, e questa è una problematica "importata" dall'Occidente, perché da noi il concetto di metropoli è ancora abbastanza recente.

Tecnicamente, lei sembra tornare alle origine del cinema: lunghe scene mute, inquadrature fisse, interminabili piani sequenza. Perché?

Perché per me il film è una specie di ricerca ontologica. Non lo considero solo un mezzo di intrattenimento, ma un modo per far riflettere sulla vita, di far riscoprire la corporeità e gli oggetti quotidiani. Oggi invece, fra le molte potenzialità del cinema, l'unica rimasta in vita è la volontà di raccontare una storia.

Quando il pubblico va a vedere i miei film si domanda: perché ci sono così pochi dialoghi? Perché non c'è musica? Perché questo regista usa sempre gli stessi attori? E' spiazzato, perché normalmente, entrando in una sala cinematografica, ogni spettatore sa più o meno cosa spettarsi. Il mio cinema cerca di spezzare quell'abitudine, che rende i film una sorta di oppio per non vedere la realtà.

Anche in questo senso il cinema europeo per me è stato fondamentale. I film americani rappresentano una distrazione dal reale, quelli europei invece riavvicinano la gente alla quotidianità e portano gli spettatori a rileggerla in un'ottica diversa. Ricordo ancora un film che per me è stato una folgorazione, La paura mangia l'anima di Werner Fassbinder, che racconta una storia fra due personaggi dal punto di vista hollywoodiano assolutamente improponibili: una sessantenne tedesca e un ragazzo di colore. Alla fine della proiezione non riuscivo ad alzarmi dalla sedia, e ho deciso che quello era il tipo di cinema che volevo fare io, un cinema che conduca alla conoscenza, alla comprensione, alla riscoperta della preziosità della vita umana.

Quali sono le principali differenze all'interno della cinematografia contemporanea dell'Estremo Oriente?

Se prendiamo come poli principali Taiwan e Hong Kong, la differenza è quella fra un cinema che mette l'accento sull'individualità e sulla profondità esistenziale e un cinema che privilegia lo spettacolo e il divertimento, nel senso di allontanamento dalla quotidianità. La ragione sta nella storia dei due territori: Hong Kong è stata a lungo una colonia britannica, dunque ha subito ua forte influenza del gusto occidentale, e sforna film commerciali d'azione, anche bellissimi, ma molto simili dalle produzioni hollywoodiane. Ancora oggi Hollywood e Hong Kong si studiano e si influenzano a vicenda, basta vedere il lavoro di autori come Quentin Tarantino.

Dopo un periodi di libertà esperssiva terminato verso la fine degli anni Trenta, la società di Taiwan ha invece esercitato a lungo un controllo militare sui contenuti della cinematografia locale, privilegiando le storie d'amore e le pellicole cosiddette "educative". Dal '92 non esiste più un controllo centralizzato, non c'è più una censura di stato, e oggi i mass media a Taiwan sono i più liberi di tutta l'Asia. L'arrivo di Hou Xiao Xien (il regista di, fra gli altri, Millenium Mambo, ndr) ha segnato la vera svolta: è stato lui il primo a rappresentare la realtà sociale con tutti i suoi problemi, e a raccontare la storia del nostro Paese in un modo per noi riconoscibile.

Quale è il suo prossimo progetto?

Un musical, che tratterà il tema del'omosessualità, e conterrà elementi "scandalosi": in una scena Lee Kang-sheng (l'attore-simbolo di Tsai Ming-liang, anch'egli presente alla retrospettiva romana, ndr) impersonerà un membro maschile contesto da due donne in un bagno pubblico. E tuttavia non sarà un musical escapista, anzi, attraverso il canto e la danza riporterà gli spettatori alla realtà invece che invitarli a sfuggirla. Perché il mio cinema non è mai una carezza, semmai uno schiaffo in pieno viso.

 

 

 

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