| E' il regista 
                          cinese contemporaneo più fedele alla tradizione 
                          del cinema asiatico, una tradizione fatta di lentezza, 
                          di inquadrature lunghe e immobili, di dialoghi scarni 
                          e intensi. Eppure da qualche anno coproduce tutti i 
                          suoi film con case di produzione francesi. A Tsai Ming-liang, 
                          nato in Malesia, cresciuto a Taiwan, autore di capolavori 
                          come Vive l'amour (Leone d'oro alla Mostra 
                          del cinema di Venezia), Il fiume (Orso d'argento 
                          a Berlino) e Il buco, l'Asian Film Festival, sponsorizzato 
                          dall Asia-Europe 
                          Foundation, un'organizzazione dedicata agli scambi 
                          culturali fra i contenenti europeo ed asiatico, ha appena 
                          dedicato a Roma una rassegna personale. E Tsai Ming-liang 
                          ne ha approfittato per impartire una lezione di cinema 
                          che si è trasformata in una lezione di vita. 
                         Perché produce spesso i suoi film con 
                          i francesi?
 Sono stati loro a cercarmi, dopo aver svolto una ricerca 
                          di marketing che mirava a verificare se esistesse un 
                          mercato per i miei film nel loro Paese. Hanno scoperto 
                          che sì, c'era effettivamente un pubblico che 
                          seguiva il mio lavoro, e le offerte a livello produttivo 
                          hanno cominciato ad arrivare. Io ne sono stato felice, 
                          non solo perché produrre film d'arte in Cina 
                          è molto difficile, ma perché ho sempre 
                          sentito un forte legame con la cinematografia francese 
                          ed europea.
 Come mai?
 Ho studiato cinema all'università della Cultura 
                          Cinese di Taipei, e i film che ci facevano vedere erano 
                          soprattutto quelli italiani del neorealismo e quelli 
                          francesi della Nouvelle Vague. Io me ne sono innamorato, 
                          e credo sia per questo che molti mi dicono che la mia 
                          visione estetica si è fermata agli anni Sessanta.
 Qual è l'essenza del suo cinema?
 Mi interessa l'interiorità delle persone, da 
                          sempre al centro della ricerca filosofica e religiosa 
                          dell'Oriente, ma anche il rapporto fra l'essere umano 
                          e la città, intesa come corpo urbano, e questa 
                          è una problematica "importata" dall'Occidente, 
                          perché da noi il concetto di metropoli è 
                          ancora abbastanza recente.
 Tecnicamente, lei sembra tornare alle origine 
                          del cinema: lunghe scene mute, inquadrature fisse, interminabili 
                          piani sequenza. Perché? 
 Perché per me il film è una specie di 
                          ricerca ontologica. Non lo considero solo un mezzo di 
                          intrattenimento, ma un modo per far riflettere sulla 
                          vita, di far riscoprire la corporeità e gli oggetti 
                          quotidiani. Oggi invece, fra le molte potenzialità 
                          del cinema, l'unica rimasta in vita è la volontà 
                          di raccontare una storia.
 Quando il pubblico va a vedere i miei film si domanda: 
                          perché ci sono così pochi dialoghi? Perché 
                          non c'è musica? Perché questo regista 
                          usa sempre gli stessi attori? E' spiazzato, perché 
                          normalmente, entrando in una sala cinematografica, ogni 
                          spettatore sa più o meno cosa spettarsi. Il mio 
                          cinema cerca di spezzare quell'abitudine, che rende 
                          i film una sorta di oppio per non vedere la realtà. 
                         Anche in questo senso il cinema europeo per me è 
                          stato fondamentale. I film americani rappresentano una 
                          distrazione dal reale, quelli europei invece riavvicinano 
                          la gente alla quotidianità e portano gli spettatori 
                          a rileggerla in un'ottica diversa. Ricordo ancora un 
                          film che per me è stato una folgorazione, La 
                          paura mangia l'anima di Werner Fassbinder, che 
                          racconta una storia fra due personaggi dal punto di 
                          vista hollywoodiano assolutamente improponibili: una 
                          sessantenne tedesca e un ragazzo di colore. Alla fine 
                          della proiezione non riuscivo ad alzarmi dalla sedia, 
                          e ho deciso che quello era il tipo di cinema che volevo 
                          fare io, un cinema che conduca alla conoscenza, alla 
                          comprensione, alla riscoperta della preziosità 
                          della vita umana.  Quali sono le principali differenze all'interno 
                          della cinematografia contemporanea dell'Estremo Oriente? 
                          
 Se prendiamo come poli principali Taiwan e Hong Kong, 
                          la differenza è quella fra un cinema che mette 
                          l'accento sull'individualità e sulla profondità 
                          esistenziale e un cinema che privilegia lo spettacolo 
                          e il divertimento, nel senso di allontanamento dalla 
                          quotidianità. La ragione sta nella storia dei 
                          due territori: Hong Kong è stata a lungo una 
                          colonia britannica, dunque ha subito ua forte influenza 
                          del gusto occidentale, e sforna film commerciali d'azione, 
                          anche bellissimi, ma molto simili dalle produzioni hollywoodiane. 
                          Ancora oggi Hollywood e Hong Kong si studiano e si influenzano 
                          a vicenda, basta vedere il lavoro di autori come Quentin 
                          Tarantino.
 Dopo un periodi di libertà esperssiva terminato 
                          verso la fine degli anni Trenta, la società di 
                          Taiwan ha invece esercitato a lungo un controllo militare 
                          sui contenuti della cinematografia locale, privilegiando 
                          le storie d'amore e le pellicole cosiddette "educative". 
                          Dal '92 non esiste più un controllo centralizzato, 
                          non c'è più una censura di stato, e oggi 
                          i mass media a Taiwan sono i più liberi di tutta 
                          l'Asia. L'arrivo di Hou Xiao Xien (il regista di, fra 
                          gli altri, Millenium Mambo, ndr) ha segnato 
                          la vera svolta: è stato lui il primo a rappresentare 
                          la realtà sociale con tutti i suoi problemi, 
                          e a raccontare la storia del nostro Paese in un modo 
                          per noi riconoscibile.  Quale è il suo prossimo progetto?
 Un musical, che tratterà il tema del'omosessualità, 
                          e conterrà elementi "scandalosi": in 
                          una scena Lee Kang-sheng (l'attore-simbolo di Tsai Ming-liang, 
                          anch'egli presente alla retrospettiva romana, ndr) impersonerà 
                          un membro maschile contesto da due donne in un bagno 
                          pubblico. E tuttavia non sarà un musical escapista, 
                          anzi, attraverso il canto e la danza riporterà 
                          gli spettatori alla realtà invece che invitarli 
                          a sfuggirla. Perché il mio cinema non è 
                          mai una carezza, semmai uno schiaffo in pieno viso.
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