267 - 11.12.04


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Nell’occhio di Escher
Bert Treffers


In una lettera del 1920 Escher, appena ventiduenne, descrive in terza persona un’esperienza avuta mentre ascoltava uno di quei grandi organi, quasi unico ornamento delle chiese nordiche, protestanti. “D’improvviso”, così scrive, “nelle canne dell’organo si sollevò una tempesta e una voce tuonò annunciando la gloria di Dio. Il ragazzo si distese nel mezzo della chiesa sul freddo pavimento. Nell’uragano che sibilava, sentiva il suo cuore gonfiarsi... Neanche i pilastri della chiesa sembravano sopportare il suono. Prendevano vita, come un organismo che si desti improvvisamente e si tenda così energicamente che ad ogni istante potrebbe accadere l’irreparabile. Il giovane - continua Escher - si era sdraiato sulle fredde lastre distendendosi come sul punto di essere crocifisso. Si aggrappava alle pietre e capiva di giacere sulla madre Terra. Sentiva che la madre Terra era una sfera e con le braccia tese l’abbracciava quasi completamente. Sopra di lui poteva vedere i pilastri ondeggiare. Il vento soffiava ancora più impetuosamente nelle canne dell’organo. L’organo stesso ingigantiva; dal cielo le canne raggiungevano la terra e il giovane subiva la forza del vento fino al punto di sollevarsi dal pavimento e volare attraverso i pilastri ondeggianti”.

Fu un’esperienza fondamentale. In un disegno a penna probabilmente dello stesso anno, si vede l’interno della chiesa riflesso nella sfera di un lampadario di ottone come se fosse in una sfera magica. Sul pavimento giace un uomo. L’interno dell’edificio è assorbito dalla curvatura della sfera così che interno ed esterno diventano una cosa sola. Guardando indietro da una posizione elevata anche le piccole cose che appartengono alla terra diventano a loro volta rivelazioni celesti. E infatti, per Escher anche la vegetazione è “angelica”. Quando, nel 1922, Escher descrive una passeggiata nel bosco vicino a Siena, la sua esperienza assume dimensioni che si potrebbero definire estetico-mistiche: “Mi commuoveva sopra ogni cosa la vita angelica che cresce sulla terra. Non ho la minima idea di che specie di fiori cresca qui con tanta abbondanza: non conosco i loro nomi. Ma mi sono commosso a tal punto, che quando mi sedevo avevo cura di non schiacciare che pochissime erbe e piante con il mio corpo maldestro. (…) Mi sentivo vicino ai silenziosi, gioiosi, esuberanti, celestiali bambini del cielo. Sono così umili, così tranquilli e non gli importa neanche che tu li osservi nella loro bellezza (…) Nè importa loro se non li guarda affatto, sono semplicemente lì nel bosco e crescono e fioriscono ugualmente, in pace, con gioia e silenziosamente. Sono assolutamente sicuro che non sanno nulla del comportamento e della porcheria della gente... conoscono soltanto il cielo”.

La natura com’è innocente, dunque; com’è immacolata. Le piante sono pure come quei cristalli di quarzo che Escher aveva notato solo pochi mesi prima durante un’altra passeggiata, sempre fuori Siena: “Mentre tornavo”, scriveva in una lettera, “nel mio sentirmi ancora bambino provavo una grande gioia: vedevo tutto un luccicare di cristalli di quarzo…Giacciono accanto alla strada a decine, a migliaia. Mi chino e scelgo i più belli e li porto a casa, felice come fossero dei diamanti”. Fiori angelici, come cristalli, puri, riflessioni celesti, bambini del cielo, dunque, come lo stesso Escher il quale si sente anch’egli ‘bambino’, un bambino potenzialmente celeste, cristallo anch’egli. E, infatti, molti anni dopo, in una conferenza tenuta ad Alkmaar nel 1953, confessa: “l’ideale del vero artista consiste nel produrre una riflessione cristallina di se stesso”. Per Escher, “il talento di un artista non è determinato solo dalla qualità dei pensieri che vuole trasmettere... ma anche dalla capacità di esprimerli così bene da farli giungere agli altri senza alcuna distorsione. Il risultato della guerra tra pensiero e capacità di esprimerlo, tra sogno e realtà, è quasi sempre un compromesso o una approssimazione. Non riusciamo che raramente a raggiungere il grande pubblico e, in fondo, rimaniamo più che soddisfatti se siamo capiti edapprezzati da una minoranza di persone sensibili”.

Diventare lo specchio di se stessi; riflettere tutto ciò che è creato. Salire mentalmente al cielo limpido, per ritrovare la purezza di una terra incontaminata dalla presenza invadente degli uomini che non sanno più la loro origine divina e dimentichi dei loro limiti hanno perso ogni senso di umiltà. “E’ vero”, diceva nell’aprile 1952, “la nostra conoscenza è molto limitata, conosciamo soltanto una parte minuscola del mondo in cui viviamo”. E, poco prima, dichiarava ciò che può fornirci la chiave di lettura di tutte le sue opere: “Capire la relazione tra piano e spazio è, per me, fonte di emozione; e questa emozione mi è d’incitamento per creare un’immagine”. Elevarsi dal piano allo spazio che è sempre uno spazio vivente, cioè alzarsi in volo dalla linea grafica alla sfera immaginata, anche solo su carta, è per Escher un viaggio fisico, e allo stesso tempo mentale e addirittura spirituale. Scendere non è altro che il primo passo di quella salita metaforica di tradizione cristiana, la cui più alta espressione è la Divina Commedia. L’arte di Escher è, similmente al Cantico di frate Sole di San Francesco, il riflesso di un viaggio fondamentalmente circolare, cioè un viaggio che si compie in due direzioni opposte contemporaneamente. Tutte quelle figurine di monaci sulla scala, sul tetto di un edificio vagamente rinascimentale, scendono in un ininterrotto salire. E salgono scendendo. Per Escher, nella nostra mente terra e cielo non sono che un’unica cosa. Nella sfera magica dell’arte tutto si trasmuta. Le sue opere diventano finestre che si aprono sulla realtà stessa. L’artista è specchio vivente e contiene nella sfera del suo occhio l’immagine dell’intero cosmo, concentrando tutto ciò che vede come in una formula magica. Da vero giocoliere gioca con le regole della prospettiva evocando così un’armonia meravigliosamente impossibile.

Specialmente nell’ultima fase della sua vita, Escher riuscì a creare opere che, proprio per la costruzione meticolosa e sapiente di un’armonia paradossale, evocano un senso di libertà imbarazzante. Notte e giorno sono inesorabilmente legati. Il negativo dell’uno è l’identico opposto dell’altro. L’aria e il mare non sono che trasformazione continua della stessa cosa. I pesci volano, gli uccelli sono pesci. Le colline diventano onde del mare. Le onde del mare non sono che colline toscane che si muovono nell’occhio dell’artista. Diventando specchio, l’artista rispecchia il proprio riflettere. Questo è il messaggio del famoso autoritratto del 1935. Una mano regge uno specchio di cristallo e questa sfera riflette, non solo la stessa mano, ma anche l’artista stesso seduto nello studio di casa. Tutto ciò che è fuori dallo specchio esiste solo per dimostrare ciò che è dentro questa sfera di cristallo. Quel Narciso di vetro rivela la sua profondità nell’essere specchio; la vera realtà non è altro che la riflessione mentale di se stessi. Nella creazione artistica materia e spirito diventano una sola cosa. Qui Escher gioca con il concetto arcano della divinità del Creatore, anche del creatore umano.

Già 14 anni prima, egli aveva usato lo stesso motivo della mano che regge un oggetto. Ma in questa incisione sul legno del 1921, si tratta di una pigna. Anche qui è contenuto un messaggio preciso; la forma particolare della pigna sembra rinchiudere in sé tutte le altre forme possibili. La pigna ‘parla’; ma chi la fa parlare è proprio l’artista capace non solo di guardare ma, più importante, di vedere. Solo con l’occhio si può penetrare l’enigma del mondo, studiando sia le piccole cose sia l’insieme della creazione. “Voglio trovare la felicità nelle cose più piccole”, scriveva nel 1922, “e voglio realizzare ciò che da molto tempo desidero fare, cioè copiare quanto più sia possibile le cose infinitesimamente piccole consapevole delle loro dimensioni”. Durante il suo primo viaggio in Italia, Escher scriveva da Urbino dove si era recato il 29 aprile 1922, che doveva rimanervi per mesi “per imparare a capire queste colline ondulate e la vegetazione lussureggiante”.

Per Escher, l’occhio era uno strumento divino; vedere doveva diventare visione; e la visione elevarsi ad una visione pura da concretizzare però su carta. Solo quando lo spazio diventa linea, la linea può liberarsi nello spazio anche se solo immaginario. Per Escher, creare, cioè fare arte, era una forma di alchimia sapiente. Era un lavoro continuo, senza tregua; una missione, testimonianza di una religiosità mai espressa come tale. Una religiosità che spingeva l’artista olandese a tentare di unire tutto ciò che appariva frammentario. Tutta la sua arte assume così l’aspetto di una forma di pellegrinaggio continuo, secolare, ma sempre mentale. Il viaggio in Spagna, i viaggi in Italia erano anche viaggi attraverso se stesso, viaggi di recupero in cerca di una armonia che solo l’occhio poteva riscoprire in ogni cosa, in ogni paese, nella terra e nel mare. Navigare era per Escher una necessità spirituale. Amava le barche. Una xilografia del 1937 in apparenza non significativa rivela, in questo contesto, tutte le sue idee. Vi è raffigurato l’oblò della barca sulla quale viaggiava. La finestra è aperta. E proprio nell’oblò appare un’altra barca che quasi misteriosamente sembra essere sospesa in un mare che si scioglie nell’aria. Così la barca in cui Escher disegnava questa immagine si rispecchia nell’altra barca che appare nell’oblò. E quell’oblò stesso diventa occhio, specchio. Ogni immagine evoca l’altra, così da formare una catena ciclica. In una continua associazione tutte le immagini si trasformano in immagini che solo nel loro insieme rivelano il proprio significato. Sono riflessioni di un viaggio che non finisce se non con la morte. Questo viaggio dell’occhio, un viaggio in cui Escher cerca l’essenza delle cose create e della stessa creazione è insieme viaggio nell’occhio; un viaggio interiore che in un solo sguardo vuole capire le apparenze. Escher vuole entrare nelle cose perché solo così può penetrare anche in se stesso. Si tratta di un’aspirazione davvero prometea, una voglia estrema di creare come Dio. La sua temerarietà però rimane paradossalmente umile.

Esiste un autoritratto del 1920 circa, forse non molto originale. Qui l’artista si presenta come un vero demiurgo, spinto da un messianismo artistico tardo ottocentesco, noto per una serie di ritratti e autroritratti postromantici come quello del giovane pittore tedesco Anselm Feuerbach e l’altrettanto noto ritratto di un ancor giovane Dante Gabriel Rossetti. Tutto sembra concentrato nella parte alta del volto visto di fronte: le iridi intorno a due grandi buchi neri con i loro minuscoli punti di luce infuocano uno sguardo che vuole penetrare l’anima dell’artista stesso. Mettendosi davanti allo specchio, Escher ne ricava un’immagine premeditata e costruita su modelli preesistenti per trasmettere un messaggio preciso: solo attraverso il proprio sguardo si può conoscere se stessi. Un anno dopo, Escher costruiva un’altra immagine ugualmente rivelatrice: non si tratta però di un volto visto di fronte, ma di un teschio visto di profilo. Anche il teschio è posizionato nello stesso modo in cui lo era l’autoritratto di un anno prima. Qui la scatola cranica è costruita da un insieme di linee che nel loro andamento evocano una forza che trascende la stessa morte. Le cose spente, dunque, continuano ad esprimere una vitalità indomabile. Entrambe le immagini, quella dell’autoritratto e quella del teschio confluiranno molti anni più tardi in un’altra opera in cui nell’occhio, che ora occupa tutto lo spazio del foglio, appare proprio un teschio. Il vero autoritratto è l’occhio che vede. La morte che fa parte di noi, viene accolta dallo sguardo vivo che come specchio vivente supera tutti gli opposti.

Chi pensa che l’arte di Escher sia un’arte innocente, sbaglia. Si tratta sempre, anche per le immagini, semplici in apparenza, di una dichiarazione sulla divinità della creazione e sull’alto concetto che l’artista ha di sé e del proprio mestiere. In fondo anche una goccia di rugiada su una foglia verde contiene tutto il mondo. Anche nel doppio cerchio dell’acqua increspata si può scoprire lo stesso atto della creazione immanente che porta dalla linea alla sfera dell’occhio creativo. Anche qui la presenza dell’artista è un rito di passaggio. Si va dal nulla al tutto e dal tutto si ritorna all’origine biblica del libro della Genesi, a cui anni prima, nel 1925, a Roma, Escher aveva dedicato un gruppo di sei – non di sette! – xilografie. L’acqua del mare diventa l’acqua dell’occhio. Aprire l’occhio diventa creare. Creare diventa un viaggio di scoperta che alla fine porta alla realtà stessa come la cosa più magica che si possa immaginare. L’occhio – abbiamo visto – diventa barca e la barca nuota come volano i pesci. Nel piccolo stagno visto durante una passeggiata nel bosco si riflette il cielo. Qualcuno è passato in entrambe le direzioni. Qualcuno, dunque, ha attraversato questo stagno miracolosamente limpido che, come l’occhio dell’artista ha ricreato il mondo ricreando se stesso. Basta mettere accanto a questa immagine semplicissima due altri lavori, cioè Tre Sfere II del 1946 e Mani che disegnano di due anni successivo. Tramite l’artista, questo il messaggio, la creazione crea se stessa. Concetto di una mentalità quasi francescana corrispondente al profondo senso di umiltà che, se sono vere le notizie sull’Escher persona, avrebbe caratterizzato quel nordico fiammingo del Novecento.

Tutto ciò raggiunge una coerenza assoluta in due stampe facilmente comprensibili. In Balconata o Terrazzo del 1945, tutta la facciata del palazzo con vista sul mare diventa curva tanto da assumere la forma di una sfera. Sia chiaro che questa sfera è identica all’occhio di colui che abita lì, l’artista stesso. La città portuale italiana diventa metafora reale e viva non solo di tutta la creazione, ma anche del creatore divino nell’esecuzione della sua opera. Questo gioco serio con le forme torna anche nella Galleria di stampe del 1956 in cui Escher rievoca tutto il suo lavoro formulando allo stesso momento il proprio programma artistico. Qui un ragazzo sogna le opere dell’artista esposte alle pareti di una galleria sul mare dove una barca è pronta per partire o, forse, già di ritorno in porto. Il centro della litografia è vuoto. Dalla finestra una donna guarda la vita che passa. Un solo visitatore studia tranquillamente una delle opere esposte. Qui, Escher, usando tutta l’abilità di cui è capace, racconta la storia di una vita che non è nient’altro che continua metamorfosi. Metaformosi la cui fine e l’inizio sono armonizzati in un’immagine costruita sapientamente perchè contenente come in uno specchio tutto ciò che si può conoscere del mondo. Nella Liberazione del 1955 gli uccelli nascono dal niente per librarsi nel nulla: sono uccelli migratori come lo era lo stesso Escher.

 

Questo saggio è estratto dal catalogo (Electa) della mostra
Nell’occhio di Escher,
Roma, Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli
22 ottobre 2004 – 23 gennaio 2005.
Info Tel. 0639967800
www.museicapitolini.org

 

 

 

 

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