In
una lettera del 1920 Escher, appena ventiduenne, descrive
in terza persona un’esperienza avuta mentre ascoltava
uno di quei grandi organi, quasi unico ornamento delle
chiese nordiche, protestanti. “D’improvviso”,
così scrive, “nelle canne dell’organo
si sollevò una tempesta e una voce tuonò
annunciando la gloria di Dio. Il ragazzo si distese
nel mezzo della chiesa sul freddo pavimento. Nell’uragano
che sibilava, sentiva il suo cuore gonfiarsi... Neanche
i pilastri della chiesa sembravano sopportare il suono.
Prendevano vita, come un organismo che si desti improvvisamente
e si tenda così energicamente che ad ogni istante
potrebbe accadere l’irreparabile. Il giovane -
continua Escher - si era sdraiato sulle fredde lastre
distendendosi come sul punto di essere crocifisso. Si
aggrappava alle pietre e capiva di giacere sulla madre
Terra. Sentiva che la madre Terra era una sfera e con
le braccia tese l’abbracciava quasi completamente.
Sopra di lui poteva vedere i pilastri ondeggiare. Il
vento soffiava ancora più impetuosamente nelle
canne dell’organo. L’organo stesso ingigantiva;
dal cielo le canne raggiungevano la terra e il giovane
subiva la forza del vento fino al punto di sollevarsi
dal pavimento e volare attraverso i pilastri ondeggianti”.
Fu un’esperienza fondamentale. In un disegno
a penna probabilmente dello stesso anno, si vede l’interno
della chiesa riflesso nella sfera di un lampadario di
ottone come se fosse in una sfera magica. Sul pavimento
giace un uomo. L’interno dell’edificio è
assorbito dalla curvatura della sfera così che
interno ed esterno diventano una cosa sola. Guardando
indietro da una posizione elevata anche le piccole cose
che appartengono alla terra diventano a loro volta rivelazioni
celesti. E infatti, per Escher anche la vegetazione
è “angelica”. Quando, nel 1922, Escher
descrive una passeggiata nel bosco vicino a Siena, la
sua esperienza assume dimensioni che si potrebbero definire
estetico-mistiche: “Mi commuoveva sopra ogni cosa
la vita angelica che cresce sulla terra. Non ho la minima
idea di che specie di fiori cresca qui con tanta abbondanza:
non conosco i loro nomi. Ma mi sono commosso a tal punto,
che quando mi sedevo avevo cura di non schiacciare che
pochissime erbe e piante con il mio corpo maldestro.
(…) Mi sentivo vicino ai silenziosi, gioiosi,
esuberanti, celestiali bambini del cielo. Sono così
umili, così tranquilli e non gli importa neanche
che tu li osservi nella loro bellezza (…) Nè
importa loro se non li guarda affatto, sono semplicemente
lì nel bosco e crescono e fioriscono ugualmente,
in pace, con gioia e silenziosamente. Sono assolutamente
sicuro che non sanno nulla del comportamento e della
porcheria della gente... conoscono soltanto il cielo”.
La natura com’è innocente, dunque; com’è
immacolata. Le piante sono pure come quei cristalli
di quarzo che Escher aveva notato solo pochi mesi prima
durante un’altra passeggiata, sempre fuori Siena:
“Mentre tornavo”, scriveva in una lettera,
“nel mio sentirmi ancora bambino provavo una grande
gioia: vedevo tutto un luccicare di cristalli di quarzo…Giacciono
accanto alla strada a decine, a migliaia. Mi chino e
scelgo i più belli e li porto a casa, felice
come fossero dei diamanti”. Fiori angelici, come
cristalli, puri, riflessioni celesti, bambini del cielo,
dunque, come lo stesso Escher il quale si sente anch’egli
‘bambino’, un bambino potenzialmente celeste,
cristallo anch’egli. E, infatti, molti anni dopo,
in una conferenza tenuta ad Alkmaar nel 1953, confessa:
“l’ideale del vero artista consiste nel
produrre una riflessione cristallina di se stesso”.
Per Escher, “il talento di un artista non è
determinato solo dalla qualità dei pensieri che
vuole trasmettere... ma anche dalla capacità
di esprimerli così bene da farli giungere agli
altri senza alcuna distorsione. Il risultato della guerra
tra pensiero e capacità di esprimerlo, tra sogno
e realtà, è quasi sempre un compromesso
o una approssimazione. Non riusciamo che raramente a
raggiungere il grande pubblico e, in fondo, rimaniamo
più che soddisfatti se siamo capiti edapprezzati
da una minoranza di persone sensibili”.
Diventare lo specchio di se stessi; riflettere tutto
ciò che è creato. Salire mentalmente al
cielo limpido, per ritrovare la purezza di una terra
incontaminata dalla presenza invadente degli uomini
che non sanno più la loro origine divina e dimentichi
dei loro limiti hanno perso ogni senso di umiltà.
“E’ vero”, diceva nell’aprile
1952, “la nostra conoscenza è molto limitata,
conosciamo soltanto una parte minuscola del mondo in
cui viviamo”. E, poco prima, dichiarava ciò
che può fornirci la chiave di lettura di tutte
le sue opere: “Capire la relazione tra piano e
spazio è, per me, fonte di emozione; e questa
emozione mi è d’incitamento per creare
un’immagine”. Elevarsi dal piano allo spazio
che è sempre uno spazio vivente, cioè
alzarsi in volo dalla linea grafica alla sfera immaginata,
anche solo su carta, è per Escher un viaggio
fisico, e allo stesso tempo mentale e addirittura spirituale.
Scendere non è altro che il primo passo di quella
salita metaforica di tradizione cristiana, la cui più
alta espressione è la Divina Commedia. L’arte
di Escher è, similmente al Cantico di frate
Sole di San Francesco, il riflesso di un viaggio
fondamentalmente circolare, cioè un viaggio che
si compie in due direzioni opposte contemporaneamente.
Tutte quelle figurine di monaci sulla scala, sul tetto
di un edificio vagamente rinascimentale, scendono in
un ininterrotto salire. E salgono scendendo. Per Escher,
nella nostra mente terra e cielo non sono che un’unica
cosa. Nella sfera magica dell’arte tutto si trasmuta.
Le sue opere diventano finestre che si aprono sulla
realtà stessa. L’artista è specchio
vivente e contiene nella sfera del suo occhio l’immagine
dell’intero cosmo, concentrando tutto ciò
che vede come in una formula magica. Da vero giocoliere
gioca con le regole della prospettiva evocando così
un’armonia meravigliosamente impossibile.
Specialmente nell’ultima fase della sua vita,
Escher riuscì a creare opere che, proprio per
la costruzione meticolosa e sapiente di un’armonia
paradossale, evocano un senso di libertà imbarazzante.
Notte e giorno sono inesorabilmente legati. Il negativo
dell’uno è l’identico opposto dell’altro.
L’aria e il mare non sono che trasformazione continua
della stessa cosa. I pesci volano, gli uccelli sono
pesci. Le colline diventano onde del mare. Le onde del
mare non sono che colline toscane che si muovono nell’occhio
dell’artista. Diventando specchio, l’artista
rispecchia il proprio riflettere. Questo è il
messaggio del famoso autoritratto del 1935. Una mano
regge uno specchio di cristallo e questa sfera riflette,
non solo la stessa mano, ma anche l’artista stesso
seduto nello studio di casa. Tutto ciò che è
fuori dallo specchio esiste solo per dimostrare ciò
che è dentro questa sfera di cristallo. Quel
Narciso di vetro rivela la sua profondità
nell’essere specchio; la vera realtà
non è altro che la riflessione mentale di se
stessi. Nella creazione artistica materia e spirito
diventano una sola cosa. Qui Escher gioca con il concetto
arcano della divinità del Creatore, anche del
creatore umano.
Già 14 anni prima, egli aveva usato lo stesso
motivo della mano che regge un oggetto. Ma in questa
incisione sul legno del 1921, si tratta di una pigna.
Anche qui è contenuto un messaggio preciso; la
forma particolare della pigna sembra rinchiudere in
sé tutte le altre forme possibili. La pigna ‘parla’;
ma chi la fa parlare è proprio l’artista
capace non solo di guardare ma, più importante,
di vedere. Solo con l’occhio si può penetrare
l’enigma del mondo, studiando sia le piccole cose
sia l’insieme della creazione. “Voglio trovare
la felicità nelle cose più piccole”,
scriveva nel 1922, “e voglio realizzare ciò
che da molto tempo desidero fare, cioè copiare
quanto più sia possibile le cose infinitesimamente
piccole consapevole delle loro dimensioni”. Durante
il suo primo viaggio in Italia, Escher scriveva da Urbino
dove si era recato il 29 aprile 1922, che doveva rimanervi
per mesi “per imparare a capire queste colline
ondulate e la vegetazione lussureggiante”.
Per Escher, l’occhio era uno strumento divino;
vedere doveva diventare visione; e la visione elevarsi
ad una visione pura da concretizzare però su
carta. Solo quando lo spazio diventa linea, la linea
può liberarsi nello spazio anche se solo immaginario.
Per Escher, creare, cioè fare arte,
era una forma di alchimia sapiente. Era un lavoro continuo,
senza tregua; una missione, testimonianza di una religiosità
mai espressa come tale. Una religiosità che spingeva
l’artista olandese a tentare di unire tutto ciò
che appariva frammentario. Tutta la sua arte assume
così l’aspetto di una forma di pellegrinaggio
continuo, secolare, ma sempre mentale. Il viaggio in
Spagna, i viaggi in Italia erano anche viaggi attraverso
se stesso, viaggi di recupero in cerca di una armonia
che solo l’occhio poteva riscoprire in ogni cosa,
in ogni paese, nella terra e nel mare. Navigare era
per Escher una necessità spirituale. Amava le
barche. Una xilografia del 1937 in apparenza non significativa
rivela, in questo contesto, tutte le sue idee. Vi è
raffigurato l’oblò della barca sulla quale
viaggiava. La finestra è aperta. E proprio nell’oblò
appare un’altra barca che quasi misteriosamente
sembra essere sospesa in un mare che si scioglie nell’aria.
Così la barca in cui Escher disegnava questa
immagine si rispecchia nell’altra barca che appare
nell’oblò. E quell’oblò stesso
diventa occhio, specchio. Ogni immagine evoca l’altra,
così da formare una catena ciclica. In una continua
associazione tutte le immagini si trasformano in immagini
che solo nel loro insieme rivelano il proprio significato.
Sono riflessioni di un viaggio che non finisce se non
con la morte. Questo viaggio dell’occhio, un viaggio
in cui Escher cerca l’essenza delle cose create
e della stessa creazione è insieme viaggio nell’occhio;
un viaggio interiore che in un solo sguardo vuole capire
le apparenze. Escher vuole entrare nelle cose perché
solo così può penetrare anche in se stesso.
Si tratta di un’aspirazione davvero prometea,
una voglia estrema di creare come Dio. La sua temerarietà
però rimane paradossalmente umile.
Esiste un autoritratto del 1920 circa, forse non molto
originale. Qui l’artista si presenta come un vero
demiurgo, spinto da un messianismo artistico tardo ottocentesco,
noto per una serie di ritratti e autroritratti postromantici
come quello del giovane pittore tedesco Anselm Feuerbach
e l’altrettanto noto ritratto di un ancor giovane
Dante Gabriel Rossetti. Tutto sembra concentrato nella
parte alta del volto visto di fronte: le iridi intorno
a due grandi buchi neri con i loro minuscoli punti di
luce infuocano uno sguardo che vuole penetrare l’anima
dell’artista stesso. Mettendosi davanti allo specchio,
Escher ne ricava un’immagine premeditata e costruita
su modelli preesistenti per trasmettere un messaggio
preciso: solo attraverso il proprio sguardo si può
conoscere se stessi. Un anno dopo, Escher costruiva
un’altra immagine ugualmente rivelatrice: non
si tratta però di un volto visto di fronte, ma
di un teschio visto di profilo. Anche il teschio è
posizionato nello stesso modo in cui lo era l’autoritratto
di un anno prima. Qui la scatola cranica è costruita
da un insieme di linee che nel loro andamento evocano
una forza che trascende la stessa morte. Le cose spente,
dunque, continuano ad esprimere una vitalità
indomabile. Entrambe le immagini, quella dell’autoritratto
e quella del teschio confluiranno molti anni più
tardi in un’altra opera in cui nell’occhio,
che ora occupa tutto lo spazio del foglio, appare proprio
un teschio. Il vero autoritratto è l’occhio
che vede. La morte che fa parte di noi, viene accolta
dallo sguardo vivo che come specchio vivente supera
tutti gli opposti.
Chi pensa che l’arte di Escher sia un’arte
innocente, sbaglia. Si tratta sempre, anche per le immagini,
semplici in apparenza, di una dichiarazione sulla divinità
della creazione e sull’alto concetto che l’artista
ha di sé e del proprio mestiere. In fondo anche
una goccia di rugiada su una foglia verde contiene tutto
il mondo. Anche nel doppio cerchio dell’acqua
increspata si può scoprire lo stesso atto della
creazione immanente che porta dalla linea alla sfera
dell’occhio creativo. Anche qui la presenza dell’artista
è un rito di passaggio. Si va dal nulla al tutto
e dal tutto si ritorna all’origine biblica del
libro della Genesi, a cui anni prima, nel 1925, a Roma,
Escher aveva dedicato un gruppo di sei – non di
sette! – xilografie. L’acqua del mare diventa
l’acqua dell’occhio. Aprire l’occhio
diventa creare. Creare diventa un viaggio di scoperta
che alla fine porta alla realtà stessa come la
cosa più magica che si possa immaginare. L’occhio
– abbiamo visto – diventa barca e la barca
nuota come volano i pesci. Nel piccolo stagno visto
durante una passeggiata nel bosco si riflette il cielo.
Qualcuno è passato in entrambe le direzioni.
Qualcuno, dunque, ha attraversato questo stagno miracolosamente
limpido che, come l’occhio dell’artista
ha ricreato il mondo ricreando se stesso. Basta mettere
accanto a questa immagine semplicissima due altri lavori,
cioè Tre Sfere II del 1946 e Mani
che disegnano di due anni successivo. Tramite l’artista,
questo il messaggio, la creazione crea se stessa. Concetto
di una mentalità quasi francescana corrispondente
al profondo senso di umiltà che, se sono vere
le notizie sull’Escher persona, avrebbe caratterizzato
quel nordico fiammingo del Novecento.
Tutto ciò raggiunge una coerenza assoluta in
due stampe facilmente comprensibili. In Balconata
o Terrazzo del 1945, tutta la facciata del palazzo
con vista sul mare diventa curva tanto da assumere la
forma di una sfera. Sia chiaro che questa sfera è
identica all’occhio di colui che abita lì,
l’artista stesso. La città portuale italiana
diventa metafora reale e viva non solo di tutta la creazione,
ma anche del creatore divino nell’esecuzione della
sua opera. Questo gioco serio con le forme torna anche
nella Galleria di stampe del 1956 in cui Escher
rievoca tutto il suo lavoro formulando allo stesso momento
il proprio programma artistico. Qui un ragazzo sogna
le opere dell’artista esposte alle pareti di una
galleria sul mare dove una barca è pronta per
partire o, forse, già di ritorno in porto. Il
centro della litografia è vuoto. Dalla finestra
una donna guarda la vita che passa. Un solo visitatore
studia tranquillamente una delle opere esposte. Qui,
Escher, usando tutta l’abilità di cui è
capace, racconta la storia di una vita che non è
nient’altro che continua metamorfosi. Metaformosi
la cui fine e l’inizio sono armonizzati in un’immagine
costruita sapientamente perchè contenente come
in uno specchio tutto ciò che si può conoscere
del mondo. Nella Liberazione del 1955 gli uccelli
nascono dal niente per librarsi nel nulla: sono uccelli
migratori come lo era lo stesso Escher.
Questo saggio è estratto dal catalogo
(Electa) della mostra
Nell’occhio di Escher,
Roma, Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli
22 ottobre 2004 – 23 gennaio 2005.
Info Tel. 0639967800
www.museicapitolini.org
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