265 - 13.11.04


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Necessaria e inevitabile, come una poesia
Luca Sebastiani


“Ho sempre creduto che qualcosa (molto, per essere più preciso; quasi tutto, direi) dovesse mutare nella nostra società. So che questo mutamento si prepara da tanto tempo, forse da decenni. So che molti non vi credono o non lo vogliono e perciò riparano, racconciano, aggiustano quel che è troppo guasto, convinti che nessun crollo sia imminente. Intanto, un poco per giorno, il mondo muta”.
Così Franco Fortini, scomparso dieci anni fa, commentava La gronda, una sua poesia dell’inizio degli anni Sessanta, allegoria di una società capitalistica in disfacimento come una vecchia casa rabberciata che un giorno sarebbe crollata sotto il peso non-peso di una rondine utopica (un giorno, e non importa/ se non ci sarò io, basterà che una rondine/ si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti/ irreparabilmente, quella volando via). Continuava il poeta: “Sono vissuto spiando il giorno di quella caduta; e preparandolo. Anche con poesie come questa, preparandolo”.

In queste poche frasi è racchiusa tutta l’esperienza umana, politica e poetica di Fortini. È racchiusa la sua visione del mondo e di una poesia che doveva essere ‘impegnata’ non facendosi fanfara di questa o quell’ideologia, come Fortini aveva eccepito all’ingenuità di certo neorealismo, né ostentando uno sperimentalismo esasperato, spesso neoromantico, che rifiuti la comunicabilità e elimini il passato: ma una poesia che può essere impegnata solo attraverso il disvelamento continuo delle contraddizioni della Storia, dell’individuo, della poesia stessa.

Ecco allora il poeta Fortini, “sempre politico anche quando parla di alberi e di nidi” (come scrisse Pier Vincenzo Mengaldo) che nel proprio poetare fa cozzare una sorta di posa classica e fuori dal tempo della forma con le pulsioni dell’attualità politica dei contenuti; che rifiuta l’immediatezza e il lirismo e fa propria “la sublime lingua borghese” come mezzo di astrazione intellettuale per rendere evidente il rapporto necessariamente straniato tra poesia e realtà; un poetare, infine, che in qualche modo riesce provvisoriamente a risolvere, e positivamente, la contraddizione tra ideologia e poesia attraverso la forma allegorica che esibisce la tensione tra segno e senso.

Nella tematica ricorrente della marginalità dell’individuo e della poesia rispetto alla Storia, e alla comunque necessaria inevitabilità della parola (la poesia/ non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi), Fortini attiva una dialettica negativa che riflette la tragicità speculare che governa i destini storici e individuali. Non manca tuttavia una continua volontà utopica, una fiducia, anche se sempre frustrata, in un futuro che redimerà la Storia per poi, in un processo dialettico all’infinito, riaprirne le contraddizioni. Ecco allora che spesso l’allegoria fortiniana diviene vana, “buona a - come scrive Stefano Giovanardi - riportare in primo piano, sia pure in negativo, le ragioni dell’io”, fino all’ultima raccolta, Composita Salvantur, in cui il soggetto si fa spesso interprete “di un’ansia di sparizione, di definitivo cupio dissolvi, quasi che le ferite della storia avessero colmato la misura”.

Quello della Storia, con tutti i suoi corollari – dialettica, totalità, utopia, soggetto – è il tema costante di tutta l’esperienza fortiniana. E se il futuro si incarna nell’utopia dell’attesa e il passato è l’eredità da riscattare, da salvare e redimere, è il presente dell’osservazione, spesso dell’idillio, il punto da cui Fortini parte (Guardavo, ero ma sono./ Il mio verbo è al presente), perché “la sola cosa che importa è/ il movimento reale che abolisce/ lo stato di cose presente” parafrasando, e neanche troppo, Marx. Il presente è per Fortini il punto culminale e virtuale di compresenza di passato e futuro, dei vivi e dei morti, il punto figurale che racchiude il passato e si muove verso il futuro. Così l’idillio si fa allegoria, il frammento naturale e storico si trasformano in virtù di una luce, di una tensione che ne trascende i segni verso un senso di pienezza, seppur apparente.

Grande poeta dell’allegoria e della parabola, continuamente oscillante tra un lirismo non lirico e una piana meditazione, quella di Fortini è una poesia compatta come il suo verso, in cui il pathos è contenuto dalla “razionalizzazione dei mezzi retorici che si affida soprattutto al chiuso, al martellato, al senza-vuoti”, scrive Mengaldo. Una poesia in cui spesso il verso si fa sentenza e il discorso persuasione e intimazione, in cui Fortini fa “sprizzare un senso sghembo da abili ed efficaci accostamenti verbali, tra giocosi e virtuosistici”.

 

 

 

 

 

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