“Ho
sempre creduto che qualcosa (molto, per essere più
preciso; quasi tutto, direi) dovesse mutare nella nostra
società. So che questo mutamento si prepara da
tanto tempo, forse da decenni. So che molti non vi credono
o non lo vogliono e perciò riparano, racconciano,
aggiustano quel che è troppo guasto, convinti
che nessun crollo sia imminente. Intanto, un poco per
giorno, il mondo muta”.
Così Franco Fortini, scomparso dieci anni fa,
commentava La gronda, una sua poesia dell’inizio
degli anni Sessanta, allegoria di una società
capitalistica in disfacimento come una vecchia casa
rabberciata che un giorno sarebbe crollata sotto il
peso non-peso di una rondine utopica (un giorno,
e non importa/ se non ci sarò io, basterà
che una rondine/ si posi un attimo lì perché
tutto nel vuoto precipiti/ irreparabilmente, quella
volando via). Continuava il poeta: “Sono
vissuto spiando il giorno di quella caduta; e preparandolo.
Anche con poesie come questa, preparandolo”.
In queste poche frasi è racchiusa tutta l’esperienza
umana, politica e poetica di Fortini. È racchiusa
la sua visione del mondo e di una poesia che doveva
essere ‘impegnata’ non facendosi fanfara
di questa o quell’ideologia, come Fortini aveva
eccepito all’ingenuità di certo neorealismo,
né ostentando uno sperimentalismo esasperato,
spesso neoromantico, che rifiuti la comunicabilità
e elimini il passato: ma una poesia che può essere
impegnata solo attraverso il disvelamento continuo delle
contraddizioni della Storia, dell’individuo, della
poesia stessa.
Ecco allora il poeta Fortini, “sempre politico
anche quando parla di alberi e di nidi” (come
scrisse Pier Vincenzo Mengaldo) che nel proprio poetare
fa cozzare una sorta di posa classica e fuori dal tempo
della forma con le pulsioni dell’attualità
politica dei contenuti; che rifiuta l’immediatezza
e il lirismo e fa propria “la sublime lingua borghese”
come mezzo di astrazione intellettuale per rendere evidente
il rapporto necessariamente straniato tra poesia e realtà;
un poetare, infine, che in qualche modo riesce provvisoriamente
a risolvere, e positivamente, la contraddizione tra
ideologia e poesia attraverso la forma allegorica che
esibisce la tensione tra segno e senso.
Nella tematica ricorrente della marginalità
dell’individuo e della poesia rispetto alla Storia,
e alla comunque necessaria inevitabilità della
parola (la poesia/ non muta nulla. Nulla è
sicuro, ma scrivi), Fortini attiva una dialettica
negativa che riflette la tragicità speculare
che governa i destini storici e individuali. Non manca
tuttavia una continua volontà utopica, una fiducia,
anche se sempre frustrata, in un futuro che redimerà
la Storia per poi, in un processo dialettico all’infinito,
riaprirne le contraddizioni. Ecco allora che spesso
l’allegoria fortiniana diviene vana, “buona
a - come scrive Stefano Giovanardi - riportare in primo
piano, sia pure in negativo, le ragioni dell’io”,
fino all’ultima raccolta, Composita Salvantur,
in cui il soggetto si fa spesso interprete “di
un’ansia di sparizione, di definitivo cupio
dissolvi, quasi che le ferite della storia avessero
colmato la misura”.
Quello della Storia, con tutti i suoi corollari –
dialettica, totalità, utopia, soggetto –
è il tema costante di tutta l’esperienza
fortiniana. E se il futuro si incarna nell’utopia
dell’attesa e il passato è l’eredità
da riscattare, da salvare e redimere, è il presente
dell’osservazione, spesso dell’idillio,
il punto da cui Fortini parte (Guardavo, ero ma
sono./ Il mio verbo è al presente), perché
“la sola cosa che importa è/ il movimento
reale che abolisce/ lo stato di cose presente”
parafrasando, e neanche troppo, Marx. Il presente è
per Fortini il punto culminale e virtuale di compresenza
di passato e futuro, dei vivi e dei morti, il punto
figurale che racchiude il passato e si muove verso il
futuro. Così l’idillio si fa allegoria,
il frammento naturale e storico si trasformano in virtù
di una luce, di una tensione che ne trascende i segni
verso un senso di pienezza, seppur apparente.
Grande poeta dell’allegoria e della parabola,
continuamente oscillante tra un lirismo non lirico e
una piana meditazione, quella di Fortini è una
poesia compatta come il suo verso, in cui il pathos
è contenuto dalla “razionalizzazione dei
mezzi retorici che si affida soprattutto al chiuso,
al martellato, al senza-vuoti”, scrive Mengaldo.
Una poesia in cui spesso il verso si fa sentenza e il
discorso persuasione e intimazione, in cui Fortini fa
“sprizzare un senso sghembo da abili ed efficaci
accostamenti verbali, tra giocosi e virtuosistici”.
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