265 - 13.11.04


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Ritratto di un eroe irregolare
Paola Casella


Antonio Carioti, Di Vittorio,
il Mulino, pp. 170, Euro 12,00

Come si fa a raccontare una personalità carismatica come quella di Giuseppe Di Vittorio? Innazitutto si deve toglierla dall'agiografia: il leader sindacale più famoso d'Italia, e forse in assoluto il più amato, è stato infatti ricordato spesso più come un personaggio mitologico che come una figura storica. In verità Di Vittorio era sia un "eroe popolare" campione degli oppressi che un abile negoziatore e talvolta un visionario in materia politica, la cui esperienza va inquadrata nel contesto della storia d'Italia non per sminuirla ma per meglio apprezzarla e comprenderla.

Ci prova, e ci riesce, Antonio Carioti, collaboratore storico di Caffè Europa e oggi giornalista del Corriere della Sera, dove lavora alle pagine culturali. Nel suo breve ma intensissimo saggio intitolato semplicemente Di Vittorio, che fa parte della collana dedicata all'Identità italiana da il Mulino, Carioti propone una lettura meno romantica (e romanzesca) della figura del sindacalista pugliese per aprire la porta agli altri studiosi che vorranno approfondire le sue già approfonditissime ricerche.

Da un'analisi di fonti che spaziano dalle memorie familiari agli archivi sindacali, e mettendo a frutto una conoscenza della storia d'Italia frutto di un interesse e una passione politica personali, Carioti delinea nitidamente il ritratto di un uomo refrattario alle etichette, pragmatico e costruttivo, pronto ad esporsi in prima persona per difendere i suoi ideali (basti pensare ai suoi numerosi soggiorni carcerari), "irregolare" nella sua ostinazione a pensare con la propria testa, e dunque nella sua incapacità di "amalgamarsi com'era necessario al partito" - il partito comunista, s'intende - anche quando le pressioni erano più forti (e tuttavia Carioti non omette nessuno dei "cedimenti" divittoriani alla retorica dell'ortodossia stalinista).

La sua priorità, perseguita con estrema coerenza attraverso le alterne vicende della politica italiana dai primi anni del secolo fino alla sua morte nel '57, era quella di "mantenere i lavoratori uniti ad ogni costo", sapendo che qualunque scissione interna avrebbe significato "indebolire l'efficacia delle lotte e fare il gioco dei proprietari". Per questo Di Vittorio ha sempre voluto una "Cgil che non tutelasse solo i suoi iscritti o comunque gli occupati, ma viceversa rivolgesse un'attenzione prioritaria agli esclusi e ai più deboli" (qualcosa mi dice, o mi fa sperare, che oggi Di Vittorio sarebbe dalla parte dei milioni di lavoratori "flessibili", esclusi dalla tutela, o anche solo dall'interessamento, sindacale).

La sua comprensione del sindacato come soggetto politico con una sua autonomia dai partiti, la sua capacità di istituire un nesso "fra ricostruzione dell'identità nazionale e ascesa delle masse popolari", sono indici della sua indipendenza di pensiero, della sua lungimiranza e di quella raffinatezza politica della quale aveva già parlato Vittorio Foa. La sua trasformazione da capopopolo a dirigente sindacale concreto e responsabile, sempre coerente ai suoi principi di fondo e mai disposto a rinnegare le sue origini contadine e meridionali, è una parabola di saggezza, non solo politica. Particolarmente commovente, e confortante in questi tempi bui, è la "fiducia immensa e illimitata nel popolo italiano e nella sua capacità creatrice" professata da Di Vittorio non per retorica ma per profonda convinzione umana.

Con il saggio di Antonio Carioti, Di Vittorio esce dal mito ed entra nella storia. O meglio: nella storia Di Vittorio c'è entrato con le sue gambe, ma forse la storiografia italiana non gliene aveva ancora reso pienamente merito.

 

 

 

 

 

 

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