Antonio
Carioti, Di Vittorio,
il Mulino, pp. 170, Euro 12,00
Come si fa a raccontare una personalità carismatica
come quella di Giuseppe Di Vittorio? Innazitutto si
deve toglierla dall'agiografia: il leader sindacale
più famoso d'Italia, e forse in assoluto il più
amato, è stato infatti ricordato spesso più
come un personaggio mitologico che come una figura storica.
In verità Di Vittorio era sia un "eroe popolare"
campione degli oppressi che un abile negoziatore e talvolta
un visionario in materia politica, la cui esperienza
va inquadrata nel contesto della storia d'Italia non
per sminuirla ma per meglio apprezzarla e comprenderla.
Ci prova, e ci riesce, Antonio Carioti, collaboratore
storico di Caffè Europa e oggi giornalista del
Corriere della Sera, dove lavora alle pagine culturali.
Nel suo breve ma intensissimo saggio intitolato semplicemente
Di Vittorio, che fa parte della collana dedicata
all'Identità italiana da il Mulino,
Carioti propone una lettura meno romantica (e romanzesca)
della figura del sindacalista pugliese per aprire la
porta agli altri studiosi che vorranno approfondire
le sue già approfonditissime ricerche.
Da un'analisi di fonti che spaziano dalle memorie familiari
agli archivi sindacali, e mettendo a frutto una conoscenza
della storia d'Italia frutto di un interesse e una passione
politica personali, Carioti delinea nitidamente il ritratto
di un uomo refrattario alle etichette, pragmatico e
costruttivo, pronto ad esporsi in prima persona per
difendere i suoi ideali (basti pensare ai suoi numerosi
soggiorni carcerari), "irregolare" nella sua
ostinazione a pensare con la propria testa, e dunque
nella sua incapacità di "amalgamarsi com'era
necessario al partito" - il partito comunista,
s'intende - anche quando le pressioni erano più
forti (e tuttavia Carioti non omette nessuno dei "cedimenti"
divittoriani alla retorica dell'ortodossia stalinista).
La sua priorità, perseguita con estrema coerenza
attraverso le alterne vicende della politica italiana
dai primi anni del secolo fino alla sua morte nel '57,
era quella di "mantenere i lavoratori uniti ad
ogni costo", sapendo che qualunque scissione interna
avrebbe significato "indebolire l'efficacia delle
lotte e fare il gioco dei proprietari". Per questo
Di Vittorio ha sempre voluto una "Cgil che non
tutelasse solo i suoi iscritti o comunque gli occupati,
ma viceversa rivolgesse un'attenzione prioritaria agli
esclusi e ai più deboli" (qualcosa mi dice,
o mi fa sperare, che oggi Di Vittorio sarebbe dalla
parte dei milioni di lavoratori "flessibili",
esclusi dalla tutela, o anche solo dall'interessamento,
sindacale).
La sua comprensione del sindacato come soggetto politico
con una sua autonomia dai partiti, la sua capacità
di istituire un nesso "fra ricostruzione dell'identità
nazionale e ascesa delle masse popolari", sono
indici della sua indipendenza di pensiero, della sua
lungimiranza e di quella raffinatezza politica della
quale aveva già parlato Vittorio Foa. La sua
trasformazione da capopopolo a dirigente sindacale concreto
e responsabile, sempre coerente ai suoi principi di
fondo e mai disposto a rinnegare le sue origini contadine
e meridionali, è una parabola di saggezza, non
solo politica. Particolarmente commovente, e confortante
in questi tempi bui, è la "fiducia immensa
e illimitata nel popolo italiano e nella sua capacità
creatrice" professata da Di Vittorio non per retorica
ma per profonda convinzione umana.
Con il saggio di Antonio Carioti, Di Vittorio esce
dal mito ed entra nella storia. O meglio: nella storia
Di Vittorio c'è entrato con le sue gambe, ma
forse la storiografia italiana non gliene aveva ancora
reso pienamente merito.
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