I mezzi di
comunicazione di massa, in particolare la televisione,
come “lettori di tarocchi, che parlano al cuore
del pubblico mirando al suo portafoglio”. Ospiti
rassicuranti e graditi in ogni abitazione, che ci propinano
valanghe di immagini e notizie, travolgendoci e a volte
– perché no? – divertendoci. Noi
ignari spettatori, però, spesso non sappiamo
– o non ci rendiamo conto – che il magma
audiovisivo che invade le nostre esistenze ci arriva
secondo modalità di trasmissione tutt’altro
che scomposte e irrazionali. Al contrario: è
da schemi di comunicazione complessi, organizzati in
un’architettura stratificata di singoli codici
e segni, concepiti e utilizzati per fini altamente diversificati,
che deriva il piacere della fruizione televisiva. E
il suo ascendente su chi la guarda. In tal senso, il
titolo dell’ultimo saggio di Stefano Balassone,
“Piaceri e poteri della Tv”, pare
decisamente significativo nel ribadire, con un quasi
ossimoro, la netta inferiorità dello spettatore
nei confronti del tubo catodico, che al tempo stesso
lo fa svagare e lo imbonisce. Peraltro, l’obiettivo
di questo testo, scritto da un ex consigliere Rai, ora
amministratore delegato di Interferenze s.p.a., società
specializzata nella progettazione di format di comunicazione
multimediale, è proprio quello di fare ordine,
decodificando e destrutturando le regole ferree del
linguaggio televisivo, per insegnarci a capire questo
“incanto senza farsi incantare”.
La tv è, per il modo stesso in cui viene consumata,
la fiera degli elementi strutturali costanti, che negli
altri mezzi di comunicazione restano sottostanti e inavvertiti,
o che solo raramente, come nelle situazioni di raddoppiamento
(teatro nel teatro, cinema nel cinema) vengono in evidenza.
Questa immediata riconoscibilità agli occhi di
uno spettatore che si sveglia di soprassalto è
l’elemento genetico che fa entrare il tubo catodico
nella cerchia dei rapporti familiari e la fa mimetizzare
nella quotidianità. Il “ridestato”
che stropicciandosi gli occhi riconosce senza fatica
la situazione tipica del telegiornale, compie lo stesso,
abitudinario gesto mentale che gli fa riconoscere, risveglio
dopo risveglio, nella moglie che gli dorme accanto non
un’estranea, nel cane accucciato vicino alla poltrona
un animale domestico e non un invasore. Allo stesso
tempo, il trionfo della normalità, della vita
così com’è, in tv risulta falsato
e in un certo senso infranto. Ed è l’inganno
implicito perpetrato, per sua stessa natura, dal concetto
di format, a cui Balassone dedica un intero capitolo.
“Il sor Checco che va in tv non è il solito
Checco, ma, che lo voglia o no, la statua equestre di
se medesimo”. Per questo, accostamenti di personaggi,
ospiti eventualmente invitati, cronologia degli avvenimenti
e sequenza delle storie raccontate devono seguire una
precisa logica, pena la perdita dell’effetto di
verosimiglianza e di immedesimazione.
Il volume, frutto delle discussioni avute con gli studenti
di linguaggio audiovisivo presso le università
di Cassino, Napoli e Perugia, dove Balassone insegna,
è pertanto suddiviso in quattro grandi sezioni,
corredate di mappe, griglie e grafici; quattro tappe
di un viaggio nel comunicare che parte dai sensi, passa
per la semiotica e giunge infine ai generi televisivi,
per concludere con una serie di interrogativi –
aperti – sull’intrinseca ambiguità
del “raccontare storie”, che ricostruendo
la realtà in maniera artificiosa finisce per
incapsularla in un labirinto di codici dove il concetto
di verità perde ogni possibile significato. Nel
dialogo, ogni segno “varia da momento a momento
e a seconda di chi lo esprime e lo riceve”. “I
media stessi”, scrive Balassone, “sono talmente
consapevoli della propria natura vera/falsa da grondare
della reciproca accusa di praticare la menzogna e da
dedicare intere trasmissioni all’argomento”.
Dall’informazione alla fiction, dalla pubblicità
al reality show, dalla satira allo spettacolo, il minimo
comun denominatore del linguaggio radiotelevisivo è
la complessità travestita da semplicità,
ammantata di “simboli e stereotipi narrativi che
sono, come è facile comprendere vista la centralità
della loro funzione comunicazionale, fondamenta dell’identità
comunitaria condivisa in quanto in essi prendono forma
relazioni immediatamente riconoscibili fra i dati di
un racconto”. Per trasformare la televisione,
conclude l’autore, nel romanzo popolare permanente
che da sempre è. A prescindere da quel che racconta.
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