265 - 13.11.04


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Il fascino della Tv cantastorie
Chiara Rizzo


I mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, come “lettori di tarocchi, che parlano al cuore del pubblico mirando al suo portafoglio”. Ospiti rassicuranti e graditi in ogni abitazione, che ci propinano valanghe di immagini e notizie, travolgendoci e a volte – perché no? – divertendoci. Noi ignari spettatori, però, spesso non sappiamo – o non ci rendiamo conto – che il magma audiovisivo che invade le nostre esistenze ci arriva secondo modalità di trasmissione tutt’altro che scomposte e irrazionali. Al contrario: è da schemi di comunicazione complessi, organizzati in un’architettura stratificata di singoli codici e segni, concepiti e utilizzati per fini altamente diversificati, che deriva il piacere della fruizione televisiva. E il suo ascendente su chi la guarda. In tal senso, il titolo dell’ultimo saggio di Stefano Balassone, “Piaceri e poteri della Tv”, pare decisamente significativo nel ribadire, con un quasi ossimoro, la netta inferiorità dello spettatore nei confronti del tubo catodico, che al tempo stesso lo fa svagare e lo imbonisce. Peraltro, l’obiettivo di questo testo, scritto da un ex consigliere Rai, ora amministratore delegato di Interferenze s.p.a., società specializzata nella progettazione di format di comunicazione multimediale, è proprio quello di fare ordine, decodificando e destrutturando le regole ferree del linguaggio televisivo, per insegnarci a capire questo “incanto senza farsi incantare”.

La tv è, per il modo stesso in cui viene consumata, la fiera degli elementi strutturali costanti, che negli altri mezzi di comunicazione restano sottostanti e inavvertiti, o che solo raramente, come nelle situazioni di raddoppiamento (teatro nel teatro, cinema nel cinema) vengono in evidenza. Questa immediata riconoscibilità agli occhi di uno spettatore che si sveglia di soprassalto è l’elemento genetico che fa entrare il tubo catodico nella cerchia dei rapporti familiari e la fa mimetizzare nella quotidianità. Il “ridestato” che stropicciandosi gli occhi riconosce senza fatica la situazione tipica del telegiornale, compie lo stesso, abitudinario gesto mentale che gli fa riconoscere, risveglio dopo risveglio, nella moglie che gli dorme accanto non un’estranea, nel cane accucciato vicino alla poltrona un animale domestico e non un invasore. Allo stesso tempo, il trionfo della normalità, della vita così com’è, in tv risulta falsato e in un certo senso infranto. Ed è l’inganno implicito perpetrato, per sua stessa natura, dal concetto di format, a cui Balassone dedica un intero capitolo. “Il sor Checco che va in tv non è il solito Checco, ma, che lo voglia o no, la statua equestre di se medesimo”. Per questo, accostamenti di personaggi, ospiti eventualmente invitati, cronologia degli avvenimenti e sequenza delle storie raccontate devono seguire una precisa logica, pena la perdita dell’effetto di verosimiglianza e di immedesimazione.

Il volume, frutto delle discussioni avute con gli studenti di linguaggio audiovisivo presso le università di Cassino, Napoli e Perugia, dove Balassone insegna, è pertanto suddiviso in quattro grandi sezioni, corredate di mappe, griglie e grafici; quattro tappe di un viaggio nel comunicare che parte dai sensi, passa per la semiotica e giunge infine ai generi televisivi, per concludere con una serie di interrogativi – aperti – sull’intrinseca ambiguità del “raccontare storie”, che ricostruendo la realtà in maniera artificiosa finisce per incapsularla in un labirinto di codici dove il concetto di verità perde ogni possibile significato. Nel dialogo, ogni segno “varia da momento a momento e a seconda di chi lo esprime e lo riceve”. “I media stessi”, scrive Balassone, “sono talmente consapevoli della propria natura vera/falsa da grondare della reciproca accusa di praticare la menzogna e da dedicare intere trasmissioni all’argomento”. Dall’informazione alla fiction, dalla pubblicità al reality show, dalla satira allo spettacolo, il minimo comun denominatore del linguaggio radiotelevisivo è la complessità travestita da semplicità, ammantata di “simboli e stereotipi narrativi che sono, come è facile comprendere vista la centralità della loro funzione comunicazionale, fondamenta dell’identità comunitaria condivisa in quanto in essi prendono forma relazioni immediatamente riconoscibili fra i dati di un racconto”. Per trasformare la televisione, conclude l’autore, nel romanzo popolare permanente che da sempre è. A prescindere da quel che racconta.

 

 

 

 

 

 

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