Un giornalista americano ha scritto che Wim Wenders
sembra la caricatura del regista impegnato europeo,
per via dei capelli scarmigliati, dell'abbigliamento
total black, dell'aspetto stazzonato che
strilla “intellettuale di sinistra”. E'
vero: anche visto di persona il regista tedesco autore
di capolavori come L'amico americano e Paris,
Texas - ma anche di divertissment cine-musicali
come Buena Vista Social Club - appare come
il classico radical chic, di quella generazione
di tardo cinquantenni - lui è del '45 - che
hanno fatto, o anche solo visto, il '68. Aggiungerei
l'elemento genio e sregolatezza che in genere trapela
dalle sue risposte, nette e talvolta un po' categoriche,
che gli hanno meritato la reputazione di regista “opinionated”,
cioè dalle opinioni forti, e pieno di voglia
di dar loro voce.
Ma questa conversazione con Wenders a proposito del
suo ultimo film, Land of Plenty - La
terra dell'abbondanza, che ha partecipato in
concorso all'ultima Mostra del cinema di Venezia e
adesso è in cartellone nelle sale cinematografiche
di mezza Europa, non ha i toni accesi che ci si potrebbe
aspettare dal regista. E anche il film, che racconta
l'America del dopo 11 settembre, non vuole essere
provocatorio - se non nel senso anglosassone di “thought
provoking”, cioè di invito alla
riflessione -. Nelle parole dello stesso Wenders,
La terra dell’abbondanza è un
film “politico, ma non polemico”.
La provocazione allora ce la mettiamo noi, facendoci
occasionalmente avvocati del diavolo, nel tentativo
di fare uscire Wenders allo scoperto. Anche se lui,
come la giovane protagonista del suo film, sembra
aver raggiunto una forma di saggezza che lo tiene
lontano dalle facili esternazioni.
E' giusto, o anche solo opportuno, che sia
un regista europeo a raccontare l'America del dopo
11 settembre?
Più che altro direi che è naturale:
l'Europa è pesantemente coinvolta nell'escalation
che è seguita a quell'evento tragico, dall'invasione
dell'Iraq all'odio indiscriminato contro la popolazione
mussulmana. Inoltre credo che in questo momento un
regista europeo possa fornire una lettura più
lucida e allo stesso tempo più profonda di
ciò che sta succedendo oltreoceano. Del resto
non è una novità: pensiamo a un film
visionario come Un uomo da marciapiede dell'inglese
John Schlesinger, che riuscì a descrivere l'America
di fine anni Sessanta in modo altrettanto efficace
di altri film suoi contemporanei, come Il laureato
e Easy Rider, girati da registi quintessenzialmente
statunitensi.
Tuttavia La terra dell’abbondanza
non si lascia andare a facili giudizi sull'America
contemporanea. Anzi, direi quasi che opera una sospensione
di giudizio.
Non sta a me giudicare ciò che vedo, ma solo
raccontarlo nel modo più onesto possibile.
Per questo ho affidato la storia a due personaggi
agli antipodi, ma entrambi esempi di come si possa
essere americani oggi. John Dahl interpreta il ruolo
di Paul, un reduce dal Vietnam che ha re-visionato
la sconfitta americana in quella circostanza come
se fosse stata una vittoria e dopo l'11 settembre
si è dato il compito di sventare ogni cospirazione
antiamericana, soprattutto se di matrice araba. Il
suo personaggio sta esattamente a metà fra
il patriottico e il paranoico, cosa che attualmente
si potrebbe dire di molti americani. E John ha fatto
un ottimo lavoro nel non ridicolizzare il suo ruolo,
nel permettere che sotto la sua superficie macchiettistica
si leggesse un dolore vero, e persino quella forma
di ingenuità che, sotto sotto, lo accomuna
alla sua nipotina.
La nipotina Lana, interpretata magistralmente da
Michelle Williams, è invece un'epitome di purezza
incontaminata, una ragazza che dal contatto con la
sofferenza e con la guerra - poiché ha vissuto
con i genitori, operatori di pace in Medioriente -
ha imparato una lezione di amore e tolleranza che
solo casualmente assume una veste religiosa.
Il cristianesimo missionario e quasi messianico
che anima Lana ha dato luogo a qualche polemica, come
se, attraverso il personaggio della ragazza, lei avesse
voluto contrapporre una religione "buona"
a una, quella islamica, attualmente sotto accusa.
Io sono cristiano, e non me ne vergogno, ma detesto
i fondamentalisti come Bush, e detesto qualunque forma
di fanatismo ideologico. Non ho voluto affatto creare
contrapposizioni come quelle delle quali sono accusato,
anzi, ho insistito perché all'interno del mio
film ci fosse un personaggio di religione islamica
- il fratello di un pakistano ucciso in un attacco
razzista, ndr - animato dagli stessi valori di amore
e tolleranza della protagonista, con la quale infatti
instaura un dialogo immediato. Quello che mi premeva
dire è che una politica che toglie ai poveri
per dare ai ricchi non fa parte del mio libro del
cristianesimo, e volevo che Lana simboleggiasse proprio
la vastità del divario che esiste fra il fondamentalismo
fanatico e la cristianità vera.
Dal punto di vista meramente visivo, il suo
film è costellato di pieni e di vuoti: dalle
lande deserte dell'America del sudovest al furgoncino
di Paul sovraffollato di ritagli e attrezzature paramilitari,
per chiudere con una lunga scena girata sul luogo
dove si trovavano le Torri Gemelle prima dell'11 settembre.
Beh, Ground Zero non è un vuoto metaforico,
ma un vuoto reale, una vera e propria voragine in
mezzo a una selva di grattacieli. Ma è vero
che per me è stato importante filmarlo prima
che venisse riempito, a testimonianza di uno spazio
dove ciò che era verticale è diventato
profondo, costringendo molti americani ad andare oltre
la propria superficialità, oltre la propria
determinazione a puntare sempre e comunque verso l'alto
senza preoccuparsi di ciò che si nasconde nelle
fondamenta del loro stesso Paese.
C'è una lunga sequenza di La terra
dell’abbondanza che si snoda attraverso
l'America come un road movie, e il film comincia
e finisce in due metropoli, Los Angeles e New York,
sulle sponde opposte del continente nordamericano.
Che importanza hanno avuto queste location?
I miei film nascono dalle sensazioni che mi danno
certi luoghi: è stato così per Lisbon
Story e Buena Vista Social Club, ovviamente,
ma anche per Paris, Texas, al quale faccio
una specie di omaggio con l'excursus di Lana e Paul
nella cittadina sperduta di Trona, California. Mi
interessava innanzitutto mostrare l'altra faccia di
Los Angeles, quella che si vede raramente nei film
hollywoodiani, e che contraddice visibilmente certo
ottimismo americano, secondo cui gli Stati Uniti restano
sempre la terra dell'opportunità: in certi
quartieri di Downtown Los Angeles c'è una tale
povertà, ci sono un tale degrado e un tale
abbrutimento umano, che parlare di opportunità
sembra una bestemmia. Il viaggio coast to coast che
i due protagonisti compiono è un modo per mostrare
le tante facce dell'America, che non è un monolite
come vorrebbe il presidente Bush, ma è composto
da molte realtà sociali, economiche e politiche,
molte delle quali non si sentono per nulla rappresentate
dall'attuale amministrazione. Infine New York è
la città che sta al principio dell'escalation
alla quale accennavo prima, e dunque per i due protagonisti
della storia arrivarci è come risalire la corrente
per arrivare alla fonte, e provare a capire.
Lei parla degli Stati Uniti, e li racconta
in La terra dell’abbondanza, in modo
critico ma amorevole, a tratti quasi celebrativo.
Crede ancora nel sogno americano?
Io credo ancora nella gente che abita quel grande
Paese, e in certi loro valori di democrazia e libertà
che non sono venuti meno neanche in questo periodo
di paura e smarrimento. Viaggio volentieri in America
e ci lavoro spesso proprio perché mi trovo
bene con la gente, che accoglie me, un europeo, e
per di più un tedesco, con un'apertura mentale
che per molti anti-americani dell'ultima ora sarebbe
impensabile. La terra dell’abbondanza
è una lettera d'amore a un Paese che dovrebbe
prendere la tragedia dell'11 settembre come un'opportunità
per crescere, non come un pretesto per regredire.
E’ possibile consultare il sito di Wim
Wenders all’indirizzo web: www.wim-wenders.com
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