263 - 16.01.04


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All'America, con amore
Wim Wenders con Paola Casella

Un giornalista americano ha scritto che Wim Wenders sembra la caricatura del regista impegnato europeo, per via dei capelli scarmigliati, dell'abbigliamento total black, dell'aspetto stazzonato che strilla “intellettuale di sinistra”. E' vero: anche visto di persona il regista tedesco autore di capolavori come L'amico americano e Paris, Texas - ma anche di divertissment cine-musicali come Buena Vista Social Club - appare come il classico radical chic, di quella generazione di tardo cinquantenni - lui è del '45 - che hanno fatto, o anche solo visto, il '68. Aggiungerei l'elemento genio e sregolatezza che in genere trapela dalle sue risposte, nette e talvolta un po' categoriche, che gli hanno meritato la reputazione di regista “opinionated”, cioè dalle opinioni forti, e pieno di voglia di dar loro voce.

Ma questa conversazione con Wenders a proposito del suo ultimo film, Land of Plenty - La terra dell'abbondanza, che ha partecipato in concorso all'ultima Mostra del cinema di Venezia e adesso è in cartellone nelle sale cinematografiche di mezza Europa, non ha i toni accesi che ci si potrebbe aspettare dal regista. E anche il film, che racconta l'America del dopo 11 settembre, non vuole essere provocatorio - se non nel senso anglosassone di “thought provoking”, cioè di invito alla riflessione -. Nelle parole dello stesso Wenders, La terra dell’abbondanza è un film “politico, ma non polemico”.

La provocazione allora ce la mettiamo noi, facendoci occasionalmente avvocati del diavolo, nel tentativo di fare uscire Wenders allo scoperto. Anche se lui, come la giovane protagonista del suo film, sembra aver raggiunto una forma di saggezza che lo tiene lontano dalle facili esternazioni.


E' giusto, o anche solo opportuno, che sia un regista europeo a raccontare l'America del dopo 11 settembre?

Più che altro direi che è naturale: l'Europa è pesantemente coinvolta nell'escalation che è seguita a quell'evento tragico, dall'invasione dell'Iraq all'odio indiscriminato contro la popolazione mussulmana. Inoltre credo che in questo momento un regista europeo possa fornire una lettura più lucida e allo stesso tempo più profonda di ciò che sta succedendo oltreoceano. Del resto non è una novità: pensiamo a un film visionario come Un uomo da marciapiede dell'inglese John Schlesinger, che riuscì a descrivere l'America di fine anni Sessanta in modo altrettanto efficace di altri film suoi contemporanei, come Il laureato e Easy Rider, girati da registi quintessenzialmente statunitensi.

Tuttavia La terra dell’abbondanza non si lascia andare a facili giudizi sull'America contemporanea. Anzi, direi quasi che opera una sospensione di giudizio.

Non sta a me giudicare ciò che vedo, ma solo raccontarlo nel modo più onesto possibile. Per questo ho affidato la storia a due personaggi agli antipodi, ma entrambi esempi di come si possa essere americani oggi. John Dahl interpreta il ruolo di Paul, un reduce dal Vietnam che ha re-visionato la sconfitta americana in quella circostanza come se fosse stata una vittoria e dopo l'11 settembre si è dato il compito di sventare ogni cospirazione antiamericana, soprattutto se di matrice araba. Il suo personaggio sta esattamente a metà fra il patriottico e il paranoico, cosa che attualmente si potrebbe dire di molti americani. E John ha fatto un ottimo lavoro nel non ridicolizzare il suo ruolo, nel permettere che sotto la sua superficie macchiettistica si leggesse un dolore vero, e persino quella forma di ingenuità che, sotto sotto, lo accomuna alla sua nipotina.

La nipotina Lana, interpretata magistralmente da Michelle Williams, è invece un'epitome di purezza incontaminata, una ragazza che dal contatto con la sofferenza e con la guerra - poiché ha vissuto con i genitori, operatori di pace in Medioriente - ha imparato una lezione di amore e tolleranza che solo casualmente assume una veste religiosa.

Il cristianesimo missionario e quasi messianico che anima Lana ha dato luogo a qualche polemica, come se, attraverso il personaggio della ragazza, lei avesse voluto contrapporre una religione "buona" a una, quella islamica, attualmente sotto accusa.

Io sono cristiano, e non me ne vergogno, ma detesto i fondamentalisti come Bush, e detesto qualunque forma di fanatismo ideologico. Non ho voluto affatto creare contrapposizioni come quelle delle quali sono accusato, anzi, ho insistito perché all'interno del mio film ci fosse un personaggio di religione islamica - il fratello di un pakistano ucciso in un attacco razzista, ndr - animato dagli stessi valori di amore e tolleranza della protagonista, con la quale infatti instaura un dialogo immediato. Quello che mi premeva dire è che una politica che toglie ai poveri per dare ai ricchi non fa parte del mio libro del cristianesimo, e volevo che Lana simboleggiasse proprio la vastità del divario che esiste fra il fondamentalismo fanatico e la cristianità vera.

Dal punto di vista meramente visivo, il suo film è costellato di pieni e di vuoti: dalle lande deserte dell'America del sudovest al furgoncino di Paul sovraffollato di ritagli e attrezzature paramilitari, per chiudere con una lunga scena girata sul luogo dove si trovavano le Torri Gemelle prima dell'11 settembre.

Beh, Ground Zero non è un vuoto metaforico, ma un vuoto reale, una vera e propria voragine in mezzo a una selva di grattacieli. Ma è vero che per me è stato importante filmarlo prima che venisse riempito, a testimonianza di uno spazio dove ciò che era verticale è diventato profondo, costringendo molti americani ad andare oltre la propria superficialità, oltre la propria determinazione a puntare sempre e comunque verso l'alto senza preoccuparsi di ciò che si nasconde nelle fondamenta del loro stesso Paese.

C'è una lunga sequenza di La terra dell’abbondanza che si snoda attraverso l'America come un road movie, e il film comincia e finisce in due metropoli, Los Angeles e New York, sulle sponde opposte del continente nordamericano. Che importanza hanno avuto queste location?

I miei film nascono dalle sensazioni che mi danno certi luoghi: è stato così per Lisbon Story e Buena Vista Social Club, ovviamente, ma anche per Paris, Texas, al quale faccio una specie di omaggio con l'excursus di Lana e Paul nella cittadina sperduta di Trona, California. Mi interessava innanzitutto mostrare l'altra faccia di Los Angeles, quella che si vede raramente nei film hollywoodiani, e che contraddice visibilmente certo ottimismo americano, secondo cui gli Stati Uniti restano sempre la terra dell'opportunità: in certi quartieri di Downtown Los Angeles c'è una tale povertà, ci sono un tale degrado e un tale abbrutimento umano, che parlare di opportunità sembra una bestemmia. Il viaggio coast to coast che i due protagonisti compiono è un modo per mostrare le tante facce dell'America, che non è un monolite come vorrebbe il presidente Bush, ma è composto da molte realtà sociali, economiche e politiche, molte delle quali non si sentono per nulla rappresentate dall'attuale amministrazione. Infine New York è la città che sta al principio dell'escalation alla quale accennavo prima, e dunque per i due protagonisti della storia arrivarci è come risalire la corrente per arrivare alla fonte, e provare a capire.

Lei parla degli Stati Uniti, e li racconta in La terra dell’abbondanza, in modo critico ma amorevole, a tratti quasi celebrativo. Crede ancora nel sogno americano?

Io credo ancora nella gente che abita quel grande Paese, e in certi loro valori di democrazia e libertà che non sono venuti meno neanche in questo periodo di paura e smarrimento. Viaggio volentieri in America e ci lavoro spesso proprio perché mi trovo bene con la gente, che accoglie me, un europeo, e per di più un tedesco, con un'apertura mentale che per molti anti-americani dell'ultima ora sarebbe impensabile. La terra dell’abbondanza è una lettera d'amore a un Paese che dovrebbe prendere la tragedia dell'11 settembre come un'opportunità per crescere, non come un pretesto per regredire.

E’ possibile consultare il sito di Wim Wenders all’indirizzo web: www.wim-wenders.com

 

 

 

 

 

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