Scomparso il 16 settembre 2004 all’età
di 72, Giovanni Raboni, uno dei più importanti
poeti italiani contemporanei, era nato a Milano nel
1932 e aveva fatto della propria città lo spazio
metaforico della modernità e il luogo della
sua molteplice esperienza culturale. Poeta, critico,
traduttore, Raboni aveva cominciato la sua attività
poetica all’inizio degli anni Sessanta pubblicando
due plaquettes, Il catalogo è questo (1961)
e L’insalubrità dell’aria
(1963), poi confluite in La casa della Vetra
(1966). Seguirono Cadenza d’inganno
(1975), Nel grave sogno (1982), Canzonette
mortali (1986) e A tanto caro sangue
(1988). Nelle successive raccolte Raboni tenta una
nuova via recuperando forme metriche tradizionali.
Ad inaugurare questo periodo è la raccolta
Versi guerrieri e amorosi (1990), che tra
l’altro contiene una sezione in cui il poeta
torna con il ricordo alla sua esperienza di ragazzetto
durante la guerra. Scrive Raboni in proposito e a
proposito della nuova versificazione: “Da molto
tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla guerra, ma
ogni volta urtavo contro un clima e un linguaggio
che non volevo, quelli della memoria elegiaca. A mettermi
su una strada diversa sono state una frase di Goethe
(“Bisogna confessare che ogni poesia converte
i soggetti che tratta in anacronismi”) e più
ancora, forse, la richiesta di riconoscibilità
formale che sempre più la poesia mi sembra
rivolgere oggi ai poeti per poter continuare o ricominciare
ad esistere, oltre che nella volontà e immaginazione,
anche nella mente e nell’orecchio dei lettori.
Il libro è nato dall’intersezione di
due tentativi o desideri: il primo di non perdita,
l’altro di ritrovamento”. A questa sono
seguite le raccolte Quare tristis (1993),
Tutte le poesie (2000), Rappresentazione
della croce (2000) e Barlumi di storia
(2002).
Quella di Raboni è una poesia che ha filtrato
gli elementi di un territorio culturale molto vasto,
piena di rimandi alle esperienze più disparate.
La sua poesia strozzata, narrativa, ricca di elementi
della realtà, di lessici bassi e di figure
grottesche, fa parte appieno e autorevolmente di quella
che è stata definita da Luciano Anceshi la
“Linea lombarda”, di quel modo poetico,
cioè, che, soprattutto sull’esempio di
Vittorio Sereni e di certo Montale, recupera una certa
oggettività di contro alla precedente poesia
cosiddetta novecentista, ermetica, lirica e solipsistica.
Oltre alle influenze di questa tendenza lombarda,
che si vede anche in certi tratti, soprattutto all’inizio,
espressionistici e morali, Raboni fa propri gli elementi
delle più importanti esperienze poetiche a
livello internazionale: da T. S. Eliot e Ezra Pound
per il mondo anglosassone, da Apollinere a Baudelaire
per il mondo francese.
Critico attento, Raboni è stato anche traduttore,
tra l’altro, di À la recherche du
temps perdu di Proust e de Les Fleur du mal
di Baudelaire. Soprattutto quest’ultimo
autore ha costituito per il poeta milanese una costante
guida dentro la modernità di una poesia intimamente
dissonante, “più sottile e più
delicata che non l’arte della consonanza”
- scrive il critico Albert Thibaudet. Definizione
che Raboni fa sua e attraverso la quale filtra “non
solo qualsiasi discorso sulla modernità di
Baudelaire, ma anche ogni immagine o progetto, ancora
oggi, di modernità in poesia”. Il confronto
con gli alessandrini baudelairiani è durato
per quasi tutta la vita, e ogni volta le sue versioni
del corpus dei Fleurs hanno rispecchiato
la sua coeva produzione. Le traduzioni di Baudelaire
in cui la dissonanza tra prosa e poesia e tra lessico
alto e basso era esibita in maniera più divaricata,
hanno accompagnato la produzione più innovativa
di Raboni, mentre il recupero di una metrica più
tradizionale e di una dissonanza più dissimulata,
hanno accompagnato l’ultima fase poetica del
Raboni più “formalista”. Scrive
lui stesso di aver tentato una normalizzazione metrica
nelle sue versioni baudelairiane e “chi nel
frattempo avesse seguito la mia attività di
scrittore di versi in proprio vi avrebbe probabilmente
notato un’evoluzione d’analogo segno e
significato. In realtà, e più in generale,
è ragionevole supporre che io abbia proiettatto
via via su questa impresa i miei interessi personali
del momento”.
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