263 - 16.01.04


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Poeta tra narrazione e riflessione
Stefano Giovanardi con Luca Sebastiani

Tensione civile, plurilinguismo, mistione di poesia e prosa, di linguaggi alti e bassi. Sono le caratteristiche di un fare poetico, quello di Giovanni Raboni, assolutamente moderno, assolutamente all’altezza, cioè, del momento storico in cui questa esperienza è stata prodotta. Ne è convinto Stefano Giovanardi, docente presso l’università di Pavia, curatore per i Meridiani Mondadori del volume I poeti italiani del secondo Novecento, collaboratore delle pagine culturale di Repubblica, che ora sta lavorando ad una Storia della narrativa italiana del Novecento per le edizioni Feltrinelli, un progetto che prevede quattro volumi di cui il primo (che copre gli anni 1900-1922).

Professore, l’impressione che si ha leggendo la poesia di Raboni è che ci si trovi di fronte a una poesia in cui il lirismo si sia quasi completamente ritirato. Una poesia diversa e quasi contraria rispetto a quella “novecentista”. Che tipo di operazione poetica è quella di Raboni?

Raboni viene dalla cosiddetta “linea lombarda” che ha sempre privilegiato una dimensione non lirica della poesia. O comunque non esclusivamente lirica, dato che il lirismo non può essere espunto totalmente dalla poesia, visto che è, comunque, qualcosa che ha a che fare con l’io, col vissuto, che ha a che fare con le emozioni e le passioni. Però l’asse della scrittura di questa eredità lombarda, di cui credo che Raboni rappresenti pienamente la seconda generazione, tende appunto a risolvere queste emozioni, queste passioni, questi dati tradizionalmente lirici, in dimensioni più oggettive, che diventano automaticamente più narrative. E’ un po’, mutatis mutandis, la differenza che può passare fra un analogismo sfrenato come può essere quello degli ermetici e invece il discorso del “correlativo oggettivo” in Montale. Naturalmente non voglio dire che Raboni sia sulla stessa linea di Montale, però la differenza è più o meno di questo tipo: il riassumere quelle che possono essere le pulsioni liriche, le pulsioni emotive, le pulsioni più legate all’individualità e riassumerle, in qualche modo scioglierle in una visione di tipo oggettivo e prevalentemente referenziale.

Quali sono stati il ruolo e l’influenza di Vittorio Sereni su Raboni e sui poeti “milanesi” in genere?

Sereni è stato il nume tutelare, sia dal punto di vista poetico che da quello editoriale, di tutta una generazione e mezza di poeti lombardi. Sereni c’è ovunque, soprattutto il Sereni de Gli strumenti umani che esce nel ’65, ma le poesie del quale circolavano già dalla fine degli anni ’50. Fu un po’ un sasso gettato nello stagno della cultura letteraria lombarda. Non c’è poesia lombarda del secondo Novecento senza Sereni. Le case della Vetra di Raboni sono strettamente dipendenti da Sereni, su questo non credo ci siano dubbi.

Un’altra cosa che colpisce della poesia raboniana è il lessico basso, spesso quasi burocratico, che viene risolto in un tessuto sintattico piano, con un’attitudine meditativa, ragionativa.

Questo però credo che valga soprattutto per la prima parte della produzione di Raboni, che tra l’altro secondo me resta la più importante e la più interessante. E’ per Le case della Vetra che Raboni è uno dei poeti più importanti del secondo Novecento. Questa tensione meditativa, questa tensione saggistica è qualcosa che comunque credo abbia a che fare con il processo di oggettivazione della soggettività. L’oggettivazione passa per due vie: o la narrazione o la riflessione.

E Raboni con la sua poesia opera una sorta di sintesi tra queste due vie.

Si. Del resto in tutta la narrativa c’è una quota di meditazione, di riflessione; diciamo che c’è una vena saggistica in tutti i romanzi. Quindi è chiaro che in una poesia che si fa tendenzialmente oggettiva e referenziale, tendenzialmente narrativa vengano poi inclusi elementi di riflessione e di meditazione.

Soprattutto nel primo periodo della sua produzione poetica, un tema importante e assolutamente moderno per Raboni è quello della città.

Certo. Questo è uno degli elementi più tipici di questa tradizione lombarda. Da La Capitale del Nord di Majorino a La ragazza Carla di Pagliarani, c’è questo elemento della metropoli che arriva da un certo Baudelaire. Il poeta francese è certamente l’origine di tutta la poesia moderna, però il discorso della città, il discorso della “perdita dell’aureola” è un discorso che la poesia lombarda ha recepito in modo molto più deciso che in altre zone. Il discorso vale per Raboni in particolar modo, che di Baudelaire è stato traduttore e che ci ha lasciato una versione de Les Fleurs du mal che credo sia assolutamente la più bella in circolazione in Italia. Ecco, credo che ci sia, specialmente in lui, un’origine baudelairiana filtrata attraverso la milanesità. Un culto della città che non vuol dire elogio della stessa, ma che intende la metropoli come luogo centrale dello spirito.

C’è anche un’altra cosa, nella poesia di Raboni, che probabilmente viene dal suo radicamento lombardo: lo slancio morale, l’impegno civile.

Certo. Non bisogna dimenticare che a Milano c’era il Politecnico, che Milano era la zona geograficamente più ricettiva rispetto a certi problemi postbellici quale quello della letteratura impegnata. In fondo anche quella di un Majorino e di un Pagliarani è una poesia civile. E’ una poesia d’impegno che non perde però di vista lo specifico poetico. In Raboni credo ci sia sempre stata una precisa consapevolezza della specificità della poesia e del fatto che la poesia è un linguaggio speciale, linguaggio a parte. Tant’è vero che poi nelle ultime cose che ha scritto era diventato addirittura un elemento di manierismo. Il recupero della metrica chiusa e delle forme strofiche antiche in fondo era un modo per confermare la separatezza della poesia, del linguaggio poetico rispetto ai linguaggi standard o agli universi di discorso tradizionali. Diciamo che la parte più interessante della produzione di Raboni è quella in cui a questa consapevolezza della separatezza si univa una volontà di intervento.

Lei ha scritto, nella sua introduzione ai Poeti italiani del secondo Novecento, che rispetto alla neoavanguardia i lombardi operavano una specie di “sperimentazione silenziosa”.

Sperimentazione silenziosa nel senso che non c’era nessuna forma di manifesto e quindi non c’era nessuna forma di sperimentalismo esibito. La loro era comunque una tensione sperimentale, un tentativo di saggiare i limiti della poesia, un vedere fino a che punto si può arrivare nel forzare quelle che sono le gabbie del lirismo, le gabbie della tradizione, le gabbie del verso. Sperimentare, in sostanza, fino a che punto di tensione si può arrivare senza spezzarle. La neoavanguardia fa un altro tipo di operazione spezzando quelle stesse gabbie. In questo senso parlavo di sperimentazione silenziosa.

Raboni comincia a tradurre Les Fleurs du mal molto presto e questo lavoro lo accompagnerà per tutta la vita. Nell’introduzione all’edizione del ’98 dei Fleurs ci dice in maniera chiara che, come nelle ultime versioni ha cercato di adeguare maggiormente la metrica a quella chiusa di Baudelaire, così anche nella sua produzione in proprio ha sperimentato le forme poetiche della tradizione per realizzare quell’arte della dissonanza di cui il francese è stato maestro insuperato.

L’ultima è una fase, uno sviluppo della sua poesia in cui ha recuperato il senso della metrica tradizionale e quindi capisco che abbia tentato anche di uniformare le traduzione dei Fleurs. Però ho l’impressione che quest’ultima sia la parte più caduca della sua produzione. Meno interessante perché rischia di apparire un esercizio puramente formale in cui alla fine sfuggono i contenuti, a meno che non sia una generica poesia d’amore.

Chi ha colto l’eredità di Raboni?

Questo è sempre molto difficile da dire. Io credo che sicuramente un poeta direttamente influenzato da Raboni sia Maurizio Cucchi. E’ anche vero, però, che quella può essere una coincidenza di modelli visto che ne hanno di comuni, da Tessa a Sereni. Credo che l’eredità di un poeta come Raboni dovrebbe essere sensibile su poeti tra i trenta e i quarant’anni, ma siccome questa generazione è praticamente inesistente, nel senso che magari esistono ma non lo sappiamo perché non li pubblicano, allora è molto difficile fare un discorso di influenze e eredità.

 

 

 

 

 

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