Tensione civile, plurilinguismo, mistione di poesia
e prosa, di linguaggi alti e bassi. Sono le caratteristiche
di un fare poetico, quello di Giovanni Raboni, assolutamente
moderno, assolutamente all’altezza, cioè,
del momento storico in cui questa esperienza è
stata prodotta. Ne è convinto Stefano Giovanardi,
docente presso l’università di Pavia,
curatore per i Meridiani Mondadori del volume I
poeti italiani del secondo Novecento, collaboratore
delle pagine culturale di Repubblica, che
ora sta lavorando ad una Storia della narrativa
italiana del Novecento per le edizioni Feltrinelli,
un progetto che prevede quattro volumi di cui il primo
(che copre gli anni 1900-1922).
Professore, l’impressione che si ha
leggendo la poesia di Raboni è che ci si trovi
di fronte a una poesia in cui il lirismo si sia quasi
completamente ritirato. Una poesia diversa e quasi
contraria rispetto a quella “novecentista”.
Che tipo di operazione poetica è quella di
Raboni?
Raboni viene dalla cosiddetta “linea lombarda”
che ha sempre privilegiato una dimensione non lirica
della poesia. O comunque non esclusivamente lirica,
dato che il lirismo non può essere espunto
totalmente dalla poesia, visto che è, comunque,
qualcosa che ha a che fare con l’io, col vissuto,
che ha a che fare con le emozioni e le passioni. Però
l’asse della scrittura di questa eredità
lombarda, di cui credo che Raboni rappresenti pienamente
la seconda generazione, tende appunto a risolvere
queste emozioni, queste passioni, questi dati tradizionalmente
lirici, in dimensioni più oggettive, che diventano
automaticamente più narrative. E’ un
po’, mutatis mutandis, la differenza
che può passare fra un analogismo sfrenato
come può essere quello degli ermetici e invece
il discorso del “correlativo oggettivo”
in Montale. Naturalmente non voglio dire che Raboni
sia sulla stessa linea di Montale, però la
differenza è più o meno di questo tipo:
il riassumere quelle che possono essere le pulsioni
liriche, le pulsioni emotive, le pulsioni più
legate all’individualità e riassumerle,
in qualche modo scioglierle in una visione di tipo
oggettivo e prevalentemente referenziale.
Quali sono stati il ruolo e l’influenza
di Vittorio Sereni su Raboni e sui poeti “milanesi”
in genere?
Sereni è stato il nume tutelare, sia dal punto
di vista poetico che da quello editoriale, di tutta
una generazione e mezza di poeti lombardi. Sereni
c’è ovunque, soprattutto il Sereni de
Gli strumenti umani che esce nel ’65,
ma le poesie del quale circolavano già dalla
fine degli anni ’50. Fu un po’ un sasso
gettato nello stagno della cultura letteraria lombarda.
Non c’è poesia lombarda del secondo Novecento
senza Sereni. Le case della Vetra di Raboni
sono strettamente dipendenti da Sereni, su questo
non credo ci siano dubbi.
Un’altra cosa che colpisce della poesia
raboniana è il lessico basso, spesso quasi
burocratico, che viene risolto in un tessuto sintattico
piano, con un’attitudine meditativa, ragionativa.
Questo però credo che valga soprattutto per
la prima parte della produzione di Raboni, che tra
l’altro secondo me resta la più importante
e la più interessante. E’ per Le
case della Vetra che Raboni è uno dei
poeti più importanti del secondo Novecento.
Questa tensione meditativa, questa tensione saggistica
è qualcosa che comunque credo abbia a che fare
con il processo di oggettivazione della soggettività.
L’oggettivazione passa per due vie: o la narrazione
o la riflessione.
E Raboni con la sua poesia opera una sorta
di sintesi tra queste due vie.
Si. Del resto in tutta la narrativa c’è
una quota di meditazione, di riflessione; diciamo
che c’è una vena saggistica in tutti
i romanzi. Quindi è chiaro che in una poesia
che si fa tendenzialmente oggettiva e referenziale,
tendenzialmente narrativa vengano poi inclusi elementi
di riflessione e di meditazione.
Soprattutto nel primo periodo della sua produzione
poetica, un tema importante e assolutamente moderno
per Raboni è quello della città.
Certo. Questo è uno degli elementi più
tipici di questa tradizione lombarda. Da La Capitale
del Nord di Majorino a La ragazza Carla
di Pagliarani, c’è questo elemento della
metropoli che arriva da un certo Baudelaire. Il poeta
francese è certamente l’origine di tutta
la poesia moderna, però il discorso della città,
il discorso della “perdita dell’aureola”
è un discorso che la poesia lombarda ha recepito
in modo molto più deciso che in altre zone.
Il discorso vale per Raboni in particolar modo, che
di Baudelaire è stato traduttore e che ci ha
lasciato una versione de Les Fleurs du mal che
credo sia assolutamente la più bella in circolazione
in Italia. Ecco, credo che ci sia, specialmente in
lui, un’origine baudelairiana filtrata attraverso
la milanesità. Un culto della città
che non vuol dire elogio della stessa, ma che intende
la metropoli come luogo centrale dello spirito.
C’è anche un’altra cosa,
nella poesia di Raboni, che probabilmente viene dal
suo radicamento lombardo: lo slancio morale, l’impegno
civile.
Certo. Non bisogna dimenticare che a Milano c’era
il Politecnico, che Milano era la zona geograficamente
più ricettiva rispetto a certi problemi postbellici
quale quello della letteratura impegnata. In fondo
anche quella di un Majorino e di un Pagliarani è
una poesia civile. E’ una poesia d’impegno
che non perde però di vista lo specifico poetico.
In Raboni credo ci sia sempre stata una precisa consapevolezza
della specificità della poesia e del fatto
che la poesia è un linguaggio speciale, linguaggio
a parte. Tant’è vero che poi nelle ultime
cose che ha scritto era diventato addirittura un elemento
di manierismo. Il recupero della metrica chiusa e
delle forme strofiche antiche in fondo era un modo
per confermare la separatezza della poesia, del linguaggio
poetico rispetto ai linguaggi standard o agli universi
di discorso tradizionali. Diciamo che la parte più
interessante della produzione di Raboni è quella
in cui a questa consapevolezza della separatezza si
univa una volontà di intervento.
Lei ha scritto, nella sua introduzione ai
Poeti italiani del secondo Novecento, che
rispetto alla neoavanguardia i lombardi operavano
una specie di “sperimentazione silenziosa”.
Sperimentazione silenziosa nel senso che non c’era
nessuna forma di manifesto e quindi non c’era
nessuna forma di sperimentalismo esibito. La loro
era comunque una tensione sperimentale, un tentativo
di saggiare i limiti della poesia, un vedere fino
a che punto si può arrivare nel forzare quelle
che sono le gabbie del lirismo, le gabbie della tradizione,
le gabbie del verso. Sperimentare, in sostanza, fino
a che punto di tensione si può arrivare senza
spezzarle. La neoavanguardia fa un altro tipo di operazione
spezzando quelle stesse gabbie. In questo senso parlavo
di sperimentazione silenziosa.
Raboni comincia a tradurre Les Fleurs
du mal molto presto e questo lavoro lo accompagnerà
per tutta la vita. Nell’introduzione all’edizione
del ’98 dei Fleurs ci dice in maniera chiara
che, come nelle ultime versioni ha cercato di adeguare
maggiormente la metrica a quella chiusa di Baudelaire,
così anche nella sua produzione in proprio
ha sperimentato le forme poetiche della tradizione
per realizzare quell’arte della dissonanza di
cui il francese è stato maestro insuperato.
L’ultima è una fase, uno sviluppo della
sua poesia in cui ha recuperato il senso della metrica
tradizionale e quindi capisco che abbia tentato anche
di uniformare le traduzione dei Fleurs. Però
ho l’impressione che quest’ultima sia
la parte più caduca della sua produzione. Meno
interessante perché rischia di apparire un
esercizio puramente formale in cui alla fine sfuggono
i contenuti, a meno che non sia una generica poesia
d’amore.
Chi ha colto l’eredità di Raboni?
Questo è sempre molto difficile da dire. Io
credo che sicuramente un poeta direttamente influenzato
da Raboni sia Maurizio Cucchi. E’ anche vero,
però, che quella può essere una coincidenza
di modelli visto che ne hanno di comuni, da Tessa
a Sereni. Credo che l’eredità di un poeta
come Raboni dovrebbe essere sensibile su poeti tra
i trenta e i quarant’anni, ma siccome questa
generazione è praticamente inesistente, nel
senso che magari esistono ma non lo sappiamo perché
non li pubblicano, allora è molto difficile
fare un discorso di influenze e eredità.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it