“This is my country” –
“questo è il mio Paese” -, dice
orgogliosamente Paul, il reduce dal Vietnam protagonista
del nuovo film di Wim Wenders La terra dell'abbondanza
- Land of Plenty. Paul si è autonominato
difensore dell'America del dopo 11 settembre, e la
sua dichiarazione suona come il mantra di Ron Kovic,
il reduce dal Vietnam protagonista di Nato il
4 luglio di Oliver Stone, che ripeteva uno slogan
del suo tempo: “America: love it or leave
it” – “America: amala o vattene”
-. Entrambi, umiliati dalla sconfitta nel Sudest asiatico,
ad opera di una popolazione, e una cultura, tanto
lontane dalla propria, rivendicano le proprie radici
ostentando verso di esse un'adamantina fedeltà
che non accetta critiche. Entrambi, nel corso delle
rispettive vicende - che, nel caso di Ron Kovic, erano
vicende reali -, compiono invece un percorso di crescita
che li porterà a mettere in discussione le
proprie ferree convinzioni, il proprio ottuso - nel
senso di “chiuso alle influenze esterne”
- punto di vista.
Dietro entrambi i film ci sono registi liberal, contrari
alla politica di Bush e a ogni forma di militarismo
fanatico. E tanto Oliver Stone quanto Wim Wenders,
l'uno dall'interno, l'altro dall'esterno, criticano
l'America con amore, mai distanziandosi emotivamente
dalle azioni anche aberranti della sua gente - perché,
come fa dire Wenders a uno dei personaggi del suo
film, l'America “non è un Paese, è
un popolo”. Se Stone e Wenders sono pronti a
dissentire davanti all'operato del governo statunitense
- soprattutto quando l'amministrazione in carica è
repubblicana - si guardano bene dal disconoscere anche
il più deviante dei suoi cittadini, come il
Ron Kovic delle prime scene di Nato il quattro
luglio, che confonde il patriottismo con l'abitudine
a seguire gli ordini, o come Paul, il vigilante protagonista
di La terra dell'abbondanza, che attrezza
un camioncino come un arsenale e con quello attraversa
la Los Angeles dei diseredati, in cerca di “turban
boys” - ragazzi-turbante, cioè arabi,
dal suo punto di vista tutti potenziali terroristi
-, da neutralizzare prima che combinino un altro 11
settembre.
Al fanatico Paul, recitato con magistrale equilibrio
da John Dahl, Wenders contrappone la “suora
laica” Lana - un nome che viene dal mito pop
americano: Lana Turner, Lana Lang -, una ragazza che
ha vissuto quasi sempre all'estero, nelle zone più
tormentate del pianeta, al seguito dei genitori super
liberal e supercattolici, missionari di pace nel mondo.
Lana è stata educata alla tolleranza e al perdono,
e il suo senso religioso è, a modo suo, fondamentalista:
si attiene cioè rigorosamente alla messaggio
d'amore di Cristo nel Vangelo.
La vicenda prende le mosse da una Los Angeles degradata,
dove è più evidente la contrapposizione
fra ricchi e poveri, e la contraddizione fra il quadro
di prosperità disegnato dall'amministrazione
Bush e la realtà di certi quartieri americani
dove il tasso di povertà è paragonabile
a quello di un Paese del Terzo Mondo, e dove la criminalità
è ormai salita a livelli ingestibili. Da Los
Angeles Paul e Lana, che scopriremo essere zio e nipote,
partiranno alla volta di un paesino della provincia
californiana dalle atmosfere rarefatte e poetiche
alla Paris, Texas, e poi attraverseranno
l'America in diagonale - come Kerouac, come tutti
gli americani che si sono chiesti che cosa voglia
dire essere americani - per approdare al Ground
Zero.
Già da questa breve descrizione dell'iter
della storia si può intuire il limite del film
di Wenders, e cioè le scivolate nella retorica,
a volte pesantemente sottolineata dalle musiche -
bellissime, come sempre nel cinema di Wenders -, alla
fine addirittura da una scritta che compare alta nel
cielo, come un aforisma alla Jenny Holzer - o come
la mamma di Woody Allen in New York Stories
per chi, come me, mantiene una prospettiva ironica
-. Ma alla retorica si alterna, praticamente senza
soluzione di continuità, la commozione vera,
suscitata più spesso dallo smarrimento di Paul
che dal fervore messianico di Lana, talvolta involontariamente
comica nelle sue invocazioni all'Altissimo o nel suo
solitario balletto in cima a un grattacielo losangelino,
che pare tratto da un videoclip anni Ottanta.
L'estetica di La terra dell'abbondanza è
dettata interamente dalla sensibilità di un
autore europeo da sempre affascinato dall'America,
della quale riesce a testimoniare molto bene le contraddizioni,
ma alla quale, fondamentalmente, resta estraneo. Così
l'America di Wenders, anche in un film critico come
questo, resta quella del mito: gli spazi sconfinati
apprezzabili solo on the road, i tramonti acidi nel
mezzo del nulla, le highway delle grandi
metropoli, gli hobo delle stesse metropoli
viste dal basso.
La terra dell'abbondanza è un film
disomogeneo, che alterna forti suggestioni visive
ed emotive a cadute moralistiche e semplicismi da
turista, che racconta un'America di estremi, con lo
stesso spirito con il quale il visitatore occasionale
degli Usa nota soprattutto la frequenza degli obesi
nei McDonald o l'asfissiante sollecitudine dei camerieri
al ristorante.
E' anche un compendio di cinema: quello americano
di Ford e Cassavetes, ma anche quello europeo che
ha raccontato l'America - primo fra tutti l'Antonioni
di Zabriskie Point - e soprattutto quello
wendersiano, dal già citato Paris, Texas
a L'amico americano.
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