263 - 16.10.04


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Dov’è finito l'Eldorado?
Paola Casella

This is my country” – “questo è il mio Paese” -, dice orgogliosamente Paul, il reduce dal Vietnam protagonista del nuovo film di Wim Wenders La terra dell'abbondanza - Land of Plenty. Paul si è autonominato difensore dell'America del dopo 11 settembre, e la sua dichiarazione suona come il mantra di Ron Kovic, il reduce dal Vietnam protagonista di Nato il 4 luglio di Oliver Stone, che ripeteva uno slogan del suo tempo: “America: love it or leave it” – “America: amala o vattene” -. Entrambi, umiliati dalla sconfitta nel Sudest asiatico, ad opera di una popolazione, e una cultura, tanto lontane dalla propria, rivendicano le proprie radici ostentando verso di esse un'adamantina fedeltà che non accetta critiche. Entrambi, nel corso delle rispettive vicende - che, nel caso di Ron Kovic, erano vicende reali -, compiono invece un percorso di crescita che li porterà a mettere in discussione le proprie ferree convinzioni, il proprio ottuso - nel senso di “chiuso alle influenze esterne” - punto di vista.

Dietro entrambi i film ci sono registi liberal, contrari alla politica di Bush e a ogni forma di militarismo fanatico. E tanto Oliver Stone quanto Wim Wenders, l'uno dall'interno, l'altro dall'esterno, criticano l'America con amore, mai distanziandosi emotivamente dalle azioni anche aberranti della sua gente - perché, come fa dire Wenders a uno dei personaggi del suo film, l'America “non è un Paese, è un popolo”. Se Stone e Wenders sono pronti a dissentire davanti all'operato del governo statunitense - soprattutto quando l'amministrazione in carica è repubblicana - si guardano bene dal disconoscere anche il più deviante dei suoi cittadini, come il Ron Kovic delle prime scene di Nato il quattro luglio, che confonde il patriottismo con l'abitudine a seguire gli ordini, o come Paul, il vigilante protagonista di La terra dell'abbondanza, che attrezza un camioncino come un arsenale e con quello attraversa la Los Angeles dei diseredati, in cerca di “turban boys” - ragazzi-turbante, cioè arabi, dal suo punto di vista tutti potenziali terroristi -, da neutralizzare prima che combinino un altro 11 settembre.

Al fanatico Paul, recitato con magistrale equilibrio da John Dahl, Wenders contrappone la “suora laica” Lana - un nome che viene dal mito pop americano: Lana Turner, Lana Lang -, una ragazza che ha vissuto quasi sempre all'estero, nelle zone più tormentate del pianeta, al seguito dei genitori super liberal e supercattolici, missionari di pace nel mondo. Lana è stata educata alla tolleranza e al perdono, e il suo senso religioso è, a modo suo, fondamentalista: si attiene cioè rigorosamente alla messaggio d'amore di Cristo nel Vangelo.

La vicenda prende le mosse da una Los Angeles degradata, dove è più evidente la contrapposizione fra ricchi e poveri, e la contraddizione fra il quadro di prosperità disegnato dall'amministrazione Bush e la realtà di certi quartieri americani dove il tasso di povertà è paragonabile a quello di un Paese del Terzo Mondo, e dove la criminalità è ormai salita a livelli ingestibili. Da Los Angeles Paul e Lana, che scopriremo essere zio e nipote, partiranno alla volta di un paesino della provincia californiana dalle atmosfere rarefatte e poetiche alla Paris, Texas, e poi attraverseranno l'America in diagonale - come Kerouac, come tutti gli americani che si sono chiesti che cosa voglia dire essere americani - per approdare al Ground Zero.

Già da questa breve descrizione dell'iter della storia si può intuire il limite del film di Wenders, e cioè le scivolate nella retorica, a volte pesantemente sottolineata dalle musiche - bellissime, come sempre nel cinema di Wenders -, alla fine addirittura da una scritta che compare alta nel cielo, come un aforisma alla Jenny Holzer - o come la mamma di Woody Allen in New York Stories per chi, come me, mantiene una prospettiva ironica -. Ma alla retorica si alterna, praticamente senza soluzione di continuità, la commozione vera, suscitata più spesso dallo smarrimento di Paul che dal fervore messianico di Lana, talvolta involontariamente comica nelle sue invocazioni all'Altissimo o nel suo solitario balletto in cima a un grattacielo losangelino, che pare tratto da un videoclip anni Ottanta.

L'estetica di La terra dell'abbondanza è dettata interamente dalla sensibilità di un autore europeo da sempre affascinato dall'America, della quale riesce a testimoniare molto bene le contraddizioni, ma alla quale, fondamentalmente, resta estraneo. Così l'America di Wenders, anche in un film critico come questo, resta quella del mito: gli spazi sconfinati apprezzabili solo on the road, i tramonti acidi nel mezzo del nulla, le highway delle grandi metropoli, gli hobo delle stesse metropoli viste dal basso.

La terra dell'abbondanza è un film disomogeneo, che alterna forti suggestioni visive ed emotive a cadute moralistiche e semplicismi da turista, che racconta un'America di estremi, con lo stesso spirito con il quale il visitatore occasionale degli Usa nota soprattutto la frequenza degli obesi nei McDonald o l'asfissiante sollecitudine dei camerieri al ristorante.

E' anche un compendio di cinema: quello americano di Ford e Cassavetes, ma anche quello europeo che ha raccontato l'America - primo fra tutti l'Antonioni di Zabriskie Point - e soprattutto quello wendersiano, dal già citato Paris, Texas a L'amico americano.

 

 

 

 

 

 

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