Roberto
Bertinetti insegna Letteratura inglese all’università
di Trieste, è editorialista del quotidiano
Il Messaggero, scrive per la rivista il Mulino
e collabora al Gr3 della Rai. Il suo libro più
recente è Dai Beatles a Blair. La cultura
inglese contemporanea (Carocci). Ottimo conoscitore
del mondo anglosassone, specialmente nella sua declinazione
britannica, è anche un osservatore attento
e acuto delle vicende della sinistra internazionale,
ed è in questa veste che gli chiediamo alcune
opinioni in vista delle elezioni presidenziali negli
Stati Uniti.
Professor Bertinetti, all’epoca della
Terza via l’asse Clinton-Blair pareva la stella
polare del centrosinistra mondiale, il suo riferimento
obbligato. Oggi lo scenario è profondamente
mutato e il premier neolaburista inglese, nel nome
della special relationship con l’alleato
d’Oltreoceano, non ha esitato a sostenere l’avventura
bellica irachena. Possiamo aspettarci ancora qualcosa
di interessante - invece di un progetto egemonico
- dalle due sinistre riformiste di lingua inglese?
Molto
dipende dall’esito del conflitto in corso in
Iraq e, naturalmente, dal risultato delle presidenziali
americane. Il deficit di progettualità della
sinistra negli Usa come in Gran Bretagna si è
infatti rivelato assai evidente proprio sul piano
della politica internazionale più che sul versante
interno. Da questo punto di vista è molto probabile
che Tony Blair abbia le responsabilità maggiori,
perché la sua scelta di appoggiare Bush ha
provocato profonde divisioni all’interno del
New Labour e favorito il disegno dei neocon americani
di spaccare l’Europa. Quando decise di sostenere
l’unilateralismo della Casa Bianca, il primo
ministro britannico aveva due obiettivi strategici:
affiancarsi a Bush per tentare di condizionarne le
scelte e riconquistare un ruolo di primo piano per
la Gran Bretagna a oltre quarant’anni di distanza
dalla crisi di Suez. Quanto accaduto dall’autunno
del 2002 ad oggi dimostra che entrambi gli obiettivi
sono stati mancati. E oggi Blair appare in difficoltà,
anche se la vittoria alle politiche del 2005 non sembra,
almeno per ora, in discussione. A testimoniarlo c’è,
soprattutto, la reticenza di Blair nel prendere una
posizione netta a favore di uno dei due candidati
in corsa per la Casa Bianca. Per affinità politica
dovrebbe sostenere Kerry, ma lo strettissimo legame
con Bush gli impedisce di farlo. E così preferisce
tacere, aspettando il risultato di novembre”.
Quali rapporti, a suo giudizio, si possono
riallacciare tra il New Labour e il Democratic Party?
Il confronto e il dialogo tra i riformisti Usa e quelli
britannici hanno qualche possibilità di produrre
risultati concreti solo se alle elezioni americane
vincerà Kerry e se i due leader riusciranno
a stabilire tra loro un rapporto simile a quello che
Blair aveva con Clinton. Ma anche in questo caso gli
ostacoli da superare saranno numerosi, perché
la crisi irachena ha prodotto ferite in ambito internazionale
che avranno bisogno di molto tempo per essere curate.
Senza contare che né la sinistra americana
né quella britannica sembrano disporre di progetti
condivisi per affrontare e risolvere i grandi problemi
di questi anni: un nuovo disordine mondiale, una globalizzazione
fatta di diversità che si affiancano ma hanno
difficoltà a coesistere l’una accanto
all’altra, la furia degli integralismi.
Le idee della Terza Via sembrano un utile punto di
partenza per governare un ciclo economico espansivo,
non certo per offrire risposte utili per il presente
e per l’immediato futuro, almeno sul versante
internazionale. Non a caso lo stesso Giddens ha più
volte insistito nel corso degli ultimi mesi sulla
necessità di superare quella formula, facendo
cenno all’urgenza di individuare una Quarta
Via. Potrebbe essere questo l’obiettivo culturale
e politico della sinistra americana e britannica se
alla Casa Bianca andrà Kerry. Ma non si sembra
un obiettivo facile da raggiungere. Perché
la situazione internazionale e il ciclo economico
hanno ben poco in comune con la realtà degli
anni Novanta”.
Kerry viene accusato dalla destra repubblicana
di essere “troppo francesizzato”, cioè
troppo vicino alla cultura europea - più propriamente,
troppo bostoniano e cosmopolita, troppo “aristocrazia
liberal" (al punto che gli appassionati di alberi
genealogici hanno rintracciato una sua discendenza
diretta, via Padri pellegrini, dalla nobiltà
inglese cinquecentesca, cosa che, peraltro, lo accomunerebbe
alla dinastia Bush, la quale non ha davvero nulla
di “popolaresco”). Come pensa si comporterà,
se dovesse vincere, in politica interna?
Le differenze programmatiche tra Kerry e Bush sono
molto ampie, come hanno sottolineato di recente anche
dieci premi Nobel americani per l’economia sottoscrivendo
un documento nel quale invitano a sostenere il candidato
democratico. Del resto le scelte in materia fiscale
dell’amministrazione Bush hanno permesso che
il surplus finanziario lasciato in eredità
da Clinton, pari al 2 per cento del Pil, venisse trasformato
in un enorme deficit. I tagli alle tasse voluti dai
repubblicani non hanno aiutato in maniera significativa
la ripresa economica Usa e, soprattutto, hanno favorito
solo le classi più alte. Senza contare che,
per la prima volta dai tempi della Grande Depressione,
il saldo complessivo dei posti di lavoro è
negativo in misura molto ampia: dal 2001 ad oggi,
dicono le statistiche, ne sono stati perduti circa
un milione e duecentomila.
Kerry ha spesso sostenuto in campagna elettorale
che la sua priorità è arrestare questa
tendenza, aggiungendo che occorre una netta inversione
di tendenza in ambito fiscale e nel campo degli investimenti
in favore di quella enorme “middle class”
americana penalizzata dalle scelte di Bush. Sotto
un profilo politico più generale, sempre sul
piano interno, ritengo potrebbe trarre lezione da
quanto scrive Joseph Stiglitz nel suo ultimo libro,
dedicato ad un’analisi della sua esperienza
a fianco di Bill Clinton alla Casa Bianca. “Di
tutti gli errori commessi durante gli anni Novanta,
i peggiori sono stati quelli dovuti alla mancata coerenza
con i nostri principi e all’assenza di una visione
di lungo periodo”, sostiene Stiglitz, che accusa
i democratici di essersi concentrati troppo sull’obiettivo
dell’equilibrio di bilancio e di non aver fatto
abbastanza per riformare il sistema sanitario, ridurre
la povertà e garantire l’efficienza del
welfare. E’ in questi ambiti che Kerry dovrà
lavorare, in caso di successo, per marcare in misura
evidente la propria differenza dai repubblicani.
E in politica internazionale cosa faranno
i Democratici?
Su questa materia Kerry è apparso abbastanza
reticente sino all’intervista concessa pochi
giorni fa alla Cbs. Durante il colloquio con David
Letterman e, in seguito, anche in una serie di interventi
pubblici, ha precisato che i suoi primi atti alla
Casa Bianca andrebbero in un’unica direzione:
assicurare al mondo che l’America non intende
seguire un percorso arrogante e unilaterale. E quindi
ha aggiunto che, se eletto, metterà a punto
un piano per riportare la pace in Iraq e stemperare
le tensioni internazionali. Il problema è che,
almeno per ora, non ha fornito alcun dettaglio di
questo piano. E’auspicabile che lo faccia nei
prossimi giorni. Perché una persistente elusività
su un punto tanto importante e delicato potrebbe rivelarsi
controproducente, rischierebbe di indebolirlo durante
le ultime settimane di campagna elettorale.
Tornando al Vecchio continente, quale sarà
il destino di Tony Blair e del suo eterno rivale Gordon
Brown?
A meno di clamorose sorprese, il loro destino è
quello di continuare a governare in coabitazione il
Regno Unito dopo le elezioni del prossimo anno, quando
i laburisti otterranno quasi certamente un risultato
storico: un terzo mandato consecutivo. E’ poi
possibile che tra i due riprenda lo scontro interno
per la leadership e, soprattutto, per stabilire chi
sarà alla testa del New Labour dopo Blair,
con l’attuale primo ministro forse intenzionato
a candidare per la sua successione Alan Milburn, ex
ministro della Sanità appena rientrato nell’esecutivo
con l’incarico di coordinare la campagna elettorale
del 2005. A sette anni di distanza dalla prima vittoria
laburista nel 1997, credo vada comunque sottolineato
che sul piano politico i punti di contatto tra la
visione di Blair e quella di Brown hanno senza alcun
dubbio prevalso su un dissenso che pure, in alcune
circostanze, è apparso evidente.
Le scelte strategiche del New Labour sono state compiute
di comune accordo e ad entrambi spettano i meriti
dei successi ottenuti sul piano interno. Brown, del
resto, non ha certo avuto un ruolo di secondo piano
nel favorire, alla metà degli anni Novanta,
la rivoluzione culturale che trasformò il vecchio
Labour, sempre sconfitto dai conservatori a causa
di una radicalità programmatica poco attraente
per la classe media, in una forza capace di conquistare
il consenso degli elettori moderati e, soprattutto,
di impostare e gestire un ciclo di sviluppo che ancora
non manifesta segnali di rallentamento. I numeri premiano
il lavoro di Blair e di Brown: la Gran Bretagna vanta
il più alto tasso di crescita in Europa, il
minor numero di disoccupati e conti in ordine. Le
battute d’arresto del New Labour alle amministrative
o alle suppletive hanno radici soprattutto nella scelta
del governo di intervenire in Iraq al fianco di Bush,
mentre il giudizio sulle riforme volute dall’esecutivo
resta buono. La linea politica del New Labour per
il futuro appare, insomma, già tracciata nel
solco della continuità con quanto già
fatto sino ad oggi. E non sarà certo un cambio
di leadership, quando avverrà, a farla mutare
in maniera davvero significativa.
Esauritasi la spinta propulsiva e appannatasi
la stella della “rivoluzione della Third
way”, quali sono le tendenze e i temi del
dibattito culturale interno alla left britannica?
In poche parole, Hutton sostituirà Giddens
o gli spin-doctor continueranno a esercitare un ruolo
decisivo nell’ambito della sinistra cool
inglese?
Penso che anche a questo riguardo sia opportuno operare
una distinzione netta tra la politica interna e quella
estera del New Labour. Per quanto riguarda il dibattito
sulle riforme già realizzate e su quelle allo
studio, l’attenzione continua ad essere concentrata
sulla ricerca del giusto equilibrio tra Stato e mercato,
tra azione pubblica e privata, tra il livello centrale
del governo e quello locale, tra la responsabilità
collettiva e quella individuale, soprattutto per quanto
riguarda il processo in atto di revisione del welfare.
Si tratta di ambiti che non vedono differenze nette
tra il pensiero di Hutton e quello di Giddens, che
fanno apparire i laburisti inglesi decisamente all’avanguardia
in Europa.
Diverso è, invece, il discorso sulle scelte
fondamentali in politica estera. Qui sembra difficile
individuare un punto di sintesi tra le diverse posizioni.
Mi limito a citare tre esempi: il rapporto con l’America,
il ruolo della Gran Bretagna in Europa, la discussione
sull’ingresso del Regno Unito nell’area
della moneta unica. Su questi temi all’interno
del New Labour ci sono molte posizioni ed è
difficile che venga trovata in tempi brevi una linea
unitaria. Nonostante si tratti dei nodi più
importanti da sciogliere per una sinistra britannica
che, almeno nelle intenzioni dei suoi leader, non
ha certo messo da parte l’ambizione di proporsi
come guida politica delle forze riformatrici dell’intero
continente europeo.
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