262 - 02.10.04


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Tra talk show e bon ton la dialettica muore
A colloquio con Giovanni Roboni e Marco Tarchi

Reset: Il tema sollevato da Raboni nell’articolo sul Corriere - in cui, in occasione di un convegno di intellettuali della destra, si lamentava l’assenza di contraddittorio con quelli della sinistra – è un tema che a “Reset” è particolarmente caro, perché tocca la qualità della discussione e della conversazione pubblica che sta alla base di un sistema democratico liberale: sistema che, senza una forte opinione pubblica, non funziona bene. È un tema che si può sviluppare in diverse direzioni. Ci sono varie ipotesi sulle ragioni del deficit di dialettica: il costume accademico della non belligeranza tra diversi; oppure lo specialismo delle discussioni, per cui se si appartiene ad una parrocchia è difficile che si riesca a contraddire il mondo di coloro che appartengono ad un’altra; infine l’ipotesi di David Brooks: per sopravvivere meglio nel nostro tempo ciascuno scava una nicchia in cui tranquillamente sopravvalutarsi, il che esclude che siano apprezzate le critiche.

Tarchi: Il problema esiste, indiscutibilmente. Circa le linee di interpretazione che sono state suggerite, in parte sono d’accordo e in parte penso che debbano essere ulteriormente scavate se si vuole andare al nucleo vero della questione, che è la cosiddetta “fine delle ideologie”, che ha comportato un ripiegamento da più parti su temi che, per loro natura, si prestano ad approcci pragmatici, e che per intellettuali abituati ad un modo di filtrare le cose molto ideologico risultano difficili.
Per affrontare questi problemi si ricorre ad argomenti che spesso sono utilizzati indistintamente dall’una parte e dall’altra. E questo fa sì che, non potendosi distinguere troppo facilmente sul piano dei giudizi di valore, si punti moltissimo ad esasperare i toni della contrapposizione, spostando quindi la questione del capirsi a quella dell’ergere dei muri, in modo da spingere gli osservatori a porsi di qua o di là. Questo tipo di logica agisce in continuazione, e ha la sua consacrazione fondamentale in televisione, nei talk show. Lì la preoccupazione dei molti, se non di tutti, è quella di convincere il pubblico dei potenziali simpatizzanti. Quando parliamo degli intellettuali di destra o di sinistra questo problema è esasperato al massimo grado; lo spazio si apre per gli “urlatori” e per i provocatori in senso negativo, oppure per i parlatori generici. Gli altri rimangono in qualche modo ai margini.
Questa situazione non è superabile con uno sforzo di buona volontà, ci vuole ben altro; da questo punto di vista occorrerebbe che cambiasse il concetto del confronto delle idee, al di là dello spartiacque destra-sinistra. Sappiamo benissimo che nella gran parte dei media si viene chiamati a parlare di tale argomento o tal altro perché ritenuti aderenti ad una posizione politica. Questo fa sì ovviamente che, da una parte, non si ricorra quasi mai a chi non si riconosce in questo schema e, dall’altra, che chi viene chiamato, se vuole continuare ad essere chiamato, sia obbligato a rispettare l’etichettura.

Reset: Si litiga, ma non si discute.

Tarchi: La discussione è orientata solo verso il pubblico terzo, ma non si ammette neppure per principio di poter dire qualcosa sul quale l’altro può convergere; al contrario, si cerca la divergenza che in un certo senso fa audience e chiarisce le idee allo spettatore solo rendendo tutto più semplificato. Sappiamo che la semplificazione è un codice fondamentale nella logica mediatica attuale.

Reset: Non c’è il contraddittorio deliberativo ma un confronto di propagande indotto dai mezzi di comunicazione di massa. Il vero confronto di argomenti, se le cose stanno così, non ha mercato. Così Tarchi. E Raboni?

Raboni: Mi fermerei proprio su una cosa interessante che ha detto Tarchi: effettivamente non c’è contraddittorio, o conversazione, per usare il termine caro a Berardinelli, perché tutto quello che avviene, avviene in uno spazio rivolto al pubblico. Il modello televisivo è quello che, durante il dibattito, vuole conquistare il consenso del pubblico: quindi in realtà non si parla, si tenta di sopraffarsi a vicenda.
L’idea da cui ero partito, semplicissima e anche forse ingenua, era di cercare di riaprire uno spazio di contraddittorio e di conversazione approfittando di sedi non così esposte come quelle televisive, come ad esempio alcuni convegni. Mi pare infatti che in casi come quello che citavo, l’incontro di intellettuali di destra a Todi, si affrontino temi che riguardano la propria identità, la rivendicazione delle proprie radici e storia e si cerca un confronto non con gli altri ma con i propri referenti politici, per cui Adornato invita Casini, legge i messaggi di Berlusconi e così via. A me iniziative così risultano del tutto prive di interesse. Mentre mi interesserebbe che, in situazioni non compromesse dall’ascolto pubblico, si provasse a parlare, si facessero delle prove di conversazione su dei temi molto concreti, come la scuola, oppure la letteratura, la sociologia e persino la politica: ma parlando davvero, e non tentando di convincere il pubblico.

Reset: In una discussione pubblica ideale le posizioni diverse si dovrebbero confrontare superando anche l’obiezione degli specialisti. Il bello – e il brutto – dell’ “uso pubblico della ragione”, che sta alla base della democrazia moderna, consiste proprio nel fatto che tutti possono e devono sviluppare opinioni sugli affari pubblici, anche se non sono specialisti.

Raboni
: È così, ma Certo. Ma mi pare che siamo ad un punto zero, per cui forse bisogna ricostituire questa possibilità partendo dal meno, dal tentativo di fare delle prove di contaddittorio e di conversazione con un pubblico molto limitato, e poi a poco a poco vedere se si guadagna questa possibilità in ambiti più larghi. Credo che dobbiamo proprio ripartire dai primi passi.

Tarchi
: Quello che conta per ottenere l’audience è il calore dello scontro, e questo naturalmente va contro la possibilità di una comprensione non superficiale da parte del pubblico. Ma ha ragione Raboni, c’è da tener conto del fatto che anche gli incontri tra pochi intimi oggi vengono tenuti pressoché esclusivamente per essere fatti rimbalzare sul grande pubblico attraverso i giornali e le televisioni. Per intendersi, l’accenno che lui faceva prima al convegno di Todi richiama un’occasione che era, purtroppo, un’occasione di vetrina.

Reset: Lei è andato a Todi?

Tarchi: No, perché io non sono ascrivibile alla destra da moltissimi anni. Hanno fatto bene a non invitarmi: e comunque non sarei andato in quanto lì la premessa era quella che chi si riuniva doveva condividere le posizioni quantomeno di una delle destre esistenti. Io non ne condivido alcuna e quindi non avrei avuto nulla da dire. Non ho rifiutato il confronto con intellettuali di destra e di sinistra in alcune occasioni pubbliche, e continuo a non rifiutarlo, sebbene non condivida l’autodefinizione di nessuna delle due parti: mi sembra infatti giusto offrire, a chi si ritiene diverso da me, l’idea che la politica e le idee non hanno ancora totalmente divorziato. Sarebbe già molto se gli intellettuali di destra imparassero a discutere tra loro; hanno tantissime cose da dirsi perché il loro stare insieme è molto episodico e quando lo fanno è soltanto per un scopo politico immediato.
Ma c’e un problema molto più ampio, a destra e sinistra, e tra tutti gli intellettuali che fanno politica: non si capisce dove sia finito il senso critico. È completamente estenuato: si combattono a suon di editoriali o di interventi pubblici, però non mi pare assolutamente che stiano creando dei veri motivi di discussione trasversali. Dopo Tangentopoli, e dopo la caduta del muro di Berlino, mi pare che si sia creato nel ceto intellettuale un nucleo di convinzioni che ha creato una specie di storia sacra e intoccabile che nessuno può mettere in discussione. Tutti gli argomenti che potrebbero scalfirla vengono neutralizzati e posti fuori dal confronto. Mi domando, per esempio, che cosa sarebbe accaduto se il famoso scandalo del tema del consenso al fascismo all’epoca di De Felice fosse stato discusso in televisione invece che sulle riviste scientifiche: voglio dire che la cosiddetta civiltà liberale non è capace di una discussione realmente pluralistica, in cui si possa accettare la smentita radicale di certe tesi correnti e fare con l’altro un avvicinamento critico che davvero recepisca gli argomenti che l’altro ha messo in campo, anche se poi magari si rimane su posizioni distinte.

Reset
: Stiamo parlando della cattiva qualità della conversazione pubblica tra posizioni diverse. Raboni ha cominciato parlando di un difetto della destra: ma è un difetto solo della destra o della politica in generale?

Raboni
: Del tutto generale. Io sono partito da quell’occasione di Todi perché mi ha fatto venire in mente che si potrebbe fare qualcosa di diverso, ma non mi sembra assolutamente che sia un difetto della destra; è un difetto generale.

Reset
: Pensiamo al convegno su Heidegger al San Raffaele di Milano, dove non è venuto in mente nessuno di convocare un vero attrezzato critico di Heidegger, che disturbasse l’andamento simpatetico dell’incontro.

Raboni: Mi pare infatti che ci si muova tra questi due estremi. Da una parte c’è il modello televisivo in cui ci si combatte in maniera estremamente sommaria e violenta solo per conquistare il favore del pubblico; dall’altra parte c’è il modello del convegno in cui si tende a stare tra simili. Non c’è una via di mezzo. E credo che sia sulla via di mezzo che bisogna sforzarsi di arrivare a qualcosa.

Reset: Prendiamo l’esempio della guerra. Vi sembra che nell’opinione pubblica sia in corso un confronto di argomenti pertinenti secondo un metodo accettabile? Abbiamo una buona discussione?

Tarchi: Per niente, a mio parere. Non esiste questa buona qualità, e non esiste perché ormai ci sono logiche di schieramento che prescindono anche dai partiti politici ma che obbligano, a quanto sembra, soprattutto gli intellettuali e buona parte dell’opinione pubblica a parteggiare, cioè a schierarsi per principio da una sola parte: e poi da lì elaborare argomenti che siano polemici, qualche volta difensivi, più spesso di attacco delle opinioni altrui. Qui però ci portiamo dietro le scorie di un modo di far politica che non è stato inventato né ieri mattina né alla fine degli anni ottanta: l’accapigliarsi su basi ideologiche è stato un po’ il motivo di fondo sul quale si è rivolto il cosiddetto dibattito pubblico per lunghi anni. E per cambiare questo stato di cose sarebbe indispensabile liquidare la convinzione che ci siano categorie imprescindibili che distinguono una volta per tutte chi sta nella destra, chi nella sinistra, o residualmente al centro; e invece porsi la questione se quel che accade nelle società e nel mondo contemporanei non sia invece l’indizio di punti di frattura socioculturale sui quali si può discutere senza appartenenze di scuderia. Ma i mass-media questo lo avversano. Lei citava la questione della guerra. Io sono stato invitato da Lerner a parlarne nella sua trasmisione e mi sono visto assegnare un posto tra i dibattenti perché ritenuto di destra. E quando ho contestato questa etichetta, sono stato redarguito.

Reset: Berardinelli sostiene che la colpa della cattiva qualità della discussione tra coloro che fanno opinione è anche della “Repubblica” e del fatto che esercita una specie di monopolio sulla parte di sinistra della opinione italiana. L’altro argomento portato da Berardinelli è che noi attraversiamo delle mode culturali, che durano per un po’, e poi passano senza che nessuno spieghi bene il perché, come è avvenuto con la “moda” strutturalista. Un terzo argomento è quello che sostiene che in realtà la nostra conversazione è di scarsa qualità perché non conta niente, è provinciale, le cose si decidono altrove.

Raboni
: Tutte e tre le tesi hanno dei punti di verità, anche se io le vedrei un po’ diversamente. Su “Repubblica” forse si esagera un po’. A me colpisce di quel giornale che, pur essendo un giornale di sinistra, dal punto di vista culturale ha valorizzato soprattutto delle figure di destra: è il caso di Citati e Arbasino; c’è una curiosa contraddizione, che potrebbe essere positiva, perché rompe degli schemi, solo che bisognerebbe capirla e discuterne. La questione delle mode: sì, è un vecchio discorso che è sicuramente vero. Ma questo dipende proprio dalla strutturazione della nostra società culturale, dall’uso che si fa dell’editoria, dei mass-media. Effettivamente le mode finiscono per occupare l’orizzonte e quindi non si discute mai seriamente delle cose. Quanto al provincialismo, a me pare che la situazione della cultura tenda al provincialismo in tutto il mondo, almeno in quello occidentale. In Italia sì, la situazione è forse più accentuata, ma non è solo un problema italiano. Io mi ricollegherei alla fine delle ideologie di cui parlava Tarchi, con una formula che sicuramente non possiamo accantonare. Effettivamente, da quel momento, si conversa male perché non si riesce più a dare per scontato niente, non c’è più la formula nella quale riconoscersi, non c’è la sinistra e non c’è la destra. Bisognerebbe avere la pazienza, l’umiltà e il coraggio di ricominciare a confrontarsi su questioni veramente basilari: la questione della giustizia, ma non solo nel senso dell’ordinamento istituzionale, ma del concetto di giustizia, come del concetto di libertà, degli aspetti fondamentali dell’ordinamento della società partendo dalla premessa che, anche se ciascuno continua a pensare di avere una collocazione politica definita in base a idee correnti, in realtà non ce l’ha più: siamo abbastanza allo sbando. Se la conversazione pubblica ripartisse dalle basi, la contrapposizione tra destra e sinistra a quel punto conterebbe molto poco.

Tarchi
: Il problema però è che si può discutere delle basi se si parte dalla ammissione che non viviamo comunque nel migliore dei mondi possibili e che il modello di società che è stato prodotto sia sostanzialmente insuperabile. Perché ai tempi delle ideologie si saranno dette anche molte sciocchezza o si sarà vezzeggiata un po’ troppo l’utopia, tuttavia si discuteva di grandi temi perché ciascuno credeva di poter ragionare sul futuro. Ora si è ricondotti costantemente a ragionare sul presente e immediatamente cade l’anatema su chiunque ritenga che si possa anche solo accennare al desiderio di un futuro migliore dal presente o ad un modello società un po’ diverso da questo. In questa situazione, le premesse per quella discussione, del tutto auspicabile, di cui parla Raboni, non ci sono.

Raboni
: Concordo con Tarchi: non si può discutere su questioni di fondo se non ci si mette d’accordo su una cosa essenziale e cioè che la società è migliorabile. Fino a qualche decennio fa, da una parte si era convinti che questa società era la migliore possibile, e dall’altra che fosse la peggiore, che non valesse la pensa di discuterne perché bisognava pensare ad un altro modello. Ora ci troviamo di fronte a questa società senza alternative. Però ci possiamo metter d’accordo sul fatto che possiamo migliorarla. È a partire da qui che il discorso tra intellettuali di destra o sinistra - a questo punto non è più così importante – può ricominciare.

Tarchi
: Perfettamente d’accordo su questo ultimo suggerimento. Vorrei ricordare poi che, ai tempi delle vituperate ideologie, curiosamente, è vero che si partiva dall’idea che da una parte tutto era bello, dall’altro no, ma proprio per questa ragione si riuscivano a trovare – spesso ma non sempre – delle mediazioni concettuali. E quindi si partiva dal presupposto: beh, vediamo in che direzione si può andare per riuscire a sperimentare qualcosa di nuovo. Oggi, con le premesse che ho detto, non mi pare accada più.

Reset
: La caduta della qualità della conversazione pubblica a beneficio di processi persuasivi della pubblicità, del marketing oppure della pura collisione di propagande contrapposte non è di natura tale da suggerire qualche terapia? Perché non riflettere su un esperimento correttivo come quello proposto da James Fishkin, dei “sondaggi deliberativi”, di cui “Reset” ha parlato nei mesi scorsi e che si stanno collaudando in una ventina di paesi del mondo, dove si organizzano delle discussioni modello su campioni della popolazione, e facendole vedere in tv? Queste discussioni hanno le caratteristiche essenziali di quello che dovrebbe essere il modello della discussione deliberativa, ponderata, equilibrata, con i tempi necessari a raccogliere informazioni e a confrontarle con altri. Sarebbe almeno un passo avanti rispetto ai sondaggi di oggi, di cui rappresentano una riforma.

Tarchi
: I sondaggi deliberativi: sono senz’altro uno strumento interessante. Non vorrei però che venissero incapsulati in una sorta di utopia di sapore habermasiano, che è quella sulla sfera pubblica borghese che in qualche modo si riesce a rigenerare, ad autocurare, e così via. Per la verità, gli esperti che possono preparare le basi di discussione sulle quali instradare poi i piccoli gruppi, sono un problema, perché gli esperti nella nostra società nascono e si sviluppano con delle precise connotazioni di valore. Quindi il problema vero è come evitare che sottopongano poi alla discussione solo alcuni discorsi e non altri, che li presentino in forma sbilanciata, che orientino la discussione. Potrebbe essere una via altrettanto pericolosa di quella dei mass-media. L’alternativa alla televisione dovrebbe essere in realtà una discussione diffusa e spontanea, non articolata sulla base di una presenza di persone guida.

Reset: Quali sono allora secondo lei altre possibili terapie?

Tarchi
: Una terapia unitaria non la vedo. Per me, e forse anche per Raboni come credo per voi, il vero problema è recuperare una educazione al senso critico. L’educazione al senso critico parte dall’effettiva garanzia del pluralismo informativo, e questo non riguarda solo televisioni e giornali ma l’intero apparato di informazione e formazione di idee e culture. Se si passasse ad un livello più aperto di esposizione alle idee diverse, da parte dell’editoria e dei mezzi televisivi, faremmo un passo avanti. Tra l’altro io non credo che l’audience sia garantita da una logica di urlate contrapposizioni su certi temi: può essere garantita dall’interesse e dalla capacità espressiva di chi si pronuncia su certi temi. Non è un caso che uno come Cacciari faccia audience perché un certo dato suadente comunque abbastanza forte nella sua argomentazione esiste. E non è l’unico. Questi personaggi dimostrano che una strada si potrebbe aprire.

Reset: Torniamo alle cause della mancanza di contraddittorio: non belligeranza accademica, moltiplicazione delle nicchie e crisi del pluralismo politico organizzato. Non dimentichiamoci infatti che i grandi partiti erano gli organizzatori della discussione pubblica.

Raboni: Quanto a quest’ultimo rilievo, credo sia vero che la crisi del pluralismo politico ha messo in crisi anche quello culturale. Però forse potrebbe la cosa ha anche un aspetto positivo, perché l’ha messo in crisi ma anche potenzialmente liberato: ora si tratterebbe di approfittare di questo spazio di libertà. Sulla questione dell’accademia non sono molto sensibile, perché non ho vissuto nell’accademia. È probabile che sia vero, ma la non belligeranza mi pare un problema più vasto, relativo a quello che prima chiamavamo mancanza di spirito critico, della capacità critica. Capacità che è indispensabile sia sui grandi problemi di fondo, sia su quelli più specifici, come la critica estetica, letteraria, d’arte, cinematografica, degli avvenimenti artistici e culturali. È una forma di non belligeranza universale, altro che accademica, come sistema di produzione. Quanto alle nicchie e al complesso di superiorità, si tratta forse di una reazione difensiva, con cui si tenta di difendersi perché in realtà non si riesce più ad incidere su nulla.

Tarchi: Io non concordo sull’argomento della crisi del pluralismo politico organizzato come causa di questi effetti, semplicemente perché non pare che i grandi partiti politici addestrassero al contraddittorio tra parti diverse. Era comunque un tipo di discussione a circuito chiuso. Sarei ben contento poi che i partiti non influissero ulteriormente sulle scelte degli intellettuali, il che ahimé non avviene perché poi in realtà quando guardiamo al convegno come quello di Todi, vediamo che ha una sponsorizzazione di partito politico. L’argomento della non belligeranza accademica è accattivante di primo acchito, ma non mi convince del tutto, perché in realtà la non belligeranza accademica ormai è in buona parte un prodotto del fatto che nell’accademia le specializzazione sono continue e divergenti, e quindi esistono pochi argomenti e problemi sui quali ci si possa confrontare in maniera diretta. Quando questo avviene, le discussioni ci sono, altroché. Ci sono state nella storiografia contemporaneistica (e hanno prodotto fratture notevoli), nelle scienze sociali, nel campo della biologia piuttosto che della fisica. Per quanto riguarda la possibilità diretta di dialogo, questa anche tra accademici è ridotta, mediata dai sistemi comunicativi. Se io devo discutere delle tesi di Angelo Panebianco, non lo faccio in relazione al fatto che insegniamo scienza politica, anche perché le cose che lui scrive nei libri mi trovano consenziente. Se Panebianco scrive un editoriale sul Corriere della Sera di cui non condivido affatto l’impostazione (e mi succede quasi sempre), lo critico in altra sede. Naturalmente l’efficacia dipende anche dagli spazi che si hanno a disposizione. Per quanto riguarda la tesi di Brooks, c’è molto di vero, ma anche qui la logica della nicchia è suggerita dal fatto che o si sta nei grandi circuiti della comunicazione, e si viene vezzeggiati da questi per avere una platea ampia, oppure una platea ampia bisogna attirarsela cercando di andare a toccare alcune questioni, alcuni filoni di discussione, magari minoritari, ma che sono l’unico modo per mettersi in risalto. Tra i tanti vizi questo non mi sembra di quelli più perversi, è semplicemente un prodotto dell’interazione dinamica, mass-mediale e culturale, tra soggetti diversi.

Questo articolo è apparso sul sumero 76 i Reset (marzo-aprile).

 

 

 

 

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