Reset: Il tema sollevato da Raboni
nell’articolo sul Corriere - in cui, in occasione
di un convegno di intellettuali della destra, si lamentava
l’assenza di contraddittorio con quelli della
sinistra – è un tema che a “Reset”
è particolarmente caro, perché tocca
la qualità della discussione e della conversazione
pubblica che sta alla base di un sistema democratico
liberale: sistema che, senza una forte opinione pubblica,
non funziona bene. È un tema che si può
sviluppare in diverse direzioni. Ci sono varie ipotesi
sulle ragioni del deficit di dialettica: il costume
accademico della non belligeranza tra diversi; oppure
lo specialismo delle discussioni, per cui se si appartiene
ad una parrocchia è difficile che si riesca
a contraddire il mondo di coloro che appartengono
ad un’altra; infine l’ipotesi di David
Brooks: per sopravvivere meglio nel nostro tempo ciascuno
scava una nicchia in cui tranquillamente sopravvalutarsi,
il che esclude che siano apprezzate le critiche.
Tarchi: Il problema esiste, indiscutibilmente.
Circa le linee di interpretazione che sono state suggerite,
in parte sono d’accordo e in parte penso che
debbano essere ulteriormente scavate se si vuole andare
al nucleo vero della questione, che è la cosiddetta
“fine delle ideologie”, che ha comportato
un ripiegamento da più parti su temi che, per
loro natura, si prestano ad approcci pragmatici, e
che per intellettuali abituati ad un modo di filtrare
le cose molto ideologico risultano difficili.
Per affrontare questi problemi si ricorre ad argomenti
che spesso sono utilizzati indistintamente dall’una
parte e dall’altra. E questo fa sì che,
non potendosi distinguere troppo facilmente sul piano
dei giudizi di valore, si punti moltissimo ad esasperare
i toni della contrapposizione, spostando quindi la
questione del capirsi a quella dell’ergere dei
muri, in modo da spingere gli osservatori a porsi
di qua o di là. Questo tipo di logica agisce
in continuazione, e ha la sua consacrazione fondamentale
in televisione, nei talk show. Lì la preoccupazione
dei molti, se non di tutti, è quella di convincere
il pubblico dei potenziali simpatizzanti. Quando parliamo
degli intellettuali di destra o di sinistra questo
problema è esasperato al massimo grado; lo
spazio si apre per gli “urlatori” e per
i provocatori in senso negativo, oppure per i parlatori
generici. Gli altri rimangono in qualche modo ai margini.
Questa situazione non è superabile con uno
sforzo di buona volontà, ci vuole ben altro;
da questo punto di vista occorrerebbe che cambiasse
il concetto del confronto delle idee, al di là
dello spartiacque destra-sinistra. Sappiamo benissimo
che nella gran parte dei media si viene chiamati a
parlare di tale argomento o tal altro perché
ritenuti aderenti ad una posizione politica. Questo
fa sì ovviamente che, da una parte, non si
ricorra quasi mai a chi non si riconosce in questo
schema e, dall’altra, che chi viene chiamato,
se vuole continuare ad essere chiamato, sia obbligato
a rispettare l’etichettura.
Reset: Si litiga, ma non si discute.
Tarchi: La discussione è orientata
solo verso il pubblico terzo, ma non si ammette neppure
per principio di poter dire qualcosa sul quale l’altro
può convergere; al contrario, si cerca la divergenza
che in un certo senso fa audience e chiarisce le idee
allo spettatore solo rendendo tutto più semplificato.
Sappiamo che la semplificazione è un codice
fondamentale nella logica mediatica attuale.
Reset: Non c’è il contraddittorio
deliberativo ma un confronto di propagande indotto
dai mezzi di comunicazione di massa. Il vero confronto
di argomenti, se le cose stanno così, non ha
mercato. Così Tarchi. E Raboni?
Raboni: Mi fermerei proprio su una
cosa interessante che ha detto Tarchi: effettivamente
non c’è contraddittorio, o conversazione,
per usare il termine caro a Berardinelli, perché
tutto quello che avviene, avviene in uno spazio rivolto
al pubblico. Il modello televisivo è quello
che, durante il dibattito, vuole conquistare il consenso
del pubblico: quindi in realtà non si parla,
si tenta di sopraffarsi a vicenda.
L’idea da cui ero partito, semplicissima e anche
forse ingenua, era di cercare di riaprire uno spazio
di contraddittorio e di conversazione approfittando
di sedi non così esposte come quelle televisive,
come ad esempio alcuni convegni. Mi pare infatti che
in casi come quello che citavo, l’incontro di
intellettuali di destra a Todi, si affrontino temi
che riguardano la propria identità, la rivendicazione
delle proprie radici e storia e si cerca un confronto
non con gli altri ma con i propri referenti politici,
per cui Adornato invita Casini, legge i messaggi di
Berlusconi e così via. A me iniziative così
risultano del tutto prive di interesse. Mentre mi
interesserebbe che, in situazioni non compromesse
dall’ascolto pubblico, si provasse a parlare,
si facessero delle prove di conversazione su dei temi
molto concreti, come la scuola, oppure la letteratura,
la sociologia e persino la politica: ma parlando davvero,
e non tentando di convincere il pubblico.
Reset: In una discussione pubblica
ideale le posizioni diverse si dovrebbero confrontare
superando anche l’obiezione degli specialisti.
Il bello – e il brutto – dell’ “uso
pubblico della ragione”, che sta alla base della
democrazia moderna, consiste proprio nel fatto che
tutti possono e devono sviluppare opinioni sugli affari
pubblici, anche se non sono specialisti.
Raboni: È così, ma Certo. Ma
mi pare che siamo ad un punto zero, per cui forse
bisogna ricostituire questa possibilità partendo
dal meno, dal tentativo di fare delle prove di contaddittorio
e di conversazione con un pubblico molto limitato,
e poi a poco a poco vedere se si guadagna questa possibilità
in ambiti più larghi. Credo che dobbiamo proprio
ripartire dai primi passi.
Tarchi: Quello che conta per ottenere l’audience
è il calore dello scontro, e questo naturalmente
va contro la possibilità di una comprensione
non superficiale da parte del pubblico. Ma ha ragione
Raboni, c’è da tener conto del fatto
che anche gli incontri tra pochi intimi oggi vengono
tenuti pressoché esclusivamente per essere
fatti rimbalzare sul grande pubblico attraverso i
giornali e le televisioni. Per intendersi, l’accenno
che lui faceva prima al convegno di Todi richiama
un’occasione che era, purtroppo, un’occasione
di vetrina.
Reset: Lei è andato a Todi?
Tarchi: No, perché io non
sono ascrivibile alla destra da moltissimi anni. Hanno
fatto bene a non invitarmi: e comunque non sarei andato
in quanto lì la premessa era quella che chi
si riuniva doveva condividere le posizioni quantomeno
di una delle destre esistenti. Io non ne condivido
alcuna e quindi non avrei avuto nulla da dire. Non
ho rifiutato il confronto con intellettuali di destra
e di sinistra in alcune occasioni pubbliche, e continuo
a non rifiutarlo, sebbene non condivida l’autodefinizione
di nessuna delle due parti: mi sembra infatti giusto
offrire, a chi si ritiene diverso da me, l’idea
che la politica e le idee non hanno ancora totalmente
divorziato. Sarebbe già molto se gli intellettuali
di destra imparassero a discutere tra loro; hanno
tantissime cose da dirsi perché il loro stare
insieme è molto episodico e quando lo fanno
è soltanto per un scopo politico immediato.
Ma c’e un problema molto più ampio, a
destra e sinistra, e tra tutti gli intellettuali che
fanno politica: non si capisce dove sia finito il
senso critico. È completamente estenuato: si
combattono a suon di editoriali o di interventi pubblici,
però non mi pare assolutamente che stiano creando
dei veri motivi di discussione trasversali. Dopo Tangentopoli,
e dopo la caduta del muro di Berlino, mi pare che
si sia creato nel ceto intellettuale un nucleo di
convinzioni che ha creato una specie di storia sacra
e intoccabile che nessuno può mettere in discussione.
Tutti gli argomenti che potrebbero scalfirla vengono
neutralizzati e posti fuori dal confronto. Mi domando,
per esempio, che cosa sarebbe accaduto se il famoso
scandalo del tema del consenso al fascismo all’epoca
di De Felice fosse stato discusso in televisione invece
che sulle riviste scientifiche: voglio dire che la
cosiddetta civiltà liberale non è capace
di una discussione realmente pluralistica, in cui
si possa accettare la smentita radicale di certe tesi
correnti e fare con l’altro un avvicinamento
critico che davvero recepisca gli argomenti che l’altro
ha messo in campo, anche se poi magari si rimane su
posizioni distinte.
Reset: Stiamo parlando della cattiva qualità
della conversazione pubblica tra posizioni diverse.
Raboni ha cominciato parlando di un difetto della
destra: ma è un difetto solo della destra o
della politica in generale?
Raboni: Del tutto generale. Io sono partito
da quell’occasione di Todi perché mi
ha fatto venire in mente che si potrebbe fare qualcosa
di diverso, ma non mi sembra assolutamente che sia
un difetto della destra; è un difetto generale.
Reset: Pensiamo al convegno su Heidegger
al San Raffaele di Milano, dove non è venuto
in mente nessuno di convocare un vero attrezzato critico
di Heidegger, che disturbasse l’andamento simpatetico
dell’incontro.
Raboni: Mi pare infatti che ci si
muova tra questi due estremi. Da una parte c’è
il modello televisivo in cui ci si combatte in maniera
estremamente sommaria e violenta solo per conquistare
il favore del pubblico; dall’altra parte c’è
il modello del convegno in cui si tende a stare tra
simili. Non c’è una via di mezzo. E credo
che sia sulla via di mezzo che bisogna sforzarsi di
arrivare a qualcosa.
Reset: Prendiamo l’esempio
della guerra. Vi sembra che nell’opinione pubblica
sia in corso un confronto di argomenti pertinenti
secondo un metodo accettabile? Abbiamo una buona discussione?
Tarchi: Per niente, a mio parere.
Non esiste questa buona qualità, e non esiste
perché ormai ci sono logiche di schieramento
che prescindono anche dai partiti politici ma che
obbligano, a quanto sembra, soprattutto gli intellettuali
e buona parte dell’opinione pubblica a parteggiare,
cioè a schierarsi per principio da una sola
parte: e poi da lì elaborare argomenti che
siano polemici, qualche volta difensivi, più
spesso di attacco delle opinioni altrui. Qui però
ci portiamo dietro le scorie di un modo di far politica
che non è stato inventato né ieri mattina
né alla fine degli anni ottanta: l’accapigliarsi
su basi ideologiche è stato un po’ il
motivo di fondo sul quale si è rivolto il cosiddetto
dibattito pubblico per lunghi anni. E per cambiare
questo stato di cose sarebbe indispensabile liquidare
la convinzione che ci siano categorie imprescindibili
che distinguono una volta per tutte chi sta nella
destra, chi nella sinistra, o residualmente al centro;
e invece porsi la questione se quel che accade nelle
società e nel mondo contemporanei non sia invece
l’indizio di punti di frattura socioculturale
sui quali si può discutere senza appartenenze
di scuderia. Ma i mass-media questo lo avversano.
Lei citava la questione della guerra. Io sono stato
invitato da Lerner a parlarne nella sua trasmisione
e mi sono visto assegnare un posto tra i dibattenti
perché ritenuto di destra. E quando ho contestato
questa etichetta, sono stato redarguito.
Reset: Berardinelli sostiene che
la colpa della cattiva qualità della discussione
tra coloro che fanno opinione è anche della
“Repubblica” e del fatto che esercita
una specie di monopolio sulla parte di sinistra della
opinione italiana. L’altro argomento portato
da Berardinelli è che noi attraversiamo delle
mode culturali, che durano per un po’, e poi
passano senza che nessuno spieghi bene il perché,
come è avvenuto con la “moda” strutturalista.
Un terzo argomento è quello che sostiene che
in realtà la nostra conversazione è
di scarsa qualità perché non conta niente,
è provinciale, le cose si decidono altrove.
Raboni: Tutte e tre le tesi hanno dei punti
di verità, anche se io le vedrei un po’
diversamente. Su “Repubblica” forse si
esagera un po’. A me colpisce di quel giornale
che, pur essendo un giornale di sinistra, dal punto
di vista culturale ha valorizzato soprattutto delle
figure di destra: è il caso di Citati e Arbasino;
c’è una curiosa contraddizione, che potrebbe
essere positiva, perché rompe degli schemi,
solo che bisognerebbe capirla e discuterne. La questione
delle mode: sì, è un vecchio discorso
che è sicuramente vero. Ma questo dipende proprio
dalla strutturazione della nostra società culturale,
dall’uso che si fa dell’editoria, dei
mass-media. Effettivamente le mode finiscono per occupare
l’orizzonte e quindi non si discute mai seriamente
delle cose. Quanto al provincialismo, a me pare che
la situazione della cultura tenda al provincialismo
in tutto il mondo, almeno in quello occidentale. In
Italia sì, la situazione è forse più
accentuata, ma non è solo un problema italiano.
Io mi ricollegherei alla fine delle ideologie di cui
parlava Tarchi, con una formula che sicuramente non
possiamo accantonare. Effettivamente, da quel momento,
si conversa male perché non si riesce più
a dare per scontato niente, non c’è più
la formula nella quale riconoscersi, non c’è
la sinistra e non c’è la destra. Bisognerebbe
avere la pazienza, l’umiltà e il coraggio
di ricominciare a confrontarsi su questioni veramente
basilari: la questione della giustizia, ma non solo
nel senso dell’ordinamento istituzionale, ma
del concetto di giustizia, come del concetto di libertà,
degli aspetti fondamentali dell’ordinamento
della società partendo dalla premessa che,
anche se ciascuno continua a pensare di avere una
collocazione politica definita in base a idee correnti,
in realtà non ce l’ha più: siamo
abbastanza allo sbando. Se la conversazione pubblica
ripartisse dalle basi, la contrapposizione tra destra
e sinistra a quel punto conterebbe molto poco.
Tarchi: Il problema però è
che si può discutere delle basi se si parte
dalla ammissione che non viviamo comunque nel migliore
dei mondi possibili e che il modello di società
che è stato prodotto sia sostanzialmente insuperabile.
Perché ai tempi delle ideologie si saranno
dette anche molte sciocchezza o si sarà vezzeggiata
un po’ troppo l’utopia, tuttavia si discuteva
di grandi temi perché ciascuno credeva di poter
ragionare sul futuro. Ora si è ricondotti costantemente
a ragionare sul presente e immediatamente cade l’anatema
su chiunque ritenga che si possa anche solo accennare
al desiderio di un futuro migliore dal presente o
ad un modello società un po’ diverso
da questo. In questa situazione, le premesse per quella
discussione, del tutto auspicabile, di cui parla Raboni,
non ci sono.
Raboni: Concordo con Tarchi: non si può
discutere su questioni di fondo se non ci si mette
d’accordo su una cosa essenziale e cioè
che la società è migliorabile. Fino
a qualche decennio fa, da una parte si era convinti
che questa società era la migliore possibile,
e dall’altra che fosse la peggiore, che non
valesse la pensa di discuterne perché bisognava
pensare ad un altro modello. Ora ci troviamo di fronte
a questa società senza alternative. Però
ci possiamo metter d’accordo sul fatto che possiamo
migliorarla. È a partire da qui che il discorso
tra intellettuali di destra o sinistra - a questo
punto non è più così importante
– può ricominciare.
Tarchi: Perfettamente d’accordo su
questo ultimo suggerimento. Vorrei ricordare poi che,
ai tempi delle vituperate ideologie, curiosamente,
è vero che si partiva dall’idea che da
una parte tutto era bello, dall’altro no, ma
proprio per questa ragione si riuscivano a trovare
– spesso ma non sempre – delle mediazioni
concettuali. E quindi si partiva dal presupposto:
beh, vediamo in che direzione si può andare
per riuscire a sperimentare qualcosa di nuovo. Oggi,
con le premesse che ho detto, non mi pare accada più.
Reset: La caduta della qualità della
conversazione pubblica a beneficio di processi persuasivi
della pubblicità, del marketing oppure della
pura collisione di propagande contrapposte non è
di natura tale da suggerire qualche terapia? Perché
non riflettere su un esperimento correttivo come quello
proposto da James Fishkin, dei “sondaggi deliberativi”,
di cui “Reset” ha parlato nei mesi scorsi
e che si stanno collaudando in una ventina di paesi
del mondo, dove si organizzano delle discussioni modello
su campioni della popolazione, e facendole vedere
in tv? Queste discussioni hanno le caratteristiche
essenziali di quello che dovrebbe essere il modello
della discussione deliberativa, ponderata, equilibrata,
con i tempi necessari a raccogliere informazioni e
a confrontarle con altri. Sarebbe almeno un passo
avanti rispetto ai sondaggi di oggi, di cui rappresentano
una riforma.
Tarchi: I sondaggi deliberativi: sono senz’altro
uno strumento interessante. Non vorrei però
che venissero incapsulati in una sorta di utopia di
sapore habermasiano, che è quella sulla sfera
pubblica borghese che in qualche modo si riesce a
rigenerare, ad autocurare, e così via. Per
la verità, gli esperti che possono preparare
le basi di discussione sulle quali instradare poi
i piccoli gruppi, sono un problema, perché
gli esperti nella nostra società nascono e
si sviluppano con delle precise connotazioni di valore.
Quindi il problema vero è come evitare che
sottopongano poi alla discussione solo alcuni discorsi
e non altri, che li presentino in forma sbilanciata,
che orientino la discussione. Potrebbe essere una
via altrettanto pericolosa di quella dei mass-media.
L’alternativa alla televisione dovrebbe essere
in realtà una discussione diffusa e spontanea,
non articolata sulla base di una presenza di persone
guida.
Reset: Quali sono allora secondo
lei altre possibili terapie?
Tarchi: Una terapia unitaria non la vedo.
Per me, e forse anche per Raboni come credo per voi,
il vero problema è recuperare una educazione
al senso critico. L’educazione al senso critico
parte dall’effettiva garanzia del pluralismo
informativo, e questo non riguarda solo televisioni
e giornali ma l’intero apparato di informazione
e formazione di idee e culture. Se si passasse ad
un livello più aperto di esposizione alle idee
diverse, da parte dell’editoria e dei mezzi
televisivi, faremmo un passo avanti. Tra l’altro
io non credo che l’audience sia garantita da
una logica di urlate contrapposizioni su certi temi:
può essere garantita dall’interesse e
dalla capacità espressiva di chi si pronuncia
su certi temi. Non è un caso che uno come Cacciari
faccia audience perché un certo dato suadente
comunque abbastanza forte nella sua argomentazione
esiste. E non è l’unico. Questi personaggi
dimostrano che una strada si potrebbe aprire.
Reset: Torniamo alle cause della
mancanza di contraddittorio: non belligeranza accademica,
moltiplicazione delle nicchie e crisi del pluralismo
politico organizzato. Non dimentichiamoci infatti
che i grandi partiti erano gli organizzatori della
discussione pubblica.
Raboni: Quanto a quest’ultimo
rilievo, credo sia vero che la crisi del pluralismo
politico ha messo in crisi anche quello culturale.
Però forse potrebbe la cosa ha anche un aspetto
positivo, perché l’ha messo in crisi
ma anche potenzialmente liberato: ora si tratterebbe
di approfittare di questo spazio di libertà.
Sulla questione dell’accademia non sono molto
sensibile, perché non ho vissuto nell’accademia.
È probabile che sia vero, ma la non belligeranza
mi pare un problema più vasto, relativo a quello
che prima chiamavamo mancanza di spirito critico,
della capacità critica. Capacità che
è indispensabile sia sui grandi problemi di
fondo, sia su quelli più specifici, come la
critica estetica, letteraria, d’arte, cinematografica,
degli avvenimenti artistici e culturali. È
una forma di non belligeranza universale, altro che
accademica, come sistema di produzione. Quanto alle
nicchie e al complesso di superiorità, si tratta
forse di una reazione difensiva, con cui si tenta
di difendersi perché in realtà non si
riesce più ad incidere su nulla.
Tarchi: Io non concordo sull’argomento
della crisi del pluralismo politico organizzato come
causa di questi effetti, semplicemente perché
non pare che i grandi partiti politici addestrassero
al contraddittorio tra parti diverse. Era comunque
un tipo di discussione a circuito chiuso. Sarei ben
contento poi che i partiti non influissero ulteriormente
sulle scelte degli intellettuali, il che ahimé
non avviene perché poi in realtà quando
guardiamo al convegno come quello di Todi, vediamo
che ha una sponsorizzazione di partito politico. L’argomento
della non belligeranza accademica è accattivante
di primo acchito, ma non mi convince del tutto, perché
in realtà la non belligeranza accademica ormai
è in buona parte un prodotto del fatto che
nell’accademia le specializzazione sono continue
e divergenti, e quindi esistono pochi argomenti e
problemi sui quali ci si possa confrontare in maniera
diretta. Quando questo avviene, le discussioni ci
sono, altroché. Ci sono state nella storiografia
contemporaneistica (e hanno prodotto fratture notevoli),
nelle scienze sociali, nel campo della biologia piuttosto
che della fisica. Per quanto riguarda la possibilità
diretta di dialogo, questa anche tra accademici è
ridotta, mediata dai sistemi comunicativi. Se io devo
discutere delle tesi di Angelo Panebianco, non lo
faccio in relazione al fatto che insegniamo scienza
politica, anche perché le cose che lui scrive
nei libri mi trovano consenziente. Se Panebianco scrive
un editoriale sul Corriere della Sera di cui non condivido
affatto l’impostazione (e mi succede quasi sempre),
lo critico in altra sede. Naturalmente l’efficacia
dipende anche dagli spazi che si hanno a disposizione.
Per quanto riguarda la tesi di Brooks, c’è
molto di vero, ma anche qui la logica della nicchia
è suggerita dal fatto che o si sta nei grandi
circuiti della comunicazione, e si viene vezzeggiati
da questi per avere una platea ampia, oppure una platea
ampia bisogna attirarsela cercando di andare a toccare
alcune questioni, alcuni filoni di discussione, magari
minoritari, ma che sono l’unico modo per mettersi
in risalto. Tra i tanti vizi questo non mi sembra
di quelli più perversi, è semplicemente
un prodotto dell’interazione dinamica, mass-mediale
e culturale, tra soggetti diversi.
Questo articolo è apparso sul sumero 76 i Reset
(marzo-aprile).
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