Annette Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia,
Einaudi, Pag. 77, Euro 5,50
Perché
esiste l’antisemitismo? E’ una domanda
senza una risposta che sia precisa, diretta. L’analisi
storica degli avvenimenti non basta per ricercarne
la ragione. L’antisemitismo ha una radice così
profonda che si ramifica nei meandri dell’essere,
tanto da renderne impossibile, perchè troppo
traumatica, la rivelazione.
Auschwitz spiegato a mia figlia, un piccolo
libro edito da Einaudi e scritto da Annette Wieviorka,
pone questo interrogativo senza risposta. E lo fa
inoltrando lo sguardo in quelle vicende tutte europee
che furono il nazismo e i lager, soprattutto Auschwitz,
che l'autrice definisce “probabilmente l’avvenimento
più europeo di tutta la storia del Novecento”.
Annette, che è ebrea, spiega a sua figlia Mathilde
la storia della distruzione degli ebrei d’Europa,
raccontandone le origini antiche, in Germania nella
seconda metà del XIX secolo, ad opera di pubblicisti
che si richiamavano alle dottrine di Hegel e di Nietzsche
e più in particolare a quelle di H.S. Chamberlain
e di J.A. Gobineau. Dalla Germania il movimento si
diffuse in altri paesi europei e negli anni che seguirono
la prima guerra mondiale, l’antisemitismo si
affermò come dottrina ufficiale del nazismo
teorizzato da Hitler nel suo Mein Kampf e
da Rosenberg nell’opera Il mito del XX secolo.
L’antisemitismo
hitleriano toccò il suo apice con l’eliminazione
fisica di sei milioni di ebrei. E la Polonia, che
fu annessa alla Germania nazista nel 1939, ebbe il
campo di sterminio più famoso e terribile:
Oswiecim in polacco, ribattezzato Auschwitz in tedesco.
L’unico lager dove il numero che sostituiva
il nome di ogni ebreo deportato veniva inciso nella
carne. Quel marchio indelebile che Mathilde nota sul
polso di Berthe, un’amica della madre incontrata
d’estate sulla spiaggia, e che dà inizio
alla serie di domande attraverso cui viene ricostruita
e narrata la storia del genocidio.
Una storia che inizia con un numero al posto di un
nome e in cui Anne ritrova le parole di Primo Levi:
“ Nulla è più nostro. Ci hanno
tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Ci toglieranno
anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare
in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro
al nome qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo,
rimanga”. E’ la domanda inevasa, perché
fare dell’essere il nulla? Sembra quasi una
sfida a Dio. Se è così, una risposta
non può esserci, se non nell’ombra dell’odio
più profondamente umano.
La
verità è che non esiste replica alla
volontà d’annientamento nazista. E’
uno di quei fenomeni a cui corrisponde il tragico
nulla; una colpa che non ha nemmeno l’attenuante
del conflitto ancestrale. Un nulla da far impazzire.
Per questo non bisogna dimenticare. La memoria è
l’unica testimonianza capace di dare un senso.
Per questo Anne racconta, risponde alle domande di
Mathilde, che cerca un perché. Il solo perché
è la Storia.
Leggete questo piccolo libro, non per trovare una
ragionevole colpa, ma per tenere con voi un pezzo
della nostra memoria, della memoria dell’Europa
che si avvia a diventare nazione del mondo senza dimenticare
nulla del proprio passato.
Così nella postfazione Amos Luzzatto si chiede
se la colpa non risieda anche nell’animo di
coloro che sono stati spettatori dell’enorme
tragedia. Perché nessuno ha denunciato gli
orrori? E’ possibile che i nazisti siano riusciti
a non far trapelare nulla dei crimini commessi? Soprattutto,
chi sapeva, poteva fare qualcosa? “ Perché
gli ebrei – si chiede Luzzatto – si sono
fatti portare come pecore al macello?”.
Interrogativi ai quali possono rispondere i testimoni,
ma sono in pochi ormai, e tra non molto non ci saranno
più. Ci rimarrà il racconto, la Storia,
le storie; la memoria, appunto. Quella che permetterà
a Mathilde di narrare eventi mai vissuti, perché
le sono stati raccontati da sua madre. Una risposta
che si perpetua nel tempo.
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