Quella che segue è la prefazione al libro
di Paolo Cacace L’atomica europea.
I progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia,
le domande del futuro, Fazi Editore,
pagine 259, euro 19,50.
La
storia raccontata in questo libro è paradossalmente
ignota all’opinione pubblica italiana e alla
classe politica che è andata al governo negli
ultimi quindici anni. Non credo che la scomparsa di
molti protagonisti – Pella, Scelba, Mattei,
Ippolito, Saragat, Fanfani, Taviani, gli ambasciatori
a Parigi, Bonn, Washington, Londra – basti a
spiegare il velo di silenzio che è sceso sulla
politica nucleare dei governi italiani dopo la fine
della seconda guerra mondiale. Ci restano i diari
di Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa dal
1953 al 1958, gli scritti di Felice Ippolito, segretario
generale del Cnen (Comitato Nazionale per l’Energia
Nucleare) e di Achille Albonetti, responsabile del
Comitato per i rapporti internazionali. Ci restano
i saggi e le memorie di Roberto Gaja, segretario generale
del ministero degli Esteri negli anni in cui il governo
italiano ratificò il trattato di Non Proliferazione.
Ci restano soprattutto i documenti degli archivi italiani
e quelli dei due paesi (Francia e Germania) che firmarono
con l’Italia nel 1957 un accordo tripartito.
La storia che gli italiani ignorano è nota
ai governi europei, agli americani e a tutti coloro
che hanno studiato l’influenza dell’energia
nucleare sulla politica internazionale negli ultimi
sessant’anni. Se in Italia è apparsa,
sino al libro di Cacace, marginale o irrilevante,
le ragioni, quindi, vanno cercate altrove. Ma occorre
anzitutto ricordare brevemente i termini della questione.
Nell’autunno del 1956 il governo francese, presieduto
dal socialista Guy Mollet, tirò fuori dal cassetto
un vecchio progetto, di cui si era segretamente discusso
nei mesi precedenti, e propose a due partner europei
(Germania e Italia) un’intesa tripartita per
la collaborazione atomica in campo militare. La proposta
fu avanzata dopo il fallimento della spedizione anglo-francese
a Suez, in un momento in cui la Francia, ricorda Cacace,
era impegnata nella guerra algerina e lamentava l’insensibilità
della Nato per una questione che il governo di Parigi
considerava vitale. Il riferimento a Suez conferma
che la piccola guerra scatenata contro l’Egitto
dalle due potenze europee con la complicità
di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale fu,
insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque
della politica internazionale nel secondo dopoguerra.
Quando gli Stati Uniti intervennero e imposero la
cessazione delle ostilità, Gran Bretagna e
Francia ebbero reazioni opposte. A Londra i conservatori
scelsero un nuovo premier nella persona di Harold
MacMillan, dettero un colpo di acceleratore alla decolonizzazione
e decisero che il rapporto speciale con gli Stati
Uniti era più importante dei loro vecchi sogni
imperiali. La Francia conservò Guy Mollet alla
testa del governo e decise testardamente che soltanto
l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare
la testa di fronte all’America. Il patto tripartito
che Parigi offrì in quei mesi alla Germania
e all’Italia risponde per l’appunto a
questa esigenza. Il lettore troverà nel libro
le varie tappe di un negoziato che durò due
anni e si concluse nell’aprile del 1958 con
due incontri dei tre ministri della Difesa: Jacques
Chaban-Delmas per la Francia, Franz Josef Strauss
per la Germania e Paolo Emilio Taviani per l’Italia.
Nel primo incontro, a Parigi, venne firmata una convenzione
“per lo sviluppo delle attività dell’Istituto
di ricerche di Saint Louis in Alsazia in cui [erano]
comprese verosimilmente iniziative di studio e sperimentazione
in campo nucleare”. Nel secondo, a Roma, furono
approvate iniziative di collaborazione nel settore
delle armi convenzionali e fu raggiunto “un
accordo segreto per la costruzione di un impianto
di separazione isotopica per la produzione di uranio
arricchito a Pierrelatte, in Francia”. Le spese
sarebbe state sostenute per il 90 per cento da Francia
e Germania, per il 10 per cento dall’Italia.
La partecipazione italiana era modesta, ma dava al
governo, presieduto allora da Adone Zoli, la possibilità
di acquisire informazioni e materiali.
Il paese, del resto, era ormai in condizione di farne
buon uso. Nel 1952 era stato creato il Cnrn (Comitato
Nazionale per le Ricerche Nucleari) e gli era stata
affidata la costruzione di un primo reattore. Nel
1956, presso l’Accademia Navale di Livorno,
era entrato in funzione il Camen (Centro per l’Applicazione
Militare dell’Energia Nucleare). I primi risultati
furono visibili negli anni seguenti. Nel 1958 cominciò
la costruzione della centrale di Latina, nel dicembre
1962 il reattore divenne critico e nel maggio dell’anno
successivo, come ricorda Cacace, cominciò la
produzione di energia elettrica. Erano cominciati
contemporaneamente i lavori per un’altra centrale,
sul Garigliano, che avrebbe prodotto energia nel gennaio
del 1964. Nel frattempo anche due grandi aziende private,
FIAT e Montecatini, erano scese in campo. Un reattore
di ricerca fu installato a Trino Vercellese e cominciò
a produrre energia nel 1964. Esistevano quindi in
Italia, negli anni Sessanta, le condizioni per una
politica nucleare che avrebbe permesso al paese, tra
l’altro, di affrontare con maggiore tranquillità
e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973
e del 1979.
La parte militare del programma, tuttavia, era stata
abbandonata lungo la strada. La responsabilità
fu in primo luogo francese. Quando tornò al
potere nel maggio del 1958, il generale de Gaulle
volle che la Francia denunciasse l’accordo tripartito
dei mesi precedenti. Non credeva che la potenza nucleare
potesse restare nelle mani di un’amministrazione
condominiale ed era deciso a dotare il suo paese di
una force de frappe esclusivamente nazionale. L’Italia,
dal canto suo, finì per assecondare la scelta
di de Gaulle. Non appena formò il suo secondo
governo, dopo le elezioni del maggio 1958, Amintore
Fanfani decise di coltivare il rapporto con gli Stati
Uniti e fece un viaggio a Washington in luglio durante
il quale, tra l’altro, cercò di convincere
il presidente Eisenhower che l’Italia sarebbe
stata nel Mediterraneo il migliore interlocutore dei
paesi arabi e che avrebbe fatto nell’interesse
dell’Occidente la parte del “buon sensale”.
Fanfani diffidava della politica di de Gaulle, ma
per molti aspetti gli assomigliava. Sapeva che la
politica araba della Francia era allora fortemente
condizionata dalla questione algerina e riteneva che
l’Italia, grazie alla sua “verginità”
coloniale e alla politica petrolifera di Enrico Mattei,
avrebbe potuto prenderne il posto. Non basta. Voleva
altresì, come usava dire in quegli anni, “spostare
a sinistra l’asse della politica italiana”
e desiderava assicurare Eisenhower che il nuovo corso
non avrebbe intaccato l’alleanza con gli Stati
Uniti. Il governo Fanfani durò soltanto qualche
mese, ma quello di Antonio Segni, insediato nel febbraio
del 1959, completò la svolta americana della
politica estera italiana negoziando con Washington,
poche settimane dopo, l’installazione di missili
Jupiter nel territorio nazionale. Fu quello il momento
in cui l’Italia rinunciò implicitamente
alla prospettiva d’una bomba europea.
Cambiava intanto l’atteggiamento della pubblica
opinione verso le armi nucleari. Tra i movimenti pacifisti
e antiatomici dell’immediato dopoguerra e quelli
degli anni Sessanta vi è una importante differenza.
Mentre i primi furono orchestrati da Mosca, con l’appoggio
dei partiti comunisti, ed erano motivati soprattutto
dal timore che l’America approfittasse della
propria superiorità per distruggere l’Urss,
i secondi rispecchiarono sentimenti diffusi in larghi
settori delle società occidentali. Stalin era
morto, il “disgelo” e la distensione erano
diventati temi quotidiani del dibattito politico,
gli esperimenti nucleari e le radiazioni rappresentavano
una intollerabile minaccia per la vita umana e l’ambiente.
Quando un filosofo inglese, Bertrand Russell, prese
la guida di un grande movimento (il Cnd, Campaign
for Nuclear Disarmament) e organizzò raduni
che richiamavano decine di migliaia di persone, i
governi delle democrazie occidentali capirono di avere
a che fare con un’opposizione più importante
di quella che era scesa in piazza dieci anni prima
per protestare contro l’atomica americana.
Cominciò allora il lungo negoziato per accordi,
stipulati negli anni seguenti, che avrebbero sospeso,
limitato o proibito i più pericolosi esperimenti
nucleari. Questi accordi, beninteso, non impedirono
alle due maggiori potenze di modernizzare il loro
arsenale e al club atomico di allargarsi progressivamente
a nuovi membri, reali o potenziali: dopo la Francia
e la Cina (“atomiche” rispettivamente
dal 1960 e dal 1964) anche Israele, il Sudafrica e,
più tardi, l’India. Fu quello il momento
in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica
capirono di avere gli stessi interessi e si accordarono
di fatto per lavorare insieme a un trattato che avrebbe
vietato la proliferazione delle armi nucleari. Fu
firmato il 1° luglio 1968 e costrinse l’Italia
a uscire dalle incertezze e ambiguità degli
anni precedenti. Se avesse ceduto alle pressioni dell’America,
che le chiedeva insistentemente di firmare, avrebbe
rinunciato, nel settore degli armamenti, alle sue
ambizioni nucleari del decennio precedente.
La decisione di firmare fu presa agli inizi del 1969
da un governo in cui il ministro degli Esteri era
Pietro Nenni. Per le grandi potenze nucleari, interessate
a limitare il numero dei concorrenti, il clima politico
italiano non poteva essere migliore: la contestazione
nelle università, gli scioperi nelle fabbriche,
i socialisti al governo e, alla guida della diplomazia
italiana, un uomo che nella primavera del 1949, dopo
la firma del Patto Atlantico, si era battuto in Parlamento
contro il “cappio delle alleanze”. Cacace
osserva che l’Italia, tuttavia, prese qualche
precauzione e pretese una clausola “europea”
con cui “dichiarava formalmente di rinunciare
a una forza atomica nazionale, ma non a una forza
atomica europea, laddove il processo di disarmo nucleare,
a livello internazionale, non si fosse realizzato”.
Occorreva ora la ratifica. Ma le vicissitudini della
politica italiana dopo la crisi del centro-sinistra
e le elezioni del 1972 ebbero l’effetto di riaprire
la discussione nel governo sulla scelta atomica della
politica estera italiana. Esistevano ancora ambiziosi
programmi per l’impiego civile dell’energia
nucleare. E un programma civile poteva sempre, all’occorrenza,
avere risvolti e implicazioni militari. Era civile
o militare, ad esempio, la nave Enrico Fermi
(un’unità di supporto logistico a propulsione
nucleare) che la Marina militare aveva deciso di costruire
sin dal dicembre del 1966? Quando il reattore della
nave divenne critico e l’Italia cercò
di comprare le due tonnellate di uranio arricchito
necessarie al suo funzionamento, gli Stati Uniti sostennero
che il progetto aveva caratteristiche militari e negarono
il loro appoggio. A qualcuno parve che il no americano
e, di lì a qualche anno, il primo esperimento
nucleare indiano (maggio 1974) avrebbero dovuto indurre
l’Italia a diffidare del trattato con cui le
maggiori potenze volevano ingabbiare i paesi “minori”.
Fra gli altri meriti il libro di Cacace ha quello
di rendere onore a due diplomatici, Roberto Ducci
e Roberto Gaja, che in quei mesi cercarono di provocare
nel governo italiano un ultimo ripensamento. Gaja,
in particolare, scrivendo su “La Stampa”
con uno pseudonimo (Roberto Guidi), spiegò
che gli esperimenti nucleari indiani avrebbero convinto
altri paesi del Terzo Mondo a cercare l’indipendenza
energetica: una ragione di più secondo l’autore
perché l’Europa acquistasse un profilo
nucleare. Mentre gli uomini politici smentivano le
ambizioni nucleari dell’Italia, un gruppo di
142 scienziati, fra cui Edoardo Amaldi, esortò
il governo a promuovere la ratifica del trattato di
Non Proliferazione. L’approvazione del Parlamento
venne nell’aprile del 1975. Alla Camera, in
quella occasione il ministro degli Esteri, Mariano
Rumor, ripeté che l’Italia, se la Comunità
Europea avesse fatto una scelta nucleare, si sarebbe
considerata libera di partecipare alla formazione
di un deterrente europeo. Ma questa affermazione di
principio era priva di qualsiasi efficacia. Privandosi
del diritto di costruire armi nucleari l’Italia
non avrebbe mai potuto gettare sul piatto della bilancia,
per convincere Francia e Gran Bretagna, il contributo
della propria forza e della propria competenza.
Molto di ciò che accadde negli anni successivi,
dai laboriosi programmi energetici adottati dopo gli
shock petroliferi al fatale referendum del novembre
1987 con cui i programmi del “nucleare civile”
vennero resi impossibili, è il risultato delle
due grandi rinunce degli anni Cinquanta e Settanta.
Dopo essere stato uno dei paesi più avanzati
e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari,
l’Italia aveva progressivamente smantellato
le sue migliori istituzioni ed era uscita da uno dei
settori decisivi e più promettenti della scienza
moderna. Il danno è stato irreparabile. Il
paese ha perduto prestigio e potere negoziale, è
diventato, per le sue necessità energetiche,
pericolosamente vulnerabile, non è più
in grado di tenere il passo con la scienza e la tecnologia
dei paesi più dinamici. Non basta. Gli argomenti
che hanno giustificato queste scelte sono clamorosamente
contraddetti dalla realtà. Il paese che ha
rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ospita
basi nucleari straniere. Il paese che ha rinunciato
al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente
è stato esposto alle radiazioni di Cernobyl
e importa energia elettrica prodotta da impianti nucleari
a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere.
La responsabilità, in ultima analisi, è
di un sistema politico fragile, oscillante, più
attento agli umori della pubblica opinione che agli
interessi fondamentali del paese. È questa,
credo, la ragione per cui la storia raccontata da
Cacace è poco nota. Gli italiani, evidentemente,
preferiscono dimenticare i loro errori.
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