Indiscusso
protagonista dell’estate londinese è
Edward Hopper, celebrato alla Tate
Modern in una retrospettiva che (fino al 5 settembre)
copre l’intero arco della sua carriera, dai
soggetti parigini dei primi anni del ventesimo secolo,
ai ritratti dell’America sessanta anni piu’
tardi. Piu’ di ogni altro artista, Hopper ha
influenzato la nostra visione dell’America -
si pensi solo alle infinite imitazioni che sono state
fatte di quello che e’ considerato il suo capolavoro,
Nighthawks - e per anni quasi tutti i suoi
estimatori hanno visto nelle sue opere cariche di
solitudine e alienazione, il carattere di una nazione.
Oggi una nuova linea interpretativa tende a vedere
nella sua rappresentazione del “diverso”
qualcosa di non confinato oltreoceano: anche se i
suoi dipinti catturano quella che l’artista
chiamò la “soffocante e pacchiana vita
delle cittadine americane e la triste desolazione
dei paesaggi suburbani”, spesso trascendono
la realtà, invitando lo spettatore a riferirsi
a concetti più universali.
Hopper
riteneva che l’obiettivo di un artista fosse
catturare l’essenza della vita quotidiana e
riprodurre la vita interiore delle persone ordinarie:
la sua sfida era riuscire a trasportare sulla tela
l’autenticità della visione. Questa sua
ambizione era riassunta dalle parole di Goethe che
egli portava sempre con sé nel suo portafogli:
“Riprodurre il mondo fuori da me, coi mezzi
del mondo che è dentro di me”. Per vent’anni
fu costretto a guadagnare lavorando come illustratore
per riviste, libri e pubblicità ma, amante
dell’arte del non detto, odiava dover disegnare
qualcosa che fosse completamente intelligibile. L’inizio
della sua fortuna come artista coincise con il suo
matrimonio, fortunato anch’esso, con la donna
che fu la sua unica modella e che tenne un diario
per tutta la vita, preziosa fonte d’informazioni
sui lavori del marito.
Nel 1906, a ventiquattro anni, Hopper andò
a Parigi per la prima volta; nonostante al tempo vi
fossero Gertrude Stein, Picasso, Renoir e Cezanne,
non incontrò nessuno di loro e non prese parte
a la vie bohème. Ma l’influenza
degli artisti europei è abbastanza chiara soprattutto
nei suoi nudi: come Degas, egli considerava il nudo
non un ideale estetico di purezza, ma una rappresentazione
fisica dell’intensità psicologica. Nella
donna svestita illuminata in pieno dalla luce in
A woman in the sun, riecheggia la tensione muscolare
estremamente espressiva propria dei nudi di Degas.
Da Degas e da Manet, inoltre, Hopper derivò
l’idea di immagine che richieda a chi guarda
un’interpretazione e che si presti a più
letture.
L’etichetta
di realista, che un critico gli cucì addosso
dopo una delle sue prime esposizioni nel 1926, gli
rimase attaccata tutta la vita, anche in tempi in
cui il realismo non nutriva grande stima, considerato
un genere per le masse. Ma può Hopper essere
considerato un realista in senso stretto? Il suo occhio
cancella i dettagli, la sua pittura procede per sottrazione.
Acuto osservatore della vita di tutti i giorni, Hopper
ha dipinto opere che sono al centro dell’opposizione
tra l’immanente e il trascendente, tra i pensieri
e la realtà, la luce e l’ombra, l’interno
e l’esterno. Lo stesso artista sottolineò
la sua difficoltà a far convivere interno ed
esterno in una sola cornice. Nonostante questo ha
continuato a dipingere interni visti da una finestra,
caratteristica fondamentale dei suoi dipinti. La finestra
lascia entrare la luce, definisce le zone d’ombra;
come una frontiera, lascia vedere il mondo che c’è
dietro e allo stesso tempo permette al mondo di entrare
e allo spettatore di essere complice nello sguardo
rubato. Ma il suo significato va oltre il mero voyeurismo,
se si pensa al valore simbolico che acquista quando
fa da tramite tra il mondo reale e quello metafisico.
Possiamo
vedere dentro le stanze, ma non possiamo vedere cosa
i loro abitanti vedono dalle finestre. Le figure di
Hopper leggono, aspettano, guardano, sentono il sole
sulla pelle. Come le figure di Manet, spesso appaiono
consumate dalla loro interiorità, dal loro
stesso essere. Hopper stesso non era estraneo allo
stato che descriveva - ancora non si è chiarito
se soffrisse di depressione oppure no - ma nei suoi
dipinti non c’è niente che riconduca
alla sua presenza, niente che guidi la nostra attenzione.
E come i personaggi dei quadri, anche lo spettatore
si perde nell’oggetto della sua contemplazione.
I
dipinti di Hopper non rappresentano eventi reali,
ma un mondo immaginato dall’autore su cui egli
ha il totale controllo, concepito e ordinato da lui
per creare l’illusione di realtà. Il
suo desiderio era di raggiungere un alto grado di
verosimiglianza, offrendo la minor quantità
di informazioni. Come scrisse Degas: “Si riproduce
solo quello che è necessario”. Hopper,
che studiò a lungo l’artista francese
in uno dei suoi viaggi a Parigi, offre semplicemente
un momento congelato nel tempo e lascia che lo spettatore
crei la sua propria narrazione: in Office at night,
un uomo e una donna sembrano evitare i loro sguardi:
che cosa e’ successo? E che cosa succederà
dopo? Le situazioni di tutti i giorni diventano nelle
mani di Hopper qualcosa di nuovo e misterioso. In
Automat sembra che nulla accada: una donna siede in
una lavanderia, fissando il vuoto. L’espressione
del volto non è mai significativa nei personaggi
di Hopper, l’atmosfera e l’umore sono
dati dalla luce e dall’ombra, dalla posizione
dei corpi e dai particolari che contribuiscono a creare
un tempo emozionale.
Le scene spesso desolate dei suoi quadri sono state
collegate ai film noir: scuri paesaggi urbani,
femme fatales e la suggestione di una trama
sinistra. Ma la relazione più stretta con il
cinema è da rintracciare in House by the
Railroad, da cui Hitchcock trasse l’ispirazione
per la casa tenebrosa di Psycho. Nonostante fosse
un abituale consumatore di film, l’ossessione
principale di Hopper non fu il cinema bensì
l’architettura: i suoi edifici, urbani o immersi
nella campagna, spingono lo spettatore a speculare
sull’assenza - o la presenza - di possibili
abitanti. Il regista tedesco Wim Wenders, grande estimatore
di Hopper, ritiene che la sua grandezza risieda proprio
in questa possibilità che concede allo spettatore,
di interpretare il presente e il passato, di riorganizzare
il tempo e lo spazio, creare una propria sceneggiatura.
In Excursion into Philosophy del 1959, un
uomo fissa il pavimento seduto sul letto, accanto
ad una donna poco vestita rivolta verso il muro. Sul
letto è poggiato un libro, il nome del quadro
ci dice che si tratta di Platone, ma l’uomo
sembra completamente estraniato e non a causa del
libro. Hopper disse commentando il quadro: “Ha
letto Platone piuttosto in ritardo nella vita”.
Come a dire che, per certe cose, la filosofia non
offre consolazione.
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