259 - speciale agosto 2004


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La paura di essere vulnerabili
Elisabetta Ambrosi

Judith Butler
Vite precarie,
Meltemi Editore, pagg. 192, euro 15,00

Quasi tre anni sono passati da quel grande spartiacque storico ed emotivo che ha cambiato il nostro modo di rapportarci alla vita e alla politica. In questi tre anni, migliaia di libri sono stati scritti su quel giorno, sulle sue ragioni, sul terrorismo, sulla politica di Al Qaeda e su quella dell’amministrazione statunitense. Volumi cui spesso è facile assegnare, senza troppi sforzi, un’etichetta, pro o contro Bush, e che hanno inondato gli scaffali delle libreria rendendo difficile distinguere le analisi più originali e profonde. Tra queste ultime, è senz’altro da ricordare un recente volume che ha avuto decisamente meno risalto di quanto non solo e non tanto la fama dell’autrice – Judith Butler, controversa filosofa femminista – quanto l’acutezza delle tesi in esso avanzate avrebbero meritato (forse la non felice traduzione italiana del sottotitolo e della foto copertina, troppo facilmente annoverabile tra il repertorio della peggiore retorica antibushiana, non hanno aiutato): Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo (Precarious Life. The powers of mourning and violence), edito da Meltemi.

Le tesi della Butler non sono affatto “terziste”, proprio perché non c’è affatto bisogno di essere tali per evitare i passi falsi dell’appartenenza ideologica preconcetta e della scarsità di argomentazioni non scontate. Le critiche che la filosofa americana avanza all’amministrazione Bush sono pesantissime, ma scaturiscono da una originale analisi fenomenologica e linguistica – portata avanti in cinque densi saggi – dei temi della violenza, della guerra, del terrorismo, dello stato di diritto nell’era del post-11/9. Non solo la condanna delle scelte politiche è netta, ma addirittura l’autrice si scaglia contro le tesi riduttiviste di chi sostiene che gli Stati Uniti hanno raccolto ciò che hanno seminato: si tratta di un ragionamento che capovolge il senso comune, perché condanna la vittima, cioè coloro che hanno subito la violenza. Allo stesso modo, è inaccettabile dipingere gli attentatori come fantocci o meri ingranaggi, perché si tratta sempre e in ogni caso di soggetti responsabili. Tuttavia, seppure condannare la violenza e chiedersi da dove viene sono istanze separate, esse debbono essere prese in considerazione insieme, perché esiste una relazione stretta tra azioni e condizioni in cui l’azione si volge, esiste una storia, relazioni causali che vanno indagate e discusse.

Ciò che sgomenta di più, tuttavia è la condanna che viene prontamente emessa su coloro che dissentono dalla dottrina ufficiale: «Accusare coloro che esprimono opinioni critiche di tradimento, solidarietà con i terroristi, antisemitismo, relativismo morale, post-modernismo, collaborazione, anacronistico “sinistrismo” significa tentare di distruggere non la credibilità di quelle stesse opinioni, ma degli individui che le sostengono. Ciò che ne consegue è un clima di paura, in cui chi esprime una determinata opinione viene “marchiato” e infangato con un appellativo infamante» (pag. 18).

Il “monopolio” della morte

Accuse di questo tipo tuttavia impediscono di mettere a fuoco, e conseguentemente di risolvere, il problema che coloro che le pronunciano sembrano avere più a cuore. Come mettere fine al terrorismo e interrompere la spirale della violenza? A questo interrogativo però si può rispondere solo operando una analisi, fenomenologica prima e politica poi, del tema della vulnerabilità e del modo in cui tale aspetto è vissuto e affrontato. Il tratto di maggiore originalità del libro risiede nel fatto che la Butler si concentra soprattutto sulle modalità con cui questi temi hanno fatto irruzione e sono stati “gestiti” all’interno del delicato ambito della sfera pubblica, così come sulle conseguenze che determinate modalità di veicolare fatti e loro interpretazioni hanno avuto sul nostro modo di concepire la realtà, ciò che è, letteralmente. «La sfera pubblica è costituita in parte da ciò che può apparire, e la regolamentazione della sfera del visibile è un modo per stabilire ciò che è reale e ciò che non lo è» (pag. 19). Un ambito cruciale e delicato, dove il modo in cui gli eventi vengono fatti risuonare rischia di produrre una vera e propria “distorsione ontologica”, la cui gravità non è stata pienamente compresa.

Duecentomila bambini uccisi durante la guerra del Golfo. Abbiamo forse una sola immagine, un fotogramma che ricordi una qualunque di queste vite, singolarmente o di gruppo? Quei bambini avevano dei nomi?» (pag. 55). Non si tratta di un interrogativo retorico. La Butler analizza moltissimi casi, che purtroppo non è possibile riportare, in cui si verificano quelle che definisce “distribuzioni politiche del lutto” asimmetriche. Il divieto di pubblico cordoglio costituisce la sfera pubblica a partire da quel divieto. Così, i morti arabi non hanno né un volto né un nome, la loro vita e l’angoscia delle persone che hanno visto morire i propri cari vengono rimosse in una sorta di derealizzazione collettiva funzionale all’obiettivo militare, e che produce un «razzismo amorfo, indefinito, razionalizzato dall’appello all’autodifesa».

Questo meccanismo viene analizzato in maniera sottile e articolata, e utilizzato per fornire una chiave di lettura originale di molti eventi, tra cui, in primo luogo, il caso dei detenuti di Guantanamo (analizzato in un saggio suggestivo, Detenzione finita, in cui la Butler, richiamando la nozione di “governamentalità” di Focault, opera una interessante analisi del tema della sovranità nella postmodernità) e quello delle presunte accuse di “antisemitismo progressista” che cadono su chi dissente dalle scelte politiche di Israele: accusa infamanti e insensate che l’autrice smonta nel penultimo saggio, L’accusa di antisemitismo, ad esse interamente dedicate.

Vulnerabilità e violenza

Il punto centrale, tuttavia, è che il meccanismo che interdice il lutto delle “altre” morti e accusa di debolezza coloro che tentano di denunciarlo non risolve in nessun modo la paura di chi lo mette in atto nel tentativo di difendersi. Alla fine del testo, in una riflessione di carattere più strettamente etico, la Butler rilegge la proposta etica del filosofo francese Levinas in chiave politica, alla luce di quanto detto e di quanto avvenuto negli Stati Uniti dopo gli attacchi alle Torri gemelle. Il “volto” dell’altro, che in Levinas costituisce una vera e propria “categoria” etica, genera infatti sempre un profondo conflitto, tra l’imperativo che esso porta con sé e che evita di uccidere, e la paura dell’altro, generata dall’angoscia della propria vulnerabilità, paura che è sempre a rischio di generare aggressione. Il volto ha anche una dimensione politica, non solo perché esso si lega intrinsecamente al discorso, ma anche perché il modo in cui esso viene rappresentato (o cancellato, rimosso) è funzionale alla sua umanizzazione o alla sua disumanizzazione.

La paura della morte non si risolve con l’uccisione dell’altro, a meno che non si continui ad uccidere sempre, senza interruzioni. Infatti, noi siamo esseri strutturalmente dipendenti, e questa dipendenza è impossibile da controllare e soggiogare. Essa tuttavia non è unicamente un’esperienza da temere: il suo riconoscimento permette secondo la Butler di dare finalmente voce all’aspirazione a vivere in un mondo nel quale la vulnerabilità fisica sia protetta senza tuttavia essere annientata. Proprio la sofferenza, la sua accettazione può condurre a intravedere una nuova etica comune, quello che la Butler chiama un «nuovo umanesimo». Infatti: «da dove, se non dalla preoccupazione per la comune vulnerabilità umana, potrebbe emergere un principio in base al quale ci impegniamo a proteggere gli altri dalle stesse sofferenze che noi abbiamo patito?».

Il dolore non solo dà vita a un senso complesso di comunità politica, ma è in grado di «evidenziare quei legami e quelle relazioni necessari a teorizzare ogni forma di dipendenza fondamentale e di responsabilità etica» (pag. 42). Prestare ascolto alla vulnerabilità, esserne prossimi senza temerla o senza reagire, e «stabilire modalità di visibilità e udibilità pubbliche in grado di rispondere al grido dell’umano nella sfera dell’apparenza» (pag. 176): questa è la sola stretta via che può condurre a far cessare la violenza, come tutti auspicano, e generare soluzioni politiche, e non militari ai gravi problemi conflitti che ci affliggono. «La sofferenza può condurre ad un’esperienza di umiltà, vulnerabilità, di sensibilità e dipendenza, tutte possibili risorse che, se non vengono risolte troppo in fretta, possono spingerci al di là contro la vocazione della vittima paranoica che rinnova all’infinito le giustificazioni della guerra».

Ecco perché, in conclusione, «certi volti devono essere mostrati pubblicamente, devono essere visti e uditi affinché si acquisti un senso più profondo del valore delle vite, di tutte le vite. Dunque, non è che il lutto sia l’obiettivo della politica, ma senza la capacità di elaborarlo si perde quel più profondo senso della vita di cui abbiamo bisogno per opporsi alla violenza. E che anche se per qualcuno il lutto può risolversi solo con la violenza, è chiaro che quest’ultima si porta dietro altre perdite e che l’incapacità di tenere conto della rivendicazione della precarietà della vita porta solo, e continuamente, alla sterile sofferenza di un’ira politica senza fine» (pag. 17).

 

 

 

 

 

 

 

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