Valentina Akava Mmaka
Io… Donna… Immigrata… Volere
Dire Scrivere,
EMI, pagg. 64, euro 5
Drasla,
Alina, Farida. Tre donne, tre immigrate, tre modi
diversi di essere e di vivere la propria condizione
spaesata di straniere. Tre identità distinte,
ma tutte distanti dalla casa d’origine e alla
ricerca di una definizione del sé attraverso
strumenti diversi: il volere, il dire e lo scrivere.
Infine, tre rappresentazioni diverse dell’essere
donna, nomade e migrante che mostrano fasi diverse
della storia delle migrazioni e indicano una prospettiva:
Alina il passato, Drasla il presente, Farida il futuro.
I tre brevi monologhi della scrittrice italo-sudafricana
Valentina Acava Mmka, contenuti nel libretto Io…
Donna… Immigrata… Volere Dire Scrivere,
pubblicato dalla Emi sono leggibili a diversi
livelli. La questione dell’identità incerta
dello straniero, innanzitutto. “Spaesamento,
sradicamento, paura, nostalgia, costituiscono il bagaglio
principale di un immigrato che – scrive l’autrice
nella postfazione – si trova catapultato in
una dimensione spaziale che non è la sua”.
La perdita delle relazioni con la propria origine,
e quindi con la propria identità originaria,
affievolisce nel migrante la consapevolezza e la memoria
di sé e lo rende incapace di trovare il proprio
posto nel mondo. Nelle tre pieces, infatti,
diventa determinante il legame che le tre donne riescono
a mantenere con la terra madre e con la propria memoria,
ché solo riconoscendosi, riconoscendo i propri
desideri, è possibile vivere la dimensione
positiva della condizione di errante, di chi ha la
fortuna di scoprire nel diverso un’opportunità
di scambio e di crescita.
L’atmosfera intimista di dialogo tra sé
e sé caratteristica della forma monologo, è
accentuata dall’autrice attraverso un’ambientazione
scarna ed essenziale che mette in risalto la parola
delle tre donne. Parola che solo Farida, però,
riuscirà a far uscire da quell’“armadio”
interiore dove era stata relegata, di cui sola riuscirà
ad appropriarsi per farla diventare, attraverso la
scrittura, il proprio strumento di affermazione nel
mondo, il proprio strumento di divenire, appunto,
donna, cosciente. “Oggi le mie storie –
dice Farida alla fine del suo monologo e del libro
– quelle che passavano di notte sui muri della
mia stanza, non sono più nascoste, sono per
tutti, sono di tutti, perché quella segretezza
che allora io mi sforzavo di custodire, oggi so, era
la causa dell’impoverimento della mia e di altre
esistenze di donna”.
Sia Drasla, prostituta suo malgrado, ingannata da
venditori di sogni di ricchezza, che Alina, badante
che non riesce a farsi riconoscere pari dignità
dalla signora di cui si occupa, vivono la loro condizione
come momentanea, un passaggio verso il ritorno a casa.
Drasla ha scoperto che i sogni occidentali di arricchimento
in realtà non le appartengono e ora vuole
solo realizzare il proprio desiderio, l’unico
che le restituisce un’identità, quello
di tornare a costruire la propria vita insieme al
compagno. Alina, invece, ha lasciato le Filippine
solo per guadagnare il necessario per “i mattoni
e la tinta” per costruire, per sé e i
propri cari, una casa nel proprio Paese. Alina attende,
è paziente, e intanto ha imparato a dire ciò
che i suoi padroni vogliono che lei dica; è
convinta che solo quando avrà una propria abitazione
potrà dire le sue parole con
la stessa dignità di quella degli altri.
Se il volere e il dire
sono ancora solo frammenti di un’identità,
è nello scrivere che Farida
trova la sintesi ed è lei a rappresentare il
futuro. “Drasla incarna il dramma presente della
donna ingannata dai mercanti di sogni; Alina appartiene
ad una generazione che non sa vedersi lontana dalla
propria terra madre; Farida vive proiettata nel futuro
ed esprime la volontà e la possibilità
di una conciliazione tra il presente e il passato,
ritrovando in essi le risposte per un futuro di mediazione
tra diverse identità, quella originaria e quella
acquisita”.
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