Questo articolo è tratto
dal numero 84 (luglio-agosto 2004) di Reset, in questi
giorni in edicola.

Che
una certa destra sia finita a votare a sinistra è
una delle anomalie dell'Italia degli ultimi dieci anni.
Ma perché la destra di governo non rivendica
l'esperienza di Indro Montanelli, uno dei più
importanti simboli dell'anticomunismo e del conservatorismo
italiano del dopoguerra? Lo abbiamo chiesto a Marco
Travaglio, che al suo maestro di giornalismo ha dedicato
l'ultimo libro, Montanelli e il Cavaliere. Storia di
un grande e di un piccolo uomo (Garzanti, 2004, euro
14,50).
Quella tra Montanelli e Berlusconi, lei ha scritto,
è stata la storia di "un divorzio senza
matrimonio". Che vuol dire?
Che Montanelli non ha mai "sposato" Berlusconi.
C'è stato un matrimonio di interessi reciproci:
il primo aveva bisogno di un editore solido e il secondo
di un fiore all'occhiello, di un biglietto da visita
per il salotto buono, perché in quel momento
era un palazzinaro poco addentro alla Milano che conta.
Ma si è capito subito che il Cavaliere era
in difficoltà non appena ha manifestato, volente
o nolente, interessi politici. Nell'83, Craxi era
Presidente del Consiglio, e nelle telefonate che sono
state intercettate si lamentava con Berlusconi, perché
il suo giornale lo attaccava. Craxi gli diceva: "questo
Montanelli è una 'merdolina', mi fa la guerra,
c'è solo l'Unità che è peggio".
Berlusconi, che era in difficoltà perché
aveva fatto un patto di non interferenza, ha tentato
di bypassare Montanelli chiamando il condirettore,
utilizzando la redazione romana per cercare di neutralizzare
o attutire i pezzi fortemente anticraxiani del direttore.
Le sue interferenze politiche sono state stoppate
finché è stato possibile, finché
non ha preteso che il suo giornale diventasse un giornale
di partito. In realtà non c'è mai stato
un matrimonio vero, perché i due sono troppo
diversi.
Il periodo abbastanza lungo che va dalla fondazione
del "Giornale" nel '74 fino a buona parte
degli anni '80 non fu conflittuale. Berlusconi e Confalonieri
parlavano di Montanelli con il rispetto che si deve
al monumento di un vecchio tipo di giornalismo, che
a loro non piaceva più tanto. La cosa che incuriosisce
è che uno come lei, che arriva nell'87 al "Giornale",
trova un vecchio quotidiano, dalla logica un po' ammuffita
anche nella grafica. Ma lei lì era a suo agio?
Ero
un ragazzino di 23 anni, innamorato degli articoli
di Montanelli. Decisi che dovevo fare il giornalista
quando cominciai a leggerli, più o meno a 12-13
anni. Ero affascinato dal suo modo di scrivere più
che dalle sue idee, che in quel momento non ero neanche
in grado di capire. Io d'altronde sono sempre stato
abbastanza conservatore, finché c'erano i comunisti
ero anticomunista. Quindi mi trovavo a mio agio. È
ovvio che i berluscones, abituati alle televisioni
culi-e-tette, ai giornali- panino-di pubblicità,
ai sorrisi-e-canzoni, soffrissero quel tipo di quotidiano
che non attirava pubblicità, era antipatizzante,
non piacione come tutto il resto dei loro prodotti
editoriali. Pensavano di infilarci dentro promozioni
e oggettistica varia. Montanelli, invece, si opponeva
fieramente, e nel farlo ci si divertiva anche.
Come mai un vero conservatore come Montanelli,
il giornalista campione dell'anticomunismo, di una
visione atlantica del mondo, della cultura della conventio
ad excludendum contro i comunisti, non è stato
e non viene oggi rivendicato dalla destra?
Perché Montanelli era tutte le cose che avete
detto, ma da posizioni liberaldemocratiche. Dal '37
è antifascista, riceve la condanna a morte.
Non frequenta i circoli golpisti e reazionari degli
anni '60 e '70. Non lo trovi nella P2, sebbene ci
sia il suo editore. Non frequenta il famoso convegno
del 1965 dell'Istituto Pollio, dove quasi si stabiliscono
le strategie della tensione. Appoggia la 'maggioranza
silenziosa' di Massimo De Carolis, e poi lancia l'idea
dei cento nomi (tra cui ci sono anche Scalfaro, Mario
Segni e Bartolo Ciccardini): fa un po' da levatrice
di una parte non catto-progressista della Dc, contraria
al compromesso storico.
Montanelli è molto meno a destra dei suoi
lettori. Certo, nell'ambito della sua collocazione
nella guerra fredda, a volte prende anche lui delle
cantonate, come con De Carolis, o sulla mafia. O anche
sul Vajont. A me però quello che ha affascinato
è che quando finisce la guerra fredda e nel
1989 cade il nemico, Montanelli smette completamente
l'anticomunismo. Oggi tutti i montanelliani rimasti
ne "Il Giornale", o comunque in quell'area,
dicono ancora le stesse cose che dicevano trent'anni
fa, come se il muro non fosse caduto. Lui invece a
ottant'anni puliti dice "non sparo sui morti",
"quando i comunisti erano vivi non c'era nessuno
qua intorno, adesso arrivano gli anticomunisti senza
comunismo".
È impressionante la sua freschezza mentale
nell'abbandonare completamente quei panni e nell'occuparsi
di cose attuali, come i nuovi pericoli che arrivavano
per la democrazia italiana e che erano dovuti proprio
all'affarismo berlusconiano e all'azienda che si faceva
Stato. È per questo che la destra di oggi non
lo rivendica.
Montanelli era un conservatore.
Sì, certamente. Si ricollegava al Risorgimento,
ai liberali, a De Gasperi, ma dirà di non esser
mai stato un reazionario, uno che apprezzava che si
sparasse sulla folla, uno contrario alle riforme sociali.
Il suo ideale è Giolitti, non Salandra, sebbene
avesse molti salandrini a "Il Giornale"
e moltissimi tra i lettori. Ecco perché dico
che è sempre stato più a sinistra dei
suoi lettori: quando è andato a "La Voce"
tutti quelli che erano alla sua destra non l'hanno
seguito, ed erano la maggioranza.
Staglieno, nel suo volume Montanelli, novant'anni
controcorrente (Mondadori), ha riconosciuto però
che il "Corriere della Sera" che faceva
Spadolini (e con il quale Montanelli si trovava bene)
era terribilmente conservatore, distante in maniera
astrale dai giovani. Quando arriva Ottone è
una liberazione, inizia una storia diversa, perché
da lì nascerà "la Repubblica"
e per "Il Giornale" stesso ci sarà
un processo evolutivo, liberatorio per l'opinione
pubblica italiana. Questo lo pensa anche lei?
Sì, quel "Corriere" era un giornale
insopportabile, però Montanelli non ha mai
scritto un editoriale politico prima della nascita
de "Il Giornale". Il problema non era che
non poteva attaccare i comunisti sul "Corriere"
da quando c'era Ottone, ma che quel "Corriere"
stava diventando un'altra cosa, in cui i vari Montanelli
e Bettiza non erano più centrali (poi anche
lì pesò molto il fattore umano e caratteriale,
perché Ottone era il simbolo della borghesia
chic che lui detestava). Di fatto Spadolini non gli
piaceva tanto per il giornale che faceva, quanto perché
gli lasciava fare tutto quello che voleva: lì
era la firma numero uno, il grande inviato, e poteva
fare campagne come quella contro Gronchi o contro
le malversazioni.
Montanelli non era il trombone del giornale trombonesco,
anzi era l'aspetto imprevedibile e la parte più
brillante del giornale trombonesco. Poi avvertì
che stava cambiando qualcosa nei suoi confronti, che
veniva considerato il "fascista" (in quel
momento il liberalconservatore e il fascista erano
la stessa cosa). E c'è l'aspetto sgradevole
di Ottone, che va a dirgli "non c'è più
spazio per te nel Corriere". Quello era il periodo
in cui sul resto della stampa italiana Calabresi era
un "fascista" e "il commissario finestra",
in cui i grandi intellettuali (anche persone stimabilissime)
si fanno prendere dall'ubriacatura e firmano quegli
infami appelli contro Calabresi "torturatore".
Sulle Br solo Montanelli e Pansa, tra i grandi giornalisti,
dicevano "guardate che sono Br davvero, non sono
tutti fascisti travestiti". Ancora una volta
contava molto il suo spirito di "Bastian contrario":
Montanelli diceva di non capire niente di politica,
ma detestava il correre verso il carro di quelli che
sembravano essere i vincitori (che poi per la verità
non hanno mai vinto). Mentre negli altri che lasciavano
il "Corriere" c'era molta ideologia, Montanelli
ha sempre portato avanti la sua etica e la sua estetica
personale, molto più che la politica.
Gian Antonio Stella, sul "Corriere della
Sera", ha parlato molto bene del suo libro. Però
non si trova affatto d'accordo con lei, quando scrive
che, se fosse vivo, oggi Montanelli non scriverebbe
su questo "Corriere terzista". Che cosa
replica?
Resto della mia idea. È ovvio che Montanelli,
essendo tornato al "Corriere" nel '95, oggi
ci scriverebbe. Il problema è diverso. Se "La
Voce" chiudesse oggi, il "Corriere"
si riprenderebbe Montanelli? E gli darebbe lo spazio
che gli diede nel '95? Oggi non si legge più
quello che si scriveva sul "Corriere" nel
'95, la durezza estrema con cui Montanelli combatteva
Berlusconi anche durante l'ultima campagna elettorale,
tutti i giorni sulla pagina delle lettere, prendendo
a sberle lui e i lettori berlusconiani. Montanelli
parlava di "regime" non nel 2001, ma nel
'94.
Anche su un giornale libero come il "Corriere"
si fanno delle critiche, ma senza usare toni così
forti. C'è una tendenza a edulcorare, al terzismo,
che esce dal "Corriere" e che arriva anche
in molta stampa vicina al centrosinistra. La nostra
categoria non si è distinta in battaglie in
difesa di Biagi e di tutti gli altri. Io sono convinto
che Montanelli avrebbe oggi dei problemi ad avere
lo spazio che aveva soltanto due anni fa, e non perché
penso che il "Corriere" sia il giornale
"di Berlusconi", ma perché è
passata questa linea che non sei riformista se dici
certe cose, che sei massimalista, demonizzatore, ossessionato.
Un montanelliano in Italia è destinato
a votare a sinistra finché c'è Berlusconi,
o magari anche dopo?
Finché c'è Berlusconi è sicuro.
Dopo bisognerà vedere che cosa c'è,
perché credo che Montanelli avesse ragione
quando diceva: "Io ce l'ho con questi qua molto
più di quanto ce l'abbia uno di sinistra, perché
in Italia dopo il passaggio di Berlusconi in politica
per cinquant'anni bisognerà lavarsi la bocca
ogni volta che si parla di destra".
E con due destre importanti dell'Occidente di
oggi, come quella francese di Chirac e Sarkozy e quella
americana di Bush, come si troverebbe?
Credo che gli piacerebbe molto la destra di De Villepin,
una destra elegante, colta, non ideologica, ma in
qualche modo etica. Nel libro troverete le cose durissime
che Montanelli ha detto a proposito dei primi passi
di Bush junior alla Presidenza americana: lui che
ha sempre sostenuto i Repubblicani disse che se avesse
potuto avrebbe votato Al Gore. C'è una liberazione
totale dopo il crollo del muro di Berlino, c'è
il crollo di tutti i vecchi punti di riferimento,
per cui Montanelli diventa non di sinistra, ma imprevedibile.
Anche in persone che stanno dall'altra parte vede
incarnare i suoi ideali di politica moderata, senza
fughe in avanti, riformatrice. Da quella destra lì
è veramente l'unico che ha il coraggio di staccarsi
subito. Poi arriveranno i Sartori, i Dini, ma all'inizio
è veramente lui e basta, tanto che viene molto
comodo dire che è "rincoglionito",
che ha ceduto alla sindrome di Stoccolma o che è
diventato comunista.
E la sua posizione nella guerra fredda?
Negli anni Settanta incontra in segreto Enrico Berlinguer,
perché secondo la sua etica gli sembra una
persona da conoscere. Anche il suo rapporto con Fortebraccio
è un indizio del fatto che Montanelli stava
sì in uno dei due schieramenti, ma ci stava
già a modo suo, anche se spesso non traspariva
dal giornale che faceva, che a volte sembrava scritto
per colonnelli in pensione. Ma Montanelli ha svolto
anche un compito, ha tenuto ferma una destra che avrebbe
potuto dilagare in tutti quei movimenti golpistici
che serpeggiavano negli anni Settanta. Per esempio
non ha mai votato Msi, mai ha avuto alcun tipo di
rapporto con Almirante, mentre molti dei suoi lettori
erano proprio fascisti.
Quando va in Ungheria e fa quei bellissimi reportage
rompe il suo rapporto con Longanesi, perché
non racconta la storia che vogliono sentirsi raccontare
gli anticomunisti italiani, cioè che si trattava
di una rivolta liberaldemocratica contro il comunismo.
Spiega che la rivolta d'Ungheria è tutta interna,
che gli ungheresi non vogliono gli americani, ma un
comunismo diverso. Tutto questo dimostra il suo modo
personalizzato, originale, di stare nella guerra fredda.
Montanelli era un uomo dall'orgoglio fortissimo,
al punto che forse si può dire sia stato più
spesso ispirato dal temperamento che dal ragionamento
freddo. Era uno che la giurava, come altri la giuravano
a lui.
Montanelli non è mai stato mosso da rancore,
piuttosto da orgoglio, da puntiglio personale. Nelle
sue battaglie si sente tutto l'aspetto umano e antropologico,
che secondo me per lui conta molto più che
non l'aspetto politico: c'è anche il lato estetico,
il lato caratteriale del Bastian contrario che vede
tutti andare a sinistra e quindi rimane orgogliosamente
a destra. Ma non era rancoroso, era orgoglioso.
Una somiglianza da maestro ad allievo: si può
parlare di Montanelli come di un suo maestro?
Sì, certamente. Lui mi diceva "datti
una calmata". Ma aggiungeva "perché
sennò quelli ti segano le gambe", non
perché non fosse giusto. Io non so se il mio
essere sia più mosso da orgoglio o da spirito
"rompicoglioni". Da questo punto di vista
lui era più "sereno". Non ha fatto
"La Voce" per rancori personali, ma perché
credeva giusto fare un nuovo giornale, così
come pensava fosse giusto fare il vero "Corriere",
e così come nel '94 riteneva giusto fare il
vero "Giornale", cioè evitare che
si potesse dire che la destra era Berlusconi, far
vedere che ci può essere anche una destra liberaldemocratica,
che prende il conflitto d'interessi come punto di
non-ritorno, come cosa massimamente inaccettabile
per una democrazia.
Che non fosse rancoroso lo dimostra inoltre il fatto
che quando Berlusconi crolla la prima volta, Montanelli
smette di sparargli addosso. Poi, quando nel 2000,
dai primi sondaggi si capisce che Berlusconi sta ritornando
alla grande, allora ricomincia ad attaccarlo, mai
con rancore, ma perché si rende conto del pericolo
che sta emergendo. È sempre stata una cosa
abbastanza ragionata, ancora una volta partendo dall'aspetto
umano, perché lui conosceva Berlusconi e conosceva
gli italiani, ed era più preoccupato degli
italiani che non di Berlusconi, perché vedeva
che c'era una certa Italia che sembrava fatta apposta
per Berlusconi. Montanelli cita la frase di Mussolini:
"Come si fa a non diventare dittatori in un paese
di servi?". Sa che c'è un'Italia pronta
a inginocchiarsi per i tipi da balcone. Gli italiani
da balcone lo preoccupavano molto più di Berlusconi
al balcone.
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