257 - 10.07.04


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Le mille riletture della metafora di Omero
Siegmund Ginzberg

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il Foglio.

L'Iliade che conosciamo inizia con un furibondo litigio nella coalizione greca sul se ritirarsi o meno da Troia. Gli alleati sono stanchi, al nono anno di una guerra che non porta da nessuna parte. Li sta decimando la peste, neanche il nemico in campo aperto. Il loro leader, Agamennone, ha messo in moto, per insipienza, qualcosa che non prevedeva, ha offeso, "trattandolo malamente", un religioso che non era nemmeno suo nemico, non gli aveva scatenato una jihad contro, che anzi gli augurava di vincere la guerra, e che ha chiesto vendetta al suo dio (il cui nome comincia per A).

Convocano l'assemblea. Achille propone di consultare gli indovini, preoccupato che "respinti, credo, ritorneremo indietro, purché sfuggiamo alla morte, se guerra e peste insieme abbattono gli achei" (Libro I, versi 60-61). Calcante, "il migliore dei vati, che conosceva il presente e il futuro e il passato" (I, 70: non è stato quindi George Orwell a scoprire che anche, e forse soprattutto, per il passato ci vogliono gli indovini), inizialmente esita, dice che parlerà solo se giurano di proteggerlo, "con parole e con mano", "perché penso che qualcuno si adirerà", ed è "troppo forte un re, quando si adira con uno da meno" (I, 80). Gli fa un'analisi spassionata di che cosa è andato storto e del come rimediare.

Come previsto, Agamennone se la prende a male: "subito guardando male Calcante gridò: 'Indovino di mali, mai per me il buon augurio tu dici, sempre malanni t'è caro al cuore predire, buona parola mai dici, mai la compisci!'" (I, 105-109). Il suo alleato Achille lo investe, dice che ne ha abbastanza, che a questo punto lui fa fagotto e se ne torna a casa sulle "concave navi", mette in discussione le stesse premesse della guerra: "davvero non pei troiani bellicosi io sono venuto a combattere qui, non contro di me son colpevoli: mai le mie vacche han rapito o i cavalli, mai ... han distrutto il raccolto... ma te, o del tutto sfrontato, seguimmo, perché tu gioissi... per te brutto cane".

Gli rimprovera un'ingiusta spartizione del bottino. Ma anche una guerra che non lo riguarda più, della quale non vede più la necessità. Anche se Achille è l'ultimo che verrebbe da sospettare come "pacifista". Già, perché mai quella coalition of the willing era andata a Troia? Per vendicare l'onore offeso di Menelao, cui Paride ha portato via Elena. O magari no, vai a sapere. Non si arriva alle 36 ragioni diverse addotte per la guerra in Iraq (di cui 27 avanzate in momenti diversi dall'amministrazione Bush) recentemente censite nella tesi di laurea di una studentessa americana 22enne. Ma gli studiosi di quella spedizione e della distruzione di Troia (una delle molte distruzioni, quella che gli archeologi catalogano come Troia VIIA) nel XIII secolo avanti Cristo (1230, non più 1287, è la data che ora va per la maggiore) si sono sbizzarriti.

C'è chi ha sostenuto che il ratto di Elena non figurasse neppure nei cicli originari (avrebbe origine da un‚epica ugaritica). Chi ipotizza che fosse una risposta ad una razzia troiana nel Peloponneso. Chi sostiene che il problema sarebbe stato il controllo delle comunicazioni commerciali nell'Ellesponto. Chi ipotizza che la causa primaria fossero i 10 anni di blocco, razzie, sanzioni, occupazione e guerriglie del territorio circostante, più che di continua guerra guerreggiata.

Sta che il poema che conosciamo come Iliade ruota attorno al fatto che ad un certo punto qualcuno vuole andarsene. Ad Achille, Agamennone risponde sprezzante: "vattene se il cuore ti spinge; io davvero non ti pregerò di restare con me, con me ci son altri... vattene pure a casa con le tue navi, coi tuoi compagni... di te non mi preoccupo" (I,173-180). E tanto per fargli dispetto gli annuncia: "ma mi prendo Briseide guancia graziosa". Si pentirà amaramente di aver suscitato l'"ira funesta" di un alleato che non gli sta simpatico nemmeno un po', ma che gli è indispensabile. Solo verso la fine dell'Iliade riusciranno a porvi in qualche modo rimedio.

Un'altra assemblea si svolge subito dopo, nel Secondo libro, convocata da Agamennone che, ingannato dal "sogno cattivo" inviatogli da Zeus, convinto di avere la vittoria in pugno, vuole mettere alla prova i suoi. Egli dice l'ovvio, che "questa è vergogna, anche per i futuri a saperla, che invano un tale e tanto esercito di achei inconcludente guerra guerreggi e combatta contro pochi nemici, e non si vede la fine" (II, 119-122), che "a noi l'opera è ancora incompiuta per cui venimmo qua". Propone di tornarsene tutti a casa. Forse scommettendo che quelli gli rispondano che non si può scappare. Mal gliene incoglie: "a quelli balzò il cuore in petto... con grida di gioia balzarono verso le navi" (II,142-150). E gli ci vorrà tutta la saggezza di Nestore ("voi parlate come fanciulli balbettanti, che della guerra non hanno pensiero, ma come andranno per noi alleanze e promesse?", II, 339), tutta l'astuzia e l'arte della comunicazione di Odisseo per fargli cambiare idea.

2. Agamennone non era un leader eletto, come funzionassero assemblee e consigli è oggetto di illazione e di disputa tra gli studiosi. Ma in qualche modo anche lui deve già confrontarsi con la pubblica opinione. Nel Libro II è rappresentata da un personaggio eccezionale: Tersite, "che molte parole sapeva in cuore" (II, 213). Il personaggio di Tersite ha dato spunto, di epoca in epoca, a una miriade di interpretazioni. Buffone, mestatore, disfattista, uno che si fa beffe dell'autorità e dei nobili ideali, oppure vox populi, "cittadino" ante litteram, o addirittura campione della "lotta di classe" popolare contro gli aristocratici, una sorta di marinaio Vakulinchuk della Corazzata Potemkin. Omero, che se è esistito, canta fatti successi mezzo millennio prima, lo presenta come "odiosissimo". Lo ridicolizza, ne fa una caricatura: "Era l'uomo più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso e zoppo di un piede, le spalle erano torte, curve e cadenti sul petto; il cranio a pera, e radi i capelli" (II, 216-219). Si presume che non avrebbe figurato granché bene in tv: "diceva ingiurie, vociando stridulo". Anche il riconoscimento sulle "molte parole che sapeva in cuore" viene ritrattato dall'aggiunta "ma a caso, non ordinate, per sparlare dei re".

Ma quel che dice non sono sciocchezze, calunnie campate in aria, è esattamente quello che ci è stato raccontato nel libro precedente, anche se involgarito dall'indulgenza al pettegolezzo, dall'accento esclusivo sulle presunte bramosie sessuali di Agamennone. La "linea" è esattamente quella dell'eroe Achille: "Ah poltroni, brutti vigliacchi... a casa sì, sulle navi torniamo, lasciamo costui qui, a Troia, a digerirsi i suoi onori, che veda se tutti noi lo aiutavamo o no" (II, 235-238). Mal gliene incoglie: Odisseo, il grande, ammirevole, inimitabile bugiardo, che non è tipo da far concessioni alla par condicio, non ricorre nemmeno alla sua superiore furbizia ed oratoria, va per le spicce, risolve il problema pestando Tersite di santa ragione con lo scettro.

É una pagina carica di humour. Gli aedi avevano i loro committenti. Avevano molto spazio per fare satira nei confronti dei potenti, ma probabilmente entro certi limiti. Anche, e anzi soprattutto dopo che s'era persa per strada l'origine divina del potere (secondo gli achei Agamennone, per quanto potesse fare stupidaggini, era una sorta di dio vivente). Si ritiene che le prime edizioni autorizzate dell'Iliade e dell'Odissea, nella forma in cui ci sono state tramandate, siano apparse nel VI secolo sotto il patronato del tiranno di Atene Pisistrato. Difficile gli potessero andare a genio sbandate di democrazia ante litteram. Omero se la cava prendendosi gioco di Tersite. Per moltissimi secoli ancora avrebbe prevalso questa lettura.

Ma l'humour, la satira feroce di Omero non si limita a Tersite. Per tutta l'Iliade si estende a tutti i potenti. Non risparmia Agamennone né alcuno dei grandi eroi. Non risparmia i suoi consiglieri, nemmeno i più saggi, compreso il vecchio Nestore, che non ne imbroccano una (prendono per buoni i sogni falsi, gli dicono sempre di far le cose sbagliate). Non risparmia Priamo, spesso ridicolo, e nemmeno Ettore, il più modernamente umano di tutti, anche quando raccoglie consenso: "Ettore parlò così, i Troiani acclamarono, stolti!...tutti approvarono Ettore che mal consigliava, nessuno Polidàmante che aveva esposto un buon piano" (XVIII, 310-314). Ci sono momenti straordinari di humour nero. Ridicolo e cinismo toccano l'apice quando si parla degli dei, con le loro ripicche puerili, i loro giochi meschini e i complotti di potere ad immagine e somiglianza di quelli degli uomini, ma molto più risibili. Fa continuamente capolino la domanda: ma in che mani siamo?

3. Per fortuna non si tratta di un "conflitto di civiltà", né di una guerra di religione. Tanto meno di "razze". Solo molti secoli dopo, attorno al V a.c., per il mondo greco gli uomini si sarebbero divisi in due categorie: gli elleni e i barbari, quelli che non parlavano la loro lingua. Ma la parola "barbaro" in Omero non ricorre nemmeno una volta. Achei, Danai, Argivi e Troiani, Teucri, Dardanidi (molti nomi per una stessa parte) hanno valori simili, si capiscono e si parlano tra di loro nella stessa lingua, anche se all'interno delle rispettive coalizioni ce ne dovevano essere molte ("né di tutti era uguale il grido, né una sola voce, ma si mischiava la lingua, erano genti di molti paesi" (IV, 437-438).

Hanno più o meno gli stessi dei, anche se alcuni di essi parteggiano più per gli uni che per gli altri. Fanno loro lo stesso genere di sacrifici. Hanno concezioni simili di onore e disonore, ira e solidarietà, ospitalità, alleanze, diplomazia, patti e trattati (l'omerista Peter Karavites ha dimostrato in modo convincente come agli uni e agli altri venissero dal Medio oriente). Niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con quel che differenzia Cristiani e Saraceni nella "Chanson de Roland", dove Paien unt tort e crestiens unt dreit, i pagani hanno sempre torto e i cristiani sempre ragione (anche se da Roncisvalle ci passano dopo aver distrutto non la musulmana Saragozza, ma la cristiana Pamplona, e gli autori dell'agguato non sono i mori ma i più o meno cristiani baschi).

C'è chi ne ha definito, ancora recentemente, la "prima guerra mondiale della storia",quella tra Europa e Asia. Chi vi ha visto la prima difesa collettiva dell'"onore" dell'Occidente. Nel film Troy, l'arrivo delle navi alleate achee sembra lo sbarco in Normandia. C'è chi, sul "New York Times", ha paragonato Agamennone al "Donald Rumsfeld dei suoi giorni, che irrita senza necessità i suoi alleati". E chi, all'opposto, ha paragonato Troia agli "Stati Uniti, repubblica commerciale e pacifica, che in genere ha cercato di evitare la guerra....assediata da capobanda pirati", la sua distruzione a quella subita da Manhattan. C'è qualcosa di affascinante nel modo in cui, come tutti i grandi capolavori del genio umano, l'Iliade possa essere letta e riletta, in epoche diverse, o nella stessa epoca, in modi diversi. Molti si sono posti il problema dell'imparzialità di Omero tra gli eroi dei due campi. Spesso arrivando alla conclusione che simpatizzi più per i troiani che per i greci. Anche se la faccenda non è così semplice, ci avverte Pierre Vidal-Naquet, nel suo delizioso Il mondo di Omero (da poco tradotto da Donzelli).

Ettore è chiamato "domatore di cavalli". Ma anche "massacratore". Certo è molto più "umano" di Achille. Troia sta ad Est, ha dei tratti di dispotismo e di lusso "orientali". Come livello di "civiltà" appare superiore, nelle costruzioni, nelle mura, nella ricchezza con cui talvolta i troiani si illudono di poter "comprare" la propria sicurezza, o riscattare i propri prigionieri. Un po' come Arnold Toynbee pensava fosse la Cartagine di Annibale di fronte a Roma. Sono un po' meno gangster dei loro avversari. Difendono le proprie case, le proprie famiglie, le proprie spose, i propri figli da avventurieri senza scrupoli, il cui proposito costantemente dichiarato è annientarli, bruciare la rocca di Ilio, distruggere Priamo e il suo casato, "dormire con le mogli dei troiani" e farne schiave, avventurieri che quando litigano lo fanno per la spartizione del bottino. Ci sono tensioni, ma non è una città in stasis, sull'orlo di una guerra civile. Quando litigano lo fanno perché qualcuno è convinto che la faccenda si possa risolvere scendendo a patti con gli achei, restituendo loro Elena e pagando i danni, mentre qualcun altro credono che l'unica via d'uscita sia combattere. Senza l'inganno del cavallo - diabolica infiltrazione terroristica alla bin Laden - forse avrebbero vinto loro.

4. Tutta l'Iliade potrebbe essere letta come sovrapposizione, gioco di incastri, coesistenza e scontro di mondi dentro altri mondi: quello degli individui e dei loro mutevoli stati d'animo, quelli dei due campi avversi, quello degli dei che scimmiotta il mondo degli uomini. Nel Libro X, quasi 180 versi (558-720) sono dedicati ad una rappresentazione dell'universo in miniatura, come quello che alcuni fisici sostengono si possa teoricamente fabbricare in laboratorio, riproducendo il big bang in provetta: il nuovo scudo fabbricato per Achille da Efesto, in sostituzione delle armi di cui Ettore ha spogliato, come costume, Patroclo. In nuce c'è già, con tremila anni di anticipo, un'atmosfera da fantascienza alla Isaac Asimov, Philip K. Dick e Ray Bradbury, con tanto di robot e automi "simili a fanciulle vive". É un'opera di arte visuale. Che però nessuno dei geni della pittura e della scultura che si sono succeduti nei millenni è riuscito a rappresentare in modo paragonabile.

Efesto lo zoppo vi fece, racconta Omero, "la terra, il cielo, e il mare, l'infaticabile sole e la luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano il cielo" . Poi "vi fece due città di mortali, belle". Una in pace, dove si celebrano "nozze e banchetti", danze, e la giustizia come seme della democrazia: "v'era del popolo nella piazza raccolto: e qui una lite sorgeva, due uomini litigavano per il compenso d'un morto; uno gridava d'aver tutto dato, dichiarandolo in pubblico, l'altro negava di aver niente avuto. Entrambi ricorrevano al giudice, per aver la sentenza, il popolo acclamava entrambi, di qua e di là difendendoli; gli araldi trattenevano il popolo...". L'altra città in guerra, la "circondavano intorno due campi d'armati, brillando nell'armi; doppio parere piaceva tra loro, o tutto distruggere o dividere in due la ricchezza che l'amabile città racchiudeva; quelli però non piegavano; s'armavano per un agguato. Il muro, le spose care e i figli piccoli difendevano impavidi, e gli uomini che vecchiaia spossava...".

Finché vengono alle mani, "e come fossero uomini vivi si mescolavano e lottavano e trascinavano i morti nella strage reciproca...". E, ancora, vi sono "un campo grasso, largo, da tre arature", e molti aratori; "un terreno regale", che "mietitori mietevano, falci taglienti avevano in mano", mentre in disparte, altri "ucciso un gran bue, lo imbandivano" e "le donne versavano, pranzo dei mietitori, molta farina bianca"; "una vigna stracarica di grappoli, bella"; e "una mandria di vacche, corna dritte", ma "tra le prime vacche due spaventosi leoni tenevano un toro muggente... tracannavano le viscere e il sangue nero"; e "un pascolo, in bella valle, grande, di pecore candide, e stalle e chiusi e capanne col tetto"; e danze, e "molta folla attorno alla danza graziosa", e "acrobati". "Infine vi fece la gran possanza del fiume Oceano lungo l'ultimo giro dello scudo".

La città è Troia. Ma perché è raffigurata sullo scudo di colui che si appresta a distruggerla? Ha forse a che fare col fatto che sull'Olimpo la vendicativa Era, pur di ottenere dallo sposo Zeus la distruzione della città che tanto odia, gli ha detto, nel Libro IV (51-54): "Ebbene, vi sono tre città a me carissime: Argo, Sparta e la spaziosa Micene; distruggile pure il giorno che tu le odiassi in cuore!"? La questione è tanto attuale che a questo brano del poema, e ad un suo rifacimento moderno (1955) da parte di W. H. Auden, lo studioso di diritto comparato e consigliere della Casa Bianca Philip Bobbitt ha intitolato il suo ponderoso libro (The Shield of Achilles) su guerra, pace e corsi e ricorsi della storia, dall'inizio dell'era moderna al dopo 11 settembre.

5. Terribili gli orrori della guerra. Il macello delle carni e dell'umanità, descritti con un'indulgenza, persino con una sorta di compiacimento nei dettagli che prefigura, forse supera Quentin Tarantino. Si ammazza, si stritolano mascelle, si umilia, si stupra e si massacrano bambini in tutte le maniere, fino alla particolareggiata descrizione finale dello scempio del cadavere di Ettore. Il dito entra nelle piaghe, c'è tanfo di morte e sangue rappreso, ronzano le mosche, si parla di vermi, avvoltoi, cani. Ci sono fasi diverse di ferocia: da quando la guerra vcomincia ad andare male non si fanno più prigionieri, non si riscattano gli ostaggi, neanche a peso d'oro. Si sgozza e si decapita a tutt'andare. Si trasformano in bestie i "buoni", si umanizzano i mostri "cattivi". Gli eroi sono spesso cortesi nei duelli, sanguinari nelle stragi. A volte giurano di voler fare anche peggio di quel che poi fanno: Achille vorrebbe sbranare crudo il cuore e il fegato di Ettore, promette sul cadavere del "dolce" Patroclo di tagliargli la testa e di sgozzare sulla sua pira "12 figli illustri dei teucri"(XVIII, 336); a Ettore magnanimo "il cuore lo spinge a infiggere le teste tagliate dal molle collo, sui pali" (X, 176-77).

Eppure, quello di Omero non è un poema "pacifista". Alessandro il Macedone se l'era portato dietro come livre de chevet nelle sue spedizioni. Lo divenne soprattutto tra le due guerre mondiali del secolo scorso, dopo l'inutile e incomprensibile carneficina della Prima. Una delle reinterpretazioni più suggestive è la La guerre de Troie n'aura pas lieu, di Jean Giraudoux. Nel 1935, alla vigilia della vittoria del Fronte popolare, il pubblico francese sentiva di trovarsi in una Troia vulnerabile, con Hitler nel ruolo di "tigre alla porte". É un testo magnifico, che demolisce tutte le possibili giustificazioni della guerra assurda, in cui c'è un'Andromaca che nota come "quando c'è la guerra nell'aria, tutti imparano a vivere in un nuovo elemento: la falsità", e un Ettore che se la prende col diritto come "la più possente delle scuole dell'immaginazione: mai poeta ha interpretato la natura così liberamente come un giurista la realtà".

Gli argomenti che fomentavano quel pacifismo non erano viltà e cedimento, ma il ricordo di una guerra che c'era stata davvero, che era stata presentata come quella "che avrebbe messo fine a tutte le guerre" e che invece non aveva risolto nulla, anzi aveva ottenuto l'effetto contrario. Non era stato il pacifismo a produrre l'obbrobrio di Monaco, ma una guerra sbagliata. Ironia atroce, che non toglie nulla all'ironia disgustosa che il bravo scrittore pacifista Giraudoux, divenuto ministro della propaganda di guerra, nel 1939 si spingesse a dichiarare che il pericolo più urgente alla sicurezza della sua douce France non sarebbero stati i nazisti, bensì "centomila ebrei eshkenaziti, scampati dai ghetti della Polonia o della Romania".

Ben altra tempra quella di Simone Weil, che nel 1940 pubblicò uno splendido saggio su L'Iliade o il poema della forza, in cui, forzando ogni tanto le traduzioni, si concentrava su "lo spettacolo inumano che l'Iliade non si stanca mai di mostrarci". C'è chi sostiene che fosse ossessionata dalle "foto" sui "Disastri della guerra" di Goya quanto dai versi di Omero. Polemizzò con Giraudoux sulla politica coloniale francese. L'"altro suo amore", dopo l'Iliade era la "resistenza araba" dei Sette pilastri della saggezza del colonnello Lawrence. Anche lei ad un certo punto si era lasciata convincere dall'appeasement di Monaco. Ma in seguito almeno l'intellettuale di origine ebrea poi convertita, scampata alle deportazioni, benché già malata, fece di tutto per arruolarsi nell'intelligence alleata. Altra "pacifista" pentita era la sua compagna di esilio a New York Rachel Bespaloff, intima di Jean Wahl e Hermann Broch, che pure lei aveva scritto, in piena guerra, un saggio sull'Iliade, contrapponendo Ettore come "eroe della resistenza", ad Achille "eroe della vendetta".

6. Si potrebbe continuare all'infinito. Nell'Iliade c'è di tutto, e molto di più. Ci sono l'origine dell'intelligence e i suoi limiti, nell'episodio di Dolone e delle parti contrapposte che si ripromettono di "uomini pieni d'odio spiare, vagando soli nella notte..." (X,40). C'è il ruolo del fato, anzi, i fati, e del loro interagire con i propositi degli uomini e anche degli dei. Ci sono gli "scambi ineguali" che vengono accettati, come quello del licio Glauco cui "Zeus allora levò il senno, che scambiò con Dimoede Titide armi d'oro con armi di bronzo, cento buoi con nove buoi" (VI, 235), e scambi "convenienti", come i doni che Odisseo propone ad Achille per placarne l'ira, o come quelli proposti per far cessare la guerra, che invece vengono rifiutati. Ci sono quasi tutte le passioni umane, e anche un ruolo delle donne, che in questa lettura ci accorgiamo di aver trascurato (attendiamo con ansia un prossimo libro della nostra carissima amica Eva Cantarella, come quello formidabile su Itaca che ci aveva spinto a rileggere l'Odissea).

C'è persino una possibile lettura di Achille come cowboy pistolero (non è anche Ettore "domatore di cavalli"?), che ci viene suggerita da una suggestiva lettura parallela dell'Iliade e del western Gli spietati di Clint Eastwood, ad opera di Mary Whitlock Blundell e Kirk Ormand. C'è la questione del "tifo sportivo", anche se, si sarà capito, escludiamo che Omero si sia mai fatto suggestionare dal clima da "curva sud". E altre mille interpretazioni ancora, che ci portano a concordare con l'osservazione di Jorge Luis Borges, per cui quella dell'Iliade è una delle tre/quattro "trame" che contiene in nuce tutte le altre storie che l'umanità continua a raccontarsi nei millenni. E spiega perché ciascuno possa rileggerla trovandovi ogni volta qualcosa di diverso e anche qualcosa di nuovo.

Se crede, a questo punto il lettore può anche andare a vedere Troy con Brad Pitt nel ruolo di Achille. Forse lo troverà meno noioso di questo articolo. Ma non vi troverà nessuno, assolutamente nessuno degli argomenti qui trattati. Troverà buoni e cattivi, una giusta punizione dei più cattivi, una versione addomesticata ai gusti del pubblico americano: non un lieto fine, che quello sarebbe stato proprio impossibile, ma qualcosa di simile, affidata ad una ragazzino dalla faccia un po' ebete ("Come ti chiami?" "Enea"), con la promessa di un sequel. Se invece siamo in qualche modo riusciti a convincere il lettore a rileggersi l'Iliade, superando la comprensibile avversione a come l'abbiamo letta a scuola nella traduzione ottocentesca del "traduttor dei traduttor di Omero" Ippolito Pindemonte (qui abbiamo utilizzato quella di Rosa Calzecchi Onesti per Einaudi), vi troverà, creda, molto, ma davvero molto di più di questi assaggi disordinati.

 





 

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