Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
Foglio.
L'Iliade
che conosciamo inizia con un furibondo litigio nella
coalizione greca sul se ritirarsi o meno da Troia.
Gli alleati sono stanchi, al nono anno di una guerra
che non porta da nessuna parte. Li sta decimando la
peste, neanche il nemico in campo aperto. Il loro
leader, Agamennone, ha messo in moto, per insipienza,
qualcosa che non prevedeva, ha offeso, "trattandolo
malamente", un religioso che non era nemmeno
suo nemico, non gli aveva scatenato una jihad contro,
che anzi gli augurava di vincere la guerra, e che
ha chiesto vendetta al suo dio (il cui nome comincia
per A).
Convocano l'assemblea. Achille propone di consultare
gli indovini, preoccupato che "respinti, credo,
ritorneremo indietro, purché sfuggiamo alla
morte, se guerra e peste insieme abbattono gli achei"
(Libro I, versi 60-61). Calcante, "il migliore
dei vati, che conosceva il presente e il futuro e
il passato" (I, 70: non è stato quindi
George Orwell a scoprire che anche, e forse soprattutto,
per il passato ci vogliono gli indovini), inizialmente
esita, dice che parlerà solo se giurano di
proteggerlo, "con parole e con mano", "perché
penso che qualcuno si adirerà", ed è
"troppo forte un re, quando si adira con uno
da meno" (I, 80). Gli fa un'analisi spassionata
di che cosa è andato storto e del come rimediare.
Come
previsto, Agamennone se la prende a male: "subito
guardando male Calcante gridò: 'Indovino di
mali, mai per me il buon augurio tu dici, sempre malanni
t'è caro al cuore predire, buona parola mai
dici, mai la compisci!'" (I, 105-109). Il suo
alleato Achille lo investe, dice che ne ha abbastanza,
che a questo punto lui fa fagotto e se ne torna a
casa sulle "concave navi", mette in discussione
le stesse premesse della guerra: "davvero non
pei troiani bellicosi io sono venuto a combattere
qui, non contro di me son colpevoli: mai le mie vacche
han rapito o i cavalli, mai ... han distrutto il raccolto...
ma te, o del tutto sfrontato, seguimmo, perché
tu gioissi... per te brutto cane".
Gli rimprovera un'ingiusta spartizione del bottino.
Ma anche una guerra che non lo riguarda più,
della quale non vede più la necessità.
Anche se Achille è l'ultimo che verrebbe da
sospettare come "pacifista". Già,
perché mai quella coalition of the willing
era andata a Troia? Per vendicare l'onore offeso di
Menelao, cui Paride ha portato via Elena. O magari
no, vai a sapere. Non si arriva alle 36 ragioni diverse
addotte per la guerra in Iraq (di cui 27 avanzate
in momenti diversi dall'amministrazione Bush) recentemente
censite nella tesi di laurea di una studentessa americana
22enne. Ma gli studiosi di quella spedizione e della
distruzione di Troia (una delle molte distruzioni,
quella che gli archeologi catalogano come Troia VIIA)
nel XIII secolo avanti Cristo (1230, non più
1287, è la data che ora va per la maggiore)
si sono sbizzarriti.
C'è
chi ha sostenuto che il ratto di Elena non figurasse
neppure nei cicli originari (avrebbe origine da unepica
ugaritica). Chi ipotizza che fosse una risposta ad
una razzia troiana nel Peloponneso. Chi sostiene che
il problema sarebbe stato il controllo delle comunicazioni
commerciali nell'Ellesponto. Chi ipotizza che la causa
primaria fossero i 10 anni di blocco, razzie, sanzioni,
occupazione e guerriglie del territorio circostante,
più che di continua guerra guerreggiata.
Sta che il poema che conosciamo come Iliade ruota
attorno al fatto che ad un certo punto qualcuno vuole
andarsene. Ad Achille, Agamennone risponde sprezzante:
"vattene se il cuore ti spinge; io davvero non
ti pregerò di restare con me, con me ci son
altri... vattene pure a casa con le tue navi, coi
tuoi compagni... di te non mi preoccupo" (I,173-180).
E tanto per fargli dispetto gli annuncia: "ma
mi prendo Briseide guancia graziosa". Si pentirà
amaramente di aver suscitato l'"ira funesta"
di un alleato che non gli sta simpatico nemmeno un
po', ma che gli è indispensabile. Solo verso
la fine dell'Iliade riusciranno a porvi in qualche
modo rimedio.
Un'altra assemblea si svolge subito dopo, nel Secondo
libro, convocata da Agamennone che, ingannato dal
"sogno cattivo" inviatogli da Zeus, convinto
di avere la vittoria in pugno, vuole mettere alla
prova i suoi. Egli dice l'ovvio, che "questa
è vergogna, anche per i futuri a saperla, che
invano un tale e tanto esercito di achei inconcludente
guerra guerreggi e combatta contro pochi nemici, e
non si vede la fine" (II, 119-122), che "a
noi l'opera è ancora incompiuta per cui venimmo
qua". Propone di tornarsene tutti a casa. Forse
scommettendo che quelli gli rispondano che non si
può scappare. Mal gliene incoglie: "a
quelli balzò il cuore in petto... con grida
di gioia balzarono verso le navi" (II,142-150).
E gli ci vorrà tutta la saggezza di Nestore
("voi parlate come fanciulli balbettanti, che
della guerra non hanno pensiero, ma come andranno
per noi alleanze e promesse?", II, 339), tutta
l'astuzia e l'arte della comunicazione di Odisseo
per fargli cambiare idea.
2. Agamennone non era un leader eletto, come funzionassero
assemblee e consigli è oggetto di illazione
e di disputa tra gli studiosi. Ma in qualche modo
anche lui deve già confrontarsi con la pubblica
opinione. Nel Libro II è rappresentata da un
personaggio eccezionale: Tersite, "che molte
parole sapeva in cuore" (II, 213). Il personaggio
di Tersite ha dato spunto, di epoca in epoca, a una
miriade di interpretazioni. Buffone, mestatore, disfattista,
uno che si fa beffe dell'autorità e dei nobili
ideali, oppure vox populi, "cittadino"
ante litteram, o addirittura campione della
"lotta di classe" popolare contro gli aristocratici,
una sorta di marinaio Vakulinchuk della Corazzata
Potemkin. Omero, che se è esistito, canta fatti
successi mezzo millennio prima, lo presenta come "odiosissimo".
Lo ridicolizza, ne fa una caricatura: "Era l'uomo
più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso
e zoppo di un piede, le spalle erano torte, curve
e cadenti sul petto; il cranio a pera, e radi i capelli"
(II, 216-219). Si presume che non avrebbe figurato
granché bene in tv: "diceva ingiurie,
vociando stridulo". Anche il riconoscimento sulle
"molte parole che sapeva in cuore" viene
ritrattato dall'aggiunta "ma a caso, non ordinate,
per sparlare dei re".
Ma quel che dice non sono sciocchezze, calunnie campate
in aria, è esattamente quello che ci è
stato raccontato nel libro precedente, anche se involgarito
dall'indulgenza al pettegolezzo, dall'accento esclusivo
sulle presunte bramosie sessuali di Agamennone. La
"linea" è esattamente quella dell'eroe
Achille: "Ah poltroni, brutti vigliacchi... a
casa sì, sulle navi torniamo, lasciamo costui
qui, a Troia, a digerirsi i suoi onori, che veda se
tutti noi lo aiutavamo o no" (II, 235-238). Mal
gliene incoglie: Odisseo, il grande, ammirevole, inimitabile
bugiardo, che non è tipo da far concessioni
alla par condicio, non ricorre nemmeno alla
sua superiore furbizia ed oratoria, va per le spicce,
risolve il problema pestando Tersite di santa ragione
con lo scettro.
É una pagina carica di humour. Gli aedi avevano
i loro committenti. Avevano molto spazio per fare
satira nei confronti dei potenti, ma probabilmente
entro certi limiti. Anche, e anzi soprattutto dopo
che s'era persa per strada l'origine divina del potere
(secondo gli achei Agamennone, per quanto potesse
fare stupidaggini, era una sorta di dio vivente).
Si ritiene che le prime edizioni autorizzate dell'Iliade
e dell'Odissea, nella forma in cui ci sono state tramandate,
siano apparse nel VI secolo sotto il patronato del
tiranno di Atene Pisistrato. Difficile gli potessero
andare a genio sbandate di democrazia ante litteram.
Omero se la cava prendendosi gioco di Tersite. Per
moltissimi secoli ancora avrebbe prevalso questa lettura.
Ma l'humour, la satira feroce di Omero non si limita
a Tersite. Per tutta l'Iliade si estende a tutti i
potenti. Non risparmia Agamennone né alcuno
dei grandi eroi. Non risparmia i suoi consiglieri,
nemmeno i più saggi, compreso il vecchio Nestore,
che non ne imbroccano una (prendono per buoni i sogni
falsi, gli dicono sempre di far le cose sbagliate).
Non risparmia Priamo, spesso ridicolo, e nemmeno Ettore,
il più modernamente umano di tutti, anche quando
raccoglie consenso: "Ettore parlò così,
i Troiani acclamarono, stolti!...tutti approvarono
Ettore che mal consigliava, nessuno Polidàmante
che aveva esposto un buon piano" (XVIII, 310-314).
Ci sono momenti straordinari di humour nero. Ridicolo
e cinismo toccano l'apice quando si parla degli dei,
con le loro ripicche puerili, i loro giochi meschini
e i complotti di potere ad immagine e somiglianza
di quelli degli uomini, ma molto più risibili.
Fa continuamente capolino la domanda: ma in che mani
siamo?
3. Per fortuna non si tratta di un "conflitto
di civiltà", né di una guerra di
religione. Tanto meno di "razze". Solo molti
secoli dopo, attorno al V a.c., per il mondo greco
gli uomini si sarebbero divisi in due categorie: gli
elleni e i barbari, quelli che non parlavano la loro
lingua. Ma la parola "barbaro" in Omero
non ricorre nemmeno una volta. Achei, Danai, Argivi
e Troiani, Teucri, Dardanidi (molti nomi per una stessa
parte) hanno valori simili, si capiscono e si parlano
tra di loro nella stessa lingua, anche se all'interno
delle rispettive coalizioni ce ne dovevano essere
molte ("né di tutti era uguale il grido,
né una sola voce, ma si mischiava la lingua,
erano genti di molti paesi" (IV, 437-438).
Hanno più o meno gli stessi dei, anche se alcuni
di essi parteggiano più per gli uni che per
gli altri. Fanno loro lo stesso genere di sacrifici.
Hanno concezioni simili di onore e disonore, ira e
solidarietà, ospitalità, alleanze, diplomazia,
patti e trattati (l'omerista Peter Karavites ha dimostrato
in modo convincente come agli uni e agli altri venissero
dal Medio oriente). Niente a che vedere, tanto per
fare un esempio, con quel che differenzia Cristiani
e Saraceni nella "Chanson de Roland", dove
Paien unt tort e crestiens unt dreit, i pagani
hanno sempre torto e i cristiani sempre ragione (anche
se da Roncisvalle ci passano dopo aver distrutto non
la musulmana Saragozza, ma la cristiana Pamplona,
e gli autori dell'agguato non sono i mori ma i più
o meno cristiani baschi).
C'è chi ne ha definito, ancora recentemente,
la "prima guerra mondiale della storia",quella
tra Europa e Asia. Chi vi ha visto la prima difesa
collettiva dell'"onore" dell'Occidente.
Nel film Troy, l'arrivo delle navi alleate
achee sembra lo sbarco in Normandia. C'è chi,
sul "New York Times", ha paragonato Agamennone
al "Donald Rumsfeld dei suoi giorni, che irrita
senza necessità i suoi alleati". E chi,
all'opposto, ha paragonato Troia agli "Stati
Uniti, repubblica commerciale e pacifica, che in genere
ha cercato di evitare la guerra....assediata da capobanda
pirati", la sua distruzione a quella subita da
Manhattan. C'è qualcosa di affascinante nel
modo in cui, come tutti i grandi capolavori del genio
umano, l'Iliade possa essere letta e riletta, in epoche
diverse, o nella stessa epoca, in modi diversi. Molti
si sono posti il problema dell'imparzialità
di Omero tra gli eroi dei due campi. Spesso arrivando
alla conclusione che simpatizzi più per i troiani
che per i greci. Anche se la faccenda non è
così semplice, ci avverte Pierre Vidal-Naquet,
nel suo delizioso Il mondo di Omero (da poco
tradotto da Donzelli).
Ettore è chiamato "domatore di cavalli".
Ma anche "massacratore". Certo è
molto più "umano" di Achille. Troia
sta ad Est, ha dei tratti di dispotismo e di lusso
"orientali". Come livello di "civiltà"
appare superiore, nelle costruzioni, nelle mura, nella
ricchezza con cui talvolta i troiani si illudono di
poter "comprare" la propria sicurezza, o
riscattare i propri prigionieri. Un po' come Arnold
Toynbee pensava fosse la Cartagine di Annibale di
fronte a Roma. Sono un po' meno gangster dei loro
avversari. Difendono le proprie case, le proprie famiglie,
le proprie spose, i propri figli da avventurieri senza
scrupoli, il cui proposito costantemente dichiarato
è annientarli, bruciare la rocca di Ilio, distruggere
Priamo e il suo casato, "dormire con le mogli
dei troiani" e farne schiave, avventurieri che
quando litigano lo fanno per la spartizione del bottino.
Ci sono tensioni, ma non è una città
in stasis, sull'orlo di una guerra civile. Quando
litigano lo fanno perché qualcuno è
convinto che la faccenda si possa risolvere scendendo
a patti con gli achei, restituendo loro Elena e pagando
i danni, mentre qualcun altro credono che l'unica
via d'uscita sia combattere. Senza l'inganno del cavallo
- diabolica infiltrazione terroristica alla bin Laden
- forse avrebbero vinto loro.
4. Tutta l'Iliade potrebbe essere letta come sovrapposizione,
gioco di incastri, coesistenza e scontro di mondi
dentro altri mondi: quello degli individui e dei loro
mutevoli stati d'animo, quelli dei due campi avversi,
quello degli dei che scimmiotta il mondo degli uomini.
Nel Libro X, quasi 180 versi (558-720) sono dedicati
ad una rappresentazione dell'universo in miniatura,
come quello che alcuni fisici sostengono si possa
teoricamente fabbricare in laboratorio, riproducendo
il big bang in provetta: il nuovo scudo fabbricato
per Achille da Efesto, in sostituzione delle armi
di cui Ettore ha spogliato, come costume, Patroclo.
In nuce c'è già, con tremila anni di
anticipo, un'atmosfera da fantascienza alla Isaac
Asimov, Philip K. Dick e Ray Bradbury, con tanto di
robot e automi "simili a fanciulle vive".
É un'opera di arte visuale. Che però
nessuno dei geni della pittura e della scultura che
si sono succeduti nei millenni è riuscito a
rappresentare in modo paragonabile.
Efesto lo zoppo vi fece, racconta Omero, "la
terra, il cielo, e il mare, l'infaticabile sole e
la luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano
il cielo" . Poi "vi fece due città
di mortali, belle". Una in pace, dove si celebrano
"nozze e banchetti", danze, e la giustizia
come seme della democrazia: "v'era del popolo
nella piazza raccolto: e qui una lite sorgeva, due
uomini litigavano per il compenso d'un morto; uno
gridava d'aver tutto dato, dichiarandolo in pubblico,
l'altro negava di aver niente avuto. Entrambi ricorrevano
al giudice, per aver la sentenza, il popolo acclamava
entrambi, di qua e di là difendendoli; gli
araldi trattenevano il popolo...". L'altra città
in guerra, la "circondavano intorno due campi
d'armati, brillando nell'armi; doppio parere piaceva
tra loro, o tutto distruggere o dividere in due la
ricchezza che l'amabile città racchiudeva;
quelli però non piegavano; s'armavano per un
agguato. Il muro, le spose care e i figli piccoli
difendevano impavidi, e gli uomini che vecchiaia spossava...".
Finché vengono alle mani, "e come fossero
uomini vivi si mescolavano e lottavano e trascinavano
i morti nella strage reciproca...". E, ancora,
vi sono "un campo grasso, largo, da tre arature",
e molti aratori; "un terreno regale", che
"mietitori mietevano, falci taglienti avevano
in mano", mentre in disparte, altri "ucciso
un gran bue, lo imbandivano" e "le donne
versavano, pranzo dei mietitori, molta farina bianca";
"una vigna stracarica di grappoli, bella";
e "una mandria di vacche, corna dritte",
ma "tra le prime vacche due spaventosi leoni
tenevano un toro muggente... tracannavano le viscere
e il sangue nero"; e "un pascolo, in bella
valle, grande, di pecore candide, e stalle e chiusi
e capanne col tetto"; e danze, e "molta
folla attorno alla danza graziosa", e "acrobati".
"Infine vi fece la gran possanza del fiume Oceano
lungo l'ultimo giro dello scudo".
La città è Troia. Ma perché è
raffigurata sullo scudo di colui che si appresta a
distruggerla? Ha forse a che fare col fatto che sull'Olimpo
la vendicativa Era, pur di ottenere dallo sposo Zeus
la distruzione della città che tanto odia,
gli ha detto, nel Libro IV (51-54): "Ebbene,
vi sono tre città a me carissime: Argo, Sparta
e la spaziosa Micene; distruggile pure il giorno che
tu le odiassi in cuore!"? La questione è
tanto attuale che a questo brano del poema, e ad un
suo rifacimento moderno (1955) da parte di W. H. Auden,
lo studioso di diritto comparato e consigliere della
Casa Bianca Philip Bobbitt ha intitolato il suo ponderoso
libro (The Shield of Achilles) su guerra, pace
e corsi e ricorsi della storia, dall'inizio dell'era
moderna al dopo 11 settembre.
5. Terribili gli orrori della guerra. Il macello delle
carni e dell'umanità, descritti con un'indulgenza,
persino con una sorta di compiacimento nei dettagli
che prefigura, forse supera Quentin Tarantino. Si
ammazza, si stritolano mascelle, si umilia, si stupra
e si massacrano bambini in tutte le maniere, fino
alla particolareggiata descrizione finale dello scempio
del cadavere di Ettore. Il dito entra nelle piaghe,
c'è tanfo di morte e sangue rappreso, ronzano
le mosche, si parla di vermi, avvoltoi, cani. Ci sono
fasi diverse di ferocia: da quando la guerra vcomincia
ad andare male non si fanno più prigionieri,
non si riscattano gli ostaggi, neanche a peso d'oro.
Si sgozza e si decapita a tutt'andare. Si trasformano
in bestie i "buoni", si umanizzano i mostri
"cattivi". Gli eroi sono spesso cortesi
nei duelli, sanguinari nelle stragi. A volte giurano
di voler fare anche peggio di quel che poi fanno:
Achille vorrebbe sbranare crudo il cuore e il fegato
di Ettore, promette sul cadavere del "dolce"
Patroclo di tagliargli la testa e di sgozzare sulla
sua pira "12 figli illustri dei teucri"(XVIII,
336); a Ettore magnanimo "il cuore lo spinge
a infiggere le teste tagliate dal molle collo, sui
pali" (X, 176-77).
Eppure, quello di Omero non è un poema "pacifista".
Alessandro il Macedone se l'era portato dietro come
livre de chevet nelle sue spedizioni. Lo divenne
soprattutto tra le due guerre mondiali del secolo
scorso, dopo l'inutile e incomprensibile carneficina
della Prima. Una delle reinterpretazioni più
suggestive è la La guerre de Troie n'aura
pas lieu, di Jean Giraudoux. Nel 1935, alla vigilia
della vittoria del Fronte popolare, il pubblico francese
sentiva di trovarsi in una Troia vulnerabile, con
Hitler nel ruolo di "tigre alla porte".
É un testo magnifico, che demolisce tutte le
possibili giustificazioni della guerra assurda, in
cui c'è un'Andromaca che nota come "quando
c'è la guerra nell'aria, tutti imparano a vivere
in un nuovo elemento: la falsità", e un
Ettore che se la prende col diritto come "la
più possente delle scuole dell'immaginazione:
mai poeta ha interpretato la natura così liberamente
come un giurista la realtà".
Gli argomenti che fomentavano quel pacifismo non erano
viltà e cedimento, ma il ricordo di una guerra
che c'era stata davvero, che era stata presentata
come quella "che avrebbe messo fine a tutte le
guerre" e che invece non aveva risolto nulla,
anzi aveva ottenuto l'effetto contrario. Non era stato
il pacifismo a produrre l'obbrobrio di Monaco, ma
una guerra sbagliata. Ironia atroce, che non toglie
nulla all'ironia disgustosa che il bravo scrittore
pacifista Giraudoux, divenuto ministro della propaganda
di guerra, nel 1939 si spingesse a dichiarare che
il pericolo più urgente alla sicurezza della
sua douce France non sarebbero stati i nazisti,
bensì "centomila ebrei eshkenaziti, scampati
dai ghetti della Polonia o della Romania".
Ben altra tempra quella di Simone Weil, che nel 1940
pubblicò uno splendido saggio su L'Iliade
o il poema della forza, in cui, forzando ogni
tanto le traduzioni, si concentrava su "lo spettacolo
inumano che l'Iliade non si stanca mai di mostrarci".
C'è chi sostiene che fosse ossessionata dalle
"foto" sui "Disastri della guerra"
di Goya quanto dai versi di Omero. Polemizzò
con Giraudoux sulla politica coloniale francese. L'"altro
suo amore", dopo l'Iliade era la "resistenza
araba" dei Sette pilastri della saggezza del
colonnello Lawrence. Anche lei ad un certo punto si
era lasciata convincere dall'appeasement di
Monaco. Ma in seguito almeno l'intellettuale di origine
ebrea poi convertita, scampata alle deportazioni,
benché già malata, fece di tutto per
arruolarsi nell'intelligence alleata. Altra
"pacifista" pentita era la sua compagna
di esilio a New York Rachel Bespaloff, intima di Jean
Wahl e Hermann Broch, che pure lei aveva scritto,
in piena guerra, un saggio sull'Iliade, contrapponendo
Ettore come "eroe della resistenza", ad
Achille "eroe della vendetta".
6. Si potrebbe continuare all'infinito. Nell'Iliade
c'è di tutto, e molto di più. Ci sono
l'origine dell'intelligence e i suoi limiti,
nell'episodio di Dolone e delle parti contrapposte
che si ripromettono di "uomini pieni d'odio spiare,
vagando soli nella notte..." (X,40). C'è
il ruolo del fato, anzi, i fati, e del loro interagire
con i propositi degli uomini e anche degli dei. Ci
sono gli "scambi ineguali" che vengono accettati,
come quello del licio Glauco cui "Zeus allora
levò il senno, che scambiò con Dimoede
Titide armi d'oro con armi di bronzo, cento buoi con
nove buoi" (VI, 235), e scambi "convenienti",
come i doni che Odisseo propone ad Achille per placarne
l'ira, o come quelli proposti per far cessare la guerra,
che invece vengono rifiutati. Ci sono quasi tutte
le passioni umane, e anche un ruolo delle donne, che
in questa lettura ci accorgiamo di aver trascurato
(attendiamo con ansia un prossimo libro della nostra
carissima amica Eva Cantarella, come quello formidabile
su Itaca che ci aveva spinto a rileggere l'Odissea).
C'è persino una possibile lettura di Achille
come cowboy pistolero (non è anche Ettore "domatore
di cavalli"?), che ci viene suggerita da una
suggestiva lettura parallela dell'Iliade e del western
Gli spietati di Clint Eastwood, ad opera di
Mary Whitlock Blundell e Kirk Ormand. C'è la
questione del "tifo sportivo", anche se,
si sarà capito, escludiamo che Omero si sia
mai fatto suggestionare dal clima da "curva sud".
E altre mille interpretazioni ancora, che ci portano
a concordare con l'osservazione di Jorge Luis Borges,
per cui quella dell'Iliade è una delle tre/quattro
"trame" che contiene in nuce tutte le altre
storie che l'umanità continua a raccontarsi
nei millenni. E spiega perché ciascuno possa
rileggerla trovandovi ogni volta qualcosa di diverso
e anche qualcosa di nuovo.
Se crede, a questo punto il lettore può anche
andare a vedere Troy con Brad Pitt nel ruolo
di Achille. Forse lo troverà meno noioso di
questo articolo. Ma non vi troverà nessuno,
assolutamente nessuno degli argomenti qui trattati.
Troverà buoni e cattivi, una giusta punizione
dei più cattivi, una versione addomesticata
ai gusti del pubblico americano: non un lieto fine,
che quello sarebbe stato proprio impossibile, ma qualcosa
di simile, affidata ad una ragazzino dalla faccia
un po' ebete ("Come ti chiami?" "Enea"),
con la promessa di un sequel. Se invece siamo in qualche
modo riusciti a convincere il lettore a rileggersi
l'Iliade, superando la comprensibile avversione a
come l'abbiamo letta a scuola nella traduzione ottocentesca
del "traduttor dei traduttor di Omero" Ippolito
Pindemonte (qui abbiamo utilizzato quella di Rosa
Calzecchi Onesti per Einaudi), vi troverà,
creda, molto, ma davvero molto di più di questi
assaggi disordinati.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it