Un
figlio sempre in fuga, che sogna di lasciare l'Argentina
riacquistando la nazionalità polacca dal nonno
scampato all'Olocausto. Un padre che ha lasciato Buenos
Aires per andare a combattere, e poi a vivere, in Israele,
da dove cerca di ricontattare il figlio abbandonato in
fasce. E' questa la coppia al centro di El abrazo partido
(L'abbraccio perduto), l'ultimo film del regista
argentino Daniel Burman, ma lo scopriremo solo poco a
poco: per tutto il film seguiremo Ariel - il figlio, interpretato
dall'uruguayano Daniel Hendler, che per questo ruolo ha
meritato il premio come Miglior attore all'ultimo Festival
di Berlino - nel corso delle sue peregrinazioni attraverso
un centro commerciale, La Galeria, un ricettacolo di varia
umanità: paraguayiani, boliviani, italiani, coreani,
e la nutrita comunità ebraica della quale fanno
parte sia Ariel che il regista del film.
Daniel Burman ha solo trentun'anni, ma è già
alla sua quarta regia, ha partecipato a numerosi festival
internazionali e con El abrazo partido ha appena
vinto l'Orso d'Argento-Gran Premio della Giuria a Berlino.
E' anche produttore: insieme a Robert Redford - Burman
aveva sviluppato la sceneggiatura di un suo precedente
film, Todas las azafatas van al cielo, con il
sostegno del Sundance Institute - ha coprodotto I diari
della motocicletta del brasiliano Walter Salles, e ha
partecipato - accanto ad Amedeo Pagani che, con la sua
Classic, coproduce tutti i film di Burman - alla produzione
di Garage Olimpo di Marco Bechis.
Il
suo approccio al cinema e alla vita è cosmopolita
da sempre, e Burman trova in Europa i finanziamenti per
tutti i suoi film: oltre alla Classic per l'Italia, partecipano
alla coproduzione la Paradis Film francese e la Wanda
Vision spagnola. "Quando vengo in Europa a negoziare
una coproduzione", dice il regista, venuto a Roma
per presentare El abrazo partido, "le trattative
sono simili a quelle che conduco in Argentina. Il rapporto
è semplice e lineare, lo scambio è chiaro
ed equo: io ti do un chilo di pere e tu mi dai un chilo
di mele. Quando tratto con i nordamericani, invece, non
so mai di che cosa stiamo parlando. Per vendere un film
in Europa non ho bisogno di fare il nome di grandi star,
mentre negli Stati Uniti bisogna sempre promettere la
luna".
Per il protagonista del suo film, la luna sembra
invece essere l'Europa. L'Europa, per la
generazione di Ariel (classe 1973, ndr), rappresenta
una sorta di fantasia di fuga, anche se quelli che,
dall'America Latina, ci sono andati davvero spesso sono
tornati delusi perché è un esilio economicamente
difficile da affrontare. La parte autobiografica del
film riguarda proprio il desiderio del protagonista
di acquisire una nazionalità europea: quando
ero più giovane, nel bel mezzo della crisi argentina,
come molti miei coetanei ho cercato di diventare europeo,
e siccome l'unica parentela che potevo vantare nel vecchio
continente era un nonno polacco, ho cercato di ottenere
il passaporto per la Polonia. Non essendo mai stato
in Europa, non distinguevo comunque un polacco da un
italiano o da un francese.
Ma perché l'Europa esercita un'attrattiva
così forte per un argentino?
Non
si tratta tanto dell'Europa in sé, quanto del
fatto di poter coltivare una speranza in un momento
di crisi. In questo senso l'Europa era diventata una
specie di El Dorado, un luogo dell'immaginazione che
funzionava come un guscio protettivo per chi, come noi,
si trovava ad affrontare un brutto periodo.
Nel suo film, l'Europa fa da specchio all'Argentina
e l'Argentina fa da specchio all'Europa. Quanto era
importante questo gioco di specchi all'interno della
trama?
Era fondamentale, tant'è vero che era molto
dettagliato anche in sceneggiatura - una sceneggiatura
di ferro, che ho scritto insieme a Marcelo Birmajer
(e che è stata premiata al Festival di Rotterdam,
ndr) - e che è stato ripreso visivamente attraverso
la scenografia e la regia: molti personaggi vedono la
loro immagine riflessa sulle vetrine del centro commerciale,
che a loro volta si riflettono l'una nell'altra. La
storia di El abrazo partido funziona per cerchi
concentrici, e la complessità delle relazioni
fra i personaggi si rivela solo poco a poco. E' un film
pensato come un trompe l'oeil, con tanti tranelli
per sviare e poi riacchiappare gli spettatori.
La Galeria è una sorta di microcosmo
etnico dove convivono varie etnie. Mi ha ricordato Alila
di Amos Gitai, che raccontava la convivenza sofferta
di varie etnie in un quartiere di Tel Aviv. Con la differenza
che in El abrazo partido prevale l'armonia.
Sì, nelle mie intenzioni La Galeria è
una metafora per la mescolanza pacifica delle varie
etnie in Argentina. Noi siamo abituati alla compresenza
del diverso, e la tolleranza è un atteggiamento
che ci viene spontaneo. Ci può capitare di detestare
uno perché non ci piace la sua faccia o la sua
auto, ma non perché non ci piace la sua nazionalità
o la sua razza. In questo siamo diversi dall'Europa,
che è ancora una società esplusiva: la
società argentina tende all'integrazione.
Il cinema argentino sta attraversando una fase
felice: penso, oltre a lei, a Lucretia Martel, che ha
partecipato al Festival di Cannes con La niña
santa, o a Juan José Campanella, il regista
de Il figlio della sposa, che nel 2002 è
stato candidato all'Oscar come Miglior film straniero.
Il cinema argentino attualmente gode di buona salute,
e sta trovando un mercato sia in patria che all'estero.
Paradossalmente si è sviluppato durante gli anni
della crisi, in modo autarchico, senza l'aiuto dello
stato. Dico paradossalmente perché di solito
le cinematografie forti sono quelle che trovano un sostegno
nell'apparato statale. Per fortuna è stata appena
passata una nuova legge che offre sostegno alla cinematografia
nazionale, anche se è una legge non ancora commensurata
alle esigenze vere del cinema e allo stato di sviluppo
del mio Paese. I finanziamenti al cinema provengono
comunque per la maggior parte dalla tassa applicata
sul costo dei biglietti, non dal budget totale dello
stato, che ha ben altre priorità. Per quanto
riguarda il successo del nostro cinema all'estero, va
detto che ci sono ancora molti film argentini di ottima
qualità che non riescono ad uscire dai confini
nazionali per banali problemi di costi.
Qual è la cinematografia che l'ha maggiormente
influenzata?
Qualcuno mi ha soprannominato il Woody Allen argentino,
un po' perché sono anch'io ebreo - anche se mi
definisco un ebreo agnostico - un po' perché
uso lo humour, anche quello yiddish, per parlare di
temi difficili. Mi piace molto Woody Allen, lo considero
uno dei grandi scrittori del Ventesimo secolo - mentre
lo stimo meno come regista - e credo che abbia avuto
il grande merito di restituire importanza alla parola
nel cinema, che deve essere solo immagine. Ma la sua
influenza sul mio lavoro si ferma lì, e di sicuro
non cerco di imitarlo. Ho subìto l'influenza
di molte altre cinematografie, fra cui quella italiana:
infatti in El abrazo partido ho inserito un
omaggio a I girasoli e, contestualmente, a Marcello
Mastroianni e Sofia Loren. Più che un'influenza
cinematografica, comunque, parlerei di influenza morale:
il coraggio di parlare di questioni molto semplici che
riguardano la vita quotidiana, dell'umanità a
livello minimo, della situazione politica e sociale
di un Paese attraverso la sua gente.
Cosa significa per lei fare cinema?
Sono un grande edonista, provo proprio un piacere fisico
a raccontare storie, a scrivere una sceneggiatura e
a manovrare la macchina da presa. Per un ebreo agnostico
come me, è come trovare il paradiso in terra.
Qualcuno si è stupito del fatto che nel
suo film figurino molte musiche tradizionali, ma neanche
un tango.
(Ride) Il tango è lo stereotipo europeo di ciò
che costituisce la musica tradizionale argentina. E'
vero, abbiamo Astor Piazzolla, che era un musicista
straordinario. Ma l'Argentina è molto più
del tango, basta solo avere la curiosità di ascoltare.
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