Sislej Xhafa,
nato nel 1970, è un albanese del Kosovo che ha
vissuto a lungo a Pisa e Firenze e si è poi trasferito
a New York, dove abita attualmente. Artista multimediale,
autore di performance e happening, collage e disegni,
quadri e installazioni, racconta la multiculturalità
in Europa e nel mondo, e si pone immancabilmente dalla
parte dei clandestini, come lui stesso è stato
per molto tempo, e come continua a sentirsi - ora per
scelta. Ha esposto in tutta Italia, in Austria, Olanda,
Belgio, Svizzera, Danimarca e Lussemburgo, ma anche a
Tokio, New York, Tel Aviv e São Paulo, e nel 2001
ha vinto il Primo Premio Fondazione Pistoletto.
Quello che segue è l'estratto di un'intervista
fatta all'artista da Giacinto di Pietrantonio per Janus
e ripubblicata sul catalogo Sislej Xhafa (Mazzotta), che
accompagnava la mostra see no evil/hear no evil/speak
no evil, presso l'Istituto Nazionale per la Grafica di
Roma.
L'illegalità, la clandestinità sono
fattori molto forti della realtà di sempre, ma
che si è andata evidenziando in Europa in questo
ultimo decennio, specialmente dopo la caduta del Muro
di Berlino. Sono fatti che accompagnano la grande migrazione
contemporanea dall'Est e dal Sud del mondo e che stanno
contribuendo alla costruzione della nuova Europa. Mi pare
che dare forma e voce a questo movimento d'umanità
debba essere uno dei compiti dell'arte oggi.
Il
mio approccio all'arte dal punto di vista dell'illegalità
tiene conto della realtà marginale e a me sembra
molto importante cercare di sconfiggere questi fantasmi,
superare il senso della sopravvivenza, e per questo
la via migliore è l'illegalità. Ma bisogna
anche tenere presente che la legalità è
fatta di tante cose che non condivido e l'illegalità
serve a sconfiggere questi pregiudizi, e che si può
collaborare con la società, con la vita quotidiana
tramite l'arte.
In che senso?
Sensibilizzando la vita quotidiana: quando presento
un'opera fatta in modo illegale, clandestino, è
come se dichiarassi che questo mio approccio illegale
appartiene alla nostra cultura europea.
E dove si collocano queste immagini e forme
dell'illegalità?
Ad
esempio nella realtà dell'arte: nella mostra
del Premio Querini Stampalia-Furla di Venezia ho presentato
un'opera che si chiama Sweet Invasion,
dove sono ritratti alcuni mafiosi albanesi come nuove
icone del contemporaneo. Non dimentichiamo che ci sono
stati molti artisti che hanno rappresentato persone
ai margini della società: pensiamo a Caravaggio.
Tuttavia, il mio lavoro non è legato solo alla
marginalità, ma è anche un'operazione
legale volta a realizzare un sogno, l'utopia di un buon
inizio fra me e la polizia.
Dopo questo lavoro sono molto ottimista, perché
ho realizzato un sogno, per me la polizia è casa
mia, in quanto ho l'esperienza personale di dover andare
ogni anno, da dieci anni, presso i suoi uffici in Italia
per avere il permesso di soggiorno, oppure presso la
polizia del Kosovo. La polizia è la casa di tutti,
è casa nostra e quindi deve avere un'accoglienza
con whiskey e champagne.
A questo però contrapponi persone con
il passamontagna, come quando hai incappucciato i componenti
della Filarmonica di Anversa. Come a dire siamo tutti
a casa della polizia, perché siamo tutti clandestini?
Ho iniziato quel progetto in Albania, dove ho fatto
una performance con un violoncellista incappucciato
che suonava nel Museo d'arte contemporanea di Tirana.
Poi ho voluto svilupparlo in un Paese europeo che avesse
una filarmonica. Era un progetto che riguardava i pregiudizi
che dell'Occidente nei confronti dei Paesi altri, che
sono visti come il Male, ed io con quella performance
volevo cambiare questi pregiudizi, dire: anche i criminali
sanno suonare Beethoven, Mozart e Bach.
C'era
anche il discorso del terrorismo dell'Eta o dell'Uck,
di chi agisce in modo estremo quando manca il dialogo.
Un esempio è la Cecenia, dove i russi hanno trasformato
gente che vuole solo l'indipendeza e la libertà
in integralisti e terroristi. Perché i ceceni
non possono essere parte del dialogo e partecipare nella
costruzione della società?
Quindi il passamontagna è un simbolo?
Per me l'arte è politica, ma quest'opera èeralegata
più ai pregiudizi relativi alla criminalità,
al terrorismo, alle categorie del negativo in senso
globale. Soprattutto riguardava il sogno d'integrazione,
in qualsiasi ambito. Un'altra cosa sulla quale volevo
riflettere era l'uso strumentale che si fa della musica,
quando i dittatori se ne appropriano per parlare di
cose con cui la musica non c'entra niente, per esempio
quando Hitler associava certa musica classica alla razza
ariana.
Si capisce che il tuo è un tentativo
di ridefinire i confini, di spostarli, anche perché
sono le frontiere reali, i bordi dei territori e della
geografia dell'esistenza che si vanno continuamente
ridefinendo, e tutto questo comprende pure la riconsiderazione
del significato di criminale e combattente, che tu non
consideri più così distinti.
La vita è una lotta per raggiungere la soddisfazione,
non la perfezione. Una lotta che può andare dal
mangiare una mela al fare l'amore alla lotta fisica,
ma che mette sempre in primo piano te stesso. Per questo,
per una mia opera, ho invitato sette partigiani della
seconda guerra mondiale a sedersi intorno ad un tavolo
progettato da me. In questo caso mi interessava attivare
un dialogo fra la memoria della lotta e la possibilità
di lottare oggi, fra l'esperienza del passato e l'attività
del presente e della contemporaneità. Difatti,
nella discussione che ne è seguita i partigiani
invitavano noi giovani a proporre nuove strategie di
combattimento e di resistenza, perché il nemico
oggi è un altro, meno visibile ma non meno pericoloso,
e per questo è necessario adottare tecniche di
guerriglia e di resistenza esistenziali.
Ma tu pensi che l'artista debba lottare per
se stesso o per la società?
Qualsiasi partecipazione artistica contamina la società,
la politica, l'economia e il costume. Certamente tutto
questo contribuisce ad una crescita mentale delle persone,
cerca di dare nuovi stimoli alla società. Ad
esempio, quando ho fatto l'opera Ballottaggio
era tempo di elezioni in Italia, ma io come tutti gli
extracomunitari non avevo diritto di votare, allora
ho messo in piedi un'azione in cui entravo e uscivo
continuamente da un cassonetto dell'immondizia, mentre
nella realtà del seggio elettorale lì
a fianco gli italiani entravano e uscivano dalla cabina
elettorale. Volevo commentare così il fatto che
gli extracomunitari sono trattati come immondizia.
Hai incluso anche il calcio con uno dei tuoi
primi lavori, perché?
Lo sport, oltre ad essere importante per lo sviluppo
psicofisico delle persone, è un linguaggio universale.
Quando ho fatto quest'opera, una performance clandestina
alla Biennale del 1997, cercavo di proporre un gioco
leale, sincero, perché il Padiglione albanese
non c'era e io mi sono proposto come tale. Ho scavalcato
il recinto dei Giardini della Biennale fra il Padiglione
inglese e quello francese e, vestito da calciatore della
Nazionale albanese con in spalla uno zaino da cui fuoriusciva
la radiocronaca registrata di una partita di calcio
e una bandierina albanese, mi sono messo a camminare
palleggiando. Non mi rappresentavo come artista, ma
come Padiglione albanese in movimento, per rappresentare
la mobilità della mia gente che cerca una vita
migliore in Europa.
Questa trasformazione del mondo ad opera dell'altro
è centrale nella società come nell'arte.
Sì, ad esempio io considero la Slovenia un ponte
fra Est ed Ovest, un rimorchio di grandi sofferenze
che viaggiano dall'Est verso Occidente, verso il paradiso
europeo. Una volta che sono stato invitato a Manifesta
ho voluto parlare proprio di questo, e ho proposto una
performance e poi un video in cui ero vestito come un
agente di Borsa, di quelli che si vedono a Wall Street,
ma invece che alla Borsa mi sono recato alla stazione
di Lubiana, a leggere ad alta voce gli orari dei treni
cercando di smistare i passeggeri al posto delle azioni,
come avverrebbe in una Borsa vera.
Si trattava di una riflessione non sull'economia delle
merci ma sul mercato delle persone che migrano da un
Paese all'altro, sulla globalizzazione di quel mercato
umano e sui pericoli e le speranze ai quali vanno incontro
gli emigrati durante il loro viaggio della speranza.
Tieni presente che negli stessi giorni in Inghilterra,
a Dover, sono stati scoperti un centinaio di clandestini
morti dentro un camion, persone che non ce l'hanno fatta
a raggiungere il paradiso europeo.
La parola paradiso ricorre spesso nei tuoi discorsi
e nelle tue opere, e indica sempre un movimento verso
una realtà migliore. Hai anche chiamato una tua
opera Viaggio caldo verso il Paradiso.
Bisogna tenere presente che quel paradiso è
creato dai mass media. Ad esempio a Valona, in Albania,
si vede la televisione italiana, sia pubblica che privata,
che ci propone un mondo facile, felice, ricco, pieno
di luci, di colori e di ballerine. Ci viene presentato
un paradiso mediale come soluzione finale della vita,
e poi quando usciamo di casa ci troviamo davanti la
miseria dell'Albania. E anche quando emigriamo ci accorgiamo
che l'Italia non è come la vedevamo in televisione,
che quel paradiso era solo una manipolazione mediale
della realtà. E ci domandiamo, dov'è quell'abbraccio
caldo che viene promesso dai media, del quale avremmo
bisogno per un'integrazione vera?
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