252 - 01.05.04


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Com’è triste diventare grandi

Barbara Iannarella


Amèlie Nothomb, Dizionario dei nomi propri, Traduzione di Monica Capuani, Voland, pp 160, Euro 13

Questa volta Amèlie Nothomb ci ha un po’ deluso, e ci dispiace moltissimo, perché la giovane scrittrice francese ci aveva abituati ad una prosa esaltante ed esaltata, che lasciava all’immaginazione e alla fantasia del lettore, incalzato dalla spinta evocativa delle immagini, immaginare il suo mondo incantato alla rovescia. Nel precedente Metafisica dei tubi, in cima alle vendite in Francia e poi in Europa, la Nothomb aveva iniziato un percorso autobiografico surreale e canzonatorio, parlandoci della sua discesa nel mondo degli adulti, e deliziandoci con la storia di una bimbetta di tre anni che si crede Dio e innoridisce di fronte all’enorme bocca di una carpa.

Nel suo ultimo libro, Dizionario dei nomi propri (Voland), lo stile è sempre lo stesso ma l’atmosfera è più cupa e tesa, meno spensierata. La bimba di Metafisica dei tubi ora è diventata adolescente e si scontra con un mondo crudele e cinico. La protagonista di Dizionario dei nomi propri, Plectrude, non assomiglia all’autrice, ma alla bellissima cantante francese Robert, amica della Nothomb, che ha dedicato ad Amelie alcune sue canzoni ed è stata ricambiata col titolo originale di Dizionario dei nomi propri, che è Robert des noms propres.

Robert infatti è il nome del dizionario che la giovane Plectrude consulta per trovare il significato della termine rat, perché rats vengono soprannominati gli insegnanti della scuola di ballo dell’Operà di Parigi dove la piccola cerca di realizzare il suo sogno di diventare étoile. Si ritrova invece in un covo di carcerieri, meschini e avidi di bellezza, addestrati a succhiare linfa vitale dalle proprie allieve, fino a ridurle a scheletri danzanti, automi senza più un briciolo di passione o sentimento.

Il tema dell’anoressia ha fatto parte della vita di Amèlie Nothomb e forse è stato proprio il descrivere la caduta e l’isolamento che il rifiuto del cibo porta alla giovane Plectrude a guastare la freschezza del racconto e a portare la storia, con un’accelerazione innaturale, verso un lieto fine che appare forzato, come se la ferita dell'autrice, ancora viva e presente, la spingesse a liberarsi con urgenza del ricordo della malattia. Un lieto fine che nasconde un suicidio letterario e lascia dunque l’amaro in bocca.







 

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