Amèlie
Nothomb, Dizionario dei nomi propri, Traduzione
di Monica Capuani, Voland, pp 160, Euro 13
Questa
volta Amèlie Nothomb ci ha un po’ deluso,
e ci dispiace moltissimo, perché la giovane scrittrice
francese ci aveva abituati ad una prosa esaltante ed esaltata,
che lasciava all’immaginazione e alla fantasia del
lettore, incalzato dalla spinta evocativa delle immagini,
immaginare il suo mondo incantato alla rovescia. Nel precedente
Metafisica dei tubi, in cima alle vendite in
Francia e poi in Europa, la Nothomb aveva iniziato un
percorso autobiografico surreale e canzonatorio, parlandoci
della sua discesa nel mondo degli adulti, e deliziandoci
con la storia di una bimbetta di tre anni che si crede
Dio e innoridisce di fronte all’enorme bocca di
una carpa.
Nel suo ultimo libro, Dizionario dei nomi propri
(Voland), lo stile è sempre lo stesso ma l’atmosfera
è più cupa e tesa, meno spensierata. La
bimba di Metafisica dei tubi ora è diventata
adolescente e si scontra con un mondo crudele e cinico.
La protagonista di Dizionario dei nomi propri,
Plectrude, non assomiglia all’autrice, ma alla bellissima
cantante francese Robert, amica della Nothomb, che ha
dedicato ad Amelie alcune sue canzoni ed è stata
ricambiata col titolo originale di Dizionario dei
nomi propri, che è Robert des noms propres.
Robert
infatti è il nome del dizionario che la giovane
Plectrude consulta per trovare il significato della termine
rat, perché rats vengono soprannominati
gli insegnanti della scuola di ballo dell’Operà
di Parigi dove la piccola cerca di realizzare il suo sogno
di diventare étoile. Si ritrova invece in un covo
di carcerieri, meschini e avidi di bellezza, addestrati
a succhiare linfa vitale dalle proprie allieve, fino a
ridurle a scheletri danzanti, automi senza più
un briciolo di passione o sentimento.
Il tema dell’anoressia ha fatto parte della vita
di Amèlie Nothomb e forse è stato proprio
il descrivere la caduta e l’isolamento che il rifiuto
del cibo porta alla giovane Plectrude a guastare la freschezza
del racconto e a portare la storia, con un’accelerazione
innaturale, verso un lieto fine che appare forzato, come
se la ferita dell'autrice, ancora viva e presente, la
spingesse a liberarsi con urgenza del ricordo della malattia.
Un lieto fine che nasconde un suicidio letterario e lascia
dunque l’amaro in bocca.
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