Per
Fly incarna il nuovo cinema danese: perché ha 44
anni e si è diplomato alla Scuola di Cinema di
Copenhagen, dove ora insegna; perché i suoi film
sono prodotti dalla Zentropa Entertainments di Lars Von
Trier; perché crede in un cinema innovativo e nella
cooperazione fra cineasti dello stesso Paese (e dello
stesso credo). Tuttavia non è mai stato un seguace
del Dogma, il set di regole cinematografiche stilato da
Von Trier e da Thomas Vinterberg, forse i due più
noti cineasti danesi contemporanei. E guarda spesso e
volentieri al passato, sia quello cinematografico che
quello teatrale. Il suo ultimo film (il primo uscito
nelle sale in Italia), L'eredità, campione
di incassi in Danimarca e vincitore di sette premi Robert
(gli Oscar danesi), è una tragedia che attinge
tanto all'antica Grecia quanto all'opera omnia shakespeariana
- evidente la somiglianza fra il protagonista e la madre
ai loro corrispettivi dell'Amleto, esplicita
la citazione da Romeo e Giulietta. “L'eredità
racconta il rapporto fra il destino e la volontà
individuale, la passione e il senso del dovere",
spiega il regista. "Ma parla anche di disparità
sociali e di gravi crisi economiche, in grado di cambiare
la vita di molti individui".
Eppure la Danimarca sembra il Paese del benessere.
E'
vero che l'80% della popolazione danese appartiene alla
media borghesia. Ma c'è un restante 20% che è
completamente polarizzato fra due estremi: da una parte
l'altissima borghesia, i grandi capitali, le famiglie
dei potenti, dall'altra i diseredati, le cui sorti dipendono
dalle strette della macroeconomia tanto quanto dalle
decisioni individuali dei singoli industriali. L'eredità
fa parte di una trilogia, dedicata proprio al tema della
disparità sociale ed economica nel mio Paese.
Il primo film della trilogia, The bench (La
panchina), raccontava la storia di un alcolizzato che
passa le sue giornate sulla panchina di un parco. L'eredità
descrive una famiglia di ricchissimi industriali dell'acciaio.
Il terzo film, The killing, racconterà
di un omicidio consumato nell'ambiente della media borghesia,
e a uccidere - anche se per sbaglio - sarà un
attivista di sinistra.
L'accento che lei pone sulle tematiche economiche
e sociali è stato esplorato da altri autori europei
contemporanei - da Aki Kaurismaki a Laurent Cantet,
dai fratelli Dardenne a Fernando León de Aranoa,
da Riccardo Milani al "padre" del genere:
Ken Loach. Come si sente in questa compagnia?
Confortato: i temi della disoccupazione e delle grandi
contrazioni economiche sono storia di tutti i giorni
in Europa, quindi è normale che registi di vari
paesi europei ne parlino con partecipazione. Quello
che cerco di fare io è trattare questi temi da
angolazioni diverse. Inizialmente proprio Ken Loach
sembrava interessato a collaborare a L'eredità,
ma quando gli ho detto che avrei voluto raccontare una
crisi aziendale cercando di vedere le cose dal punto
di vista dell'imprenditore, lui mi ha risposto: "E'
impossibile".
C'è ancora spazio in Europa per un cinema
di impegno sociale?
L'importante è non fare film "a tesi",
cioè partendo da un postulato e cercando a tutti
i costi di dimostrarlo. Le mie storie partono da una
ricerca approfondita su realtà che non conosco:
quella dei senzatetto, quella della grande industria,
quella dell'attivismo politico. Ma da questa esplorazione
minuziosa del reale estraggo trame completamente inventate.
I miei personaggi sono sempre molto presenti a se stessi,
e questo ha fatto dire a qualcuno che sono cinici. Ma
io li vedo semplicemente come realisti che "leggono"
la loro condizione in maniera obiettiva. E provo empatia
per tutti. Se il barbone strangolato dall'alcol di The
bench sta in una posizione difficile, anche il
magnate dell'acciaio di L'eredità, strangolato
da responsabilità che interferiscono pesantemente
con la sua vita privata, non se la passa affatto bene.
Anche se è più difficile per me simpatizzare
con lui: io vengo dalla piccolissima borghesia.
Come funziona la Zentropa di Lars Von Trier?
E' una sorta di factory, situata in una ex accademia
militare, dove Lars e gli altri registi - Thomas Vinterberg,
il decano Jorgen Leth, Lone Sherfin (il regista di Italiano
per principianti, ndr), il "figlioccio"
di Ingmar Bergman Bille August - lavorano insieme, si
scambiano idee e copioni, partecipano reciprocamente
alle rispettive avventure produttive. Augurerei a qualunque
paese europeo di avviare un simile centro di sperimentazione
e collaborazione.
Le produzioni della Zentropa sono dirette tanto
al cinema quanto alla televisione, e lei stesso ha girato
alcuni telefilm. Non c'è conflittualità
fra i due media?
No, nemmeno dal punto di vista creativo. Certo, non
potrei mai girare una soap opera, che ha tempi e codici
ben diversi da quelli del cinema. Ma la televisione
danese, quando viene a cercare uno di noi, sa che può
aspettarsi un prodotto di livello, e ci lascia operare
secondo i nostri standard. Del resto anche i miei film
per le sale sono girati in Beta digitale, il supporto
classico della televisione. In Danimarca comunque non
esiste la spocchia verso il piccolo schermo, neanche
per gli attori, che passano tranquillamente dal set
cinematografico a quello televisivo. Anche perché
in televisione ci sono più soldi che nel cinema.
Che cosa può dirci della Scuola di Cinema
Danese, che lei ha frequentato e dove insegna?
E' un'ottima palestra, e infatti attira non solo i
talenti danesi ma anche registi e attori provenienti
dal resto della Scandinavia (e anche qualche "esterno",
ad esempio il regista islandese Dagur Kari, ndr). In
generale, lo stato danese dà molta importanza
all'istruzione cinematografica, tant'è vero che
a Copenhagen c'è un liceo interamente dedicato
al cinema che fa da calamita per giovanissimi da tutta
Europa, e incoraggia attivamente questa multiculturalità.
Secondo lei, esiste un cinema europeo?
Che esista un cinema europeo, si capisce non tanto
dalle similitudini fra le varie cinematografie nazionali
d'Europa, ma dalla loro radicale differenza col cinema
americano. Il nostro è ancora un cinema autoriale,
che promuove la messa in scena della visione personale
del regista, ed è anche un cinema artigianale,
dove ognuno è costretto a fare un po' di tutto,
a inventarsi soluzione tecniche a fronte di budget modesti.
In America questo non si può più fare.
Ci sono eccezioni, naturalmente: Gus Van Sant, che può
contare sui soldi di Hollywood, ha girato un film straordinariamente
personale come Elephant. E infatti la definizione
più frequente di quel film nelle recensioni americane
è stata: un film "europeo".
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