251 - 17.04.04


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Giovane scuola danese

Per Fly con Paola Casella


Per Fly incarna il nuovo cinema danese: perché ha 44 anni e si è diplomato alla Scuola di Cinema di Copenhagen, dove ora insegna; perché i suoi film sono prodotti dalla Zentropa Entertainments di Lars Von Trier; perché crede in un cinema innovativo e nella cooperazione fra cineasti dello stesso Paese (e dello stesso credo). Tuttavia non è mai stato un seguace del Dogma, il set di regole cinematografiche stilato da Von Trier e da Thomas Vinterberg, forse i due più noti cineasti danesi contemporanei. E guarda spesso e volentieri al passato, sia quello cinematografico che quello teatrale.

Il suo ultimo film (il primo uscito nelle sale in Italia), L'eredità, campione di incassi in Danimarca e vincitore di sette premi Robert (gli Oscar danesi), è una tragedia che attinge tanto all'antica Grecia quanto all'opera omnia shakespeariana - evidente la somiglianza fra il protagonista e la madre ai loro corrispettivi dell'Amleto, esplicita la citazione da Romeo e Giulietta. “L'eredità racconta il rapporto fra il destino e la volontà individuale, la passione e il senso del dovere", spiega il regista. "Ma parla anche di disparità sociali e di gravi crisi economiche, in grado di cambiare la vita di molti individui".

Eppure la Danimarca sembra il Paese del benessere.

E' vero che l'80% della popolazione danese appartiene alla media borghesia. Ma c'è un restante 20% che è completamente polarizzato fra due estremi: da una parte l'altissima borghesia, i grandi capitali, le famiglie dei potenti, dall'altra i diseredati, le cui sorti dipendono dalle strette della macroeconomia tanto quanto dalle decisioni individuali dei singoli industriali. L'eredità fa parte di una trilogia, dedicata proprio al tema della disparità sociale ed economica nel mio Paese. Il primo film della trilogia, The bench (La panchina), raccontava la storia di un alcolizzato che passa le sue giornate sulla panchina di un parco. L'eredità descrive una famiglia di ricchissimi industriali dell'acciaio. Il terzo film, The killing, racconterà di un omicidio consumato nell'ambiente della media borghesia, e a uccidere - anche se per sbaglio - sarà un attivista di sinistra.

L'accento che lei pone sulle tematiche economiche e sociali è stato esplorato da altri autori europei contemporanei - da Aki Kaurismaki a Laurent Cantet, dai fratelli Dardenne a Fernando León de Aranoa, da Riccardo Milani al "padre" del genere: Ken Loach. Come si sente in questa compagnia?

Confortato: i temi della disoccupazione e delle grandi contrazioni economiche sono storia di tutti i giorni in Europa, quindi è normale che registi di vari paesi europei ne parlino con partecipazione. Quello che cerco di fare io è trattare questi temi da angolazioni diverse. Inizialmente proprio Ken Loach sembrava interessato a collaborare a L'eredità, ma quando gli ho detto che avrei voluto raccontare una crisi aziendale cercando di vedere le cose dal punto di vista dell'imprenditore, lui mi ha risposto: "E' impossibile".

C'è ancora spazio in Europa per un cinema di impegno sociale?

L'importante è non fare film "a tesi", cioè partendo da un postulato e cercando a tutti i costi di dimostrarlo. Le mie storie partono da una ricerca approfondita su realtà che non conosco: quella dei senzatetto, quella della grande industria, quella dell'attivismo politico. Ma da questa esplorazione minuziosa del reale estraggo trame completamente inventate. I miei personaggi sono sempre molto presenti a se stessi, e questo ha fatto dire a qualcuno che sono cinici. Ma io li vedo semplicemente come realisti che "leggono" la loro condizione in maniera obiettiva. E provo empatia per tutti. Se il barbone strangolato dall'alcol di The bench sta in una posizione difficile, anche il magnate dell'acciaio di L'eredità, strangolato da responsabilità che interferiscono pesantemente con la sua vita privata, non se la passa affatto bene. Anche se è più difficile per me simpatizzare con lui: io vengo dalla piccolissima borghesia.

Come funziona la Zentropa di Lars Von Trier?

E' una sorta di factory, situata in una ex accademia militare, dove Lars e gli altri registi - Thomas Vinterberg, il decano Jorgen Leth, Lone Sherfin (il regista di Italiano per principianti, ndr), il "figlioccio" di Ingmar Bergman Bille August - lavorano insieme, si scambiano idee e copioni, partecipano reciprocamente alle rispettive avventure produttive. Augurerei a qualunque paese europeo di avviare un simile centro di sperimentazione e collaborazione.

Le produzioni della Zentropa sono dirette tanto al cinema quanto alla televisione, e lei stesso ha girato alcuni telefilm. Non c'è conflittualità fra i due media?

No, nemmeno dal punto di vista creativo. Certo, non potrei mai girare una soap opera, che ha tempi e codici ben diversi da quelli del cinema. Ma la televisione danese, quando viene a cercare uno di noi, sa che può aspettarsi un prodotto di livello, e ci lascia operare secondo i nostri standard. Del resto anche i miei film per le sale sono girati in Beta digitale, il supporto classico della televisione. In Danimarca comunque non esiste la spocchia verso il piccolo schermo, neanche per gli attori, che passano tranquillamente dal set cinematografico a quello televisivo. Anche perché in televisione ci sono più soldi che nel cinema.

Che cosa può dirci della Scuola di Cinema Danese, che lei ha frequentato e dove insegna?

E' un'ottima palestra, e infatti attira non solo i talenti danesi ma anche registi e attori provenienti dal resto della Scandinavia (e anche qualche "esterno", ad esempio il regista islandese Dagur Kari, ndr). In generale, lo stato danese dà molta importanza all'istruzione cinematografica, tant'è vero che a Copenhagen c'è un liceo interamente dedicato al cinema che fa da calamita per giovanissimi da tutta Europa, e incoraggia attivamente questa multiculturalità.

Secondo lei, esiste un cinema europeo?

Che esista un cinema europeo, si capisce non tanto dalle similitudini fra le varie cinematografie nazionali d'Europa, ma dalla loro radicale differenza col cinema americano. Il nostro è ancora un cinema autoriale, che promuove la messa in scena della visione personale del regista, ed è anche un cinema artigianale, dove ognuno è costretto a fare un po' di tutto, a inventarsi soluzione tecniche a fronte di budget modesti. In America questo non si può più fare. Ci sono eccezioni, naturalmente: Gus Van Sant, che può contare sui soldi di Hollywood, ha girato un film straordinariamente personale come Elephant. E infatti la definizione più frequente di quel film nelle recensioni americane è stata: un film "europeo".

 


 

 

 


 

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